INCERTEZZA
CHE VIENE DA LONTANO
di ALESSANDRO ZACCURI
Passano i
giorni, la data del 14 settembre si avvicina, non diminuisce l’incertezza su
quello che, da qui a qualche settimana, avverrà o non avverrà nelle scuole
italiane. Si tratta di una sensazione ben nota a studenti e famiglie, a
insegnanti e dirigenti. Non da oggi, e neppure da ieri, da quando cioè
l’emergenza sanitaria scatenata dal Covid-19 ha fatto spuntare le ruote ai
banchi, reso dinamiche le unità di misura e aperto il dibattito sull’obbligo di
indossare le mascherine chirurgiche in classe. Sono almeno vent’anni, infatti,
che la scuola italiana è diventata imprevedibile e non di rado imperscrutabile,
inducendo un’assuefazione al contrordine che dispensa ormai dalla conoscenza
dell’ordine in via di smentita.
Si cambia di
continuo e sempre per un buon motivo, d’accordo: sempre
per tenersi al passo con i tempi, per accettare una sfida, per
essere competitivi e aggiornati. È una frenesia forse indotta dal
passaggio di millennio, è il rincorrersi di riforme che ogni
volta sembrano prescindere dalle decisioni prese solo
qualche anno prima. Una colossale impresa bipartisan, nel senso
che ognuno dei Governi succedutisi negli ultimi due decenni l’ha
rivendicata e fatta
propria, poco o nulla recependo di quanto era stato stabilito dal Governo
precedente.
Quante volte,
per esempio, è cambiato l’esame di maturità? Anche ad anno scolastico già
avviato, come sappiamo, con il conseguente riconteggio dei crediti scolastici,
con le ambiguità pressoché inestricabili nel rapporto con il mondo del lavoro
(lo stage, l’alternanza), con le stesse prove d’esame continuamente rimesse a
punto, rimodulate e sempre migliorate, si capisce. Perché ogni riformina è la
migliore possibile, guardiamo avanti e non pensiamoci più. Fino alla prossima
correzione di rotta, fino al prossimo provvedimento quasi definitivo. C’è poco
da fare gli spiritosi, si dirà: la scuola è una priorità, va presa seriamente.
Ora, 'priorità' è parola impegnativa, la si sente ripetere spesso anche in
questi giorni, con il rischio che da una ripetizione all’altra della parola
resti solo il suono e vada perduto il significato.
Così come è
accaduto dal 2000 in poi, o da un po’ prima, in realtà, se
si considera che le basi della poi riformatissima riforma
Berlinguer risalgono al 1997. Appena insediato, ogni esecutivo
annunciava l’intenzione irrevocabile di mettere mano alla
scuola e, il più delle volte, si affrettava a mantenere la
promessa. Fatte salve le motivazioni ideali, non era difficile
intuire l’ombra di una qualche opportunità politica, magari
nella direzione del
rafforzamento o allargamento del bacino elettorale.
Niente di male,
se tutti questi entusiasmi prioritari avessero prodotto un’edilizia scolastica
più sicura o un precariato meno umiliante e aleatorio (la formazione dei
docenti, com’è noto, è stata a sua volta caratterizzata da norme e procedure
contraddittorie).
Purtroppo,
però, non sono questi i risultati ottenuti. Per riassumere la situazione in
un’immagine, basta considerare un semplice dato di fatto: non esiste oggi un
cittadino italiano ventenne – poco più o poco meno – che abbia concluso il suo
iter formativo così come lo aveva intrapreso al momento dell’ingresso nella
scuola primaria. Non era una pretesa eccessiva, nonostante molto là fuori
stesse cambiando. Anzi, la radicalità stessa delle trasformazioni in atto
avrebbe dovuto indurre ad adottare una strategia il più possibile condivisa,
alla quale si è preferito un tatticismo estemporaneo la cui estrema conseguenza
è rappresentata dalla confusione di cui siamo spettatori in questi giorni.
L e
responsabilità dell’attuale Governo sono fuori discussione e non risultano
affatto attenuate dal senso di abnegazione abbondantemente dimostrato dalla
stragrande maggioranza degli insegnanti già durante i mesi del lockdown. A
loro, così come alle famiglie e – in primo luogo – agli studenti, adesso vanno
date risposte chiare e indicazioni certe. Questa non è più una
priorità: questo è un allarme.
Nessun commento:
Posta un commento