L’Italia
era un Paese
in declino
anche prima della pandemia
Il
mancato rinnovamento della classe dirigente pubblica, la secolare questione
meridionale, il protrarsi di un capitalismo anomalo e prenditore,
l’inseguimento di ideologie morte e sepolte, sono solo alcune delle crisi che
lo Stato italiano attraversava prima del coronavirus. Crisi che vengono da lontano
e che oggi si pagano a caro prezzo
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Pluto è
una commedia di Aristofane, andata in scena per la prima volta
ad Atene, alle Lenee del 388 a.C. Prende il nome dal dio greco
della ricchezza, Pluto appunto, ed è un apologo ironico sulla diseguale
distribuzione tra gli uomini del denaro, movente principale delle azioni
umane. Il protagonista è un anziano cittadino di Atene, il povero ma onesto
Cremilo, che insieme al servo Carione si reca presso l’oracolo di Delfi.
Avendo
infatti notato che nel mondo la ricchezza non è suddivisa equamente e
soprattutto non premia gli onesti, Cremilo intende chiedere all’oracolo se
anche il proprio figlio sia destinato a restare povero o meno. La risposta
dell’oracolo è che egli dovrà seguire la prima persona che incontrerà
all’uscita dal tempio. Quando Cremilo e Carione escono, incontrano uno
straccione cieco, e cominciano quindi a interessarsi a lui. Ben presto il cieco
si rivela essere Pluto, dio della ricchezza.
Convinto
che la diseguale distribuzione della ricchezza derivi dalla cecità del dio,
Cremilo si offre allora di ridargli la vista, in modo che Pluto possa
distinguere tra onesti e disonesti e premiare solo i primi. Tuttavia, arriva la
personificazione della Povertà che lo ammonisce sui rischi di tale proposito.
Cremilo però non ascolta i consigli della Povertà e riesce a far recuperare la
vista a Pluto grazie all’intervento miracoloso di Asclepio.
La
conseguenza è che tutti diventano ricchi e benestanti, ma ciononostante le
lamentele sul nuovo stato di cose sono molte: un sicofante va in
rovina poiché non ha più gente da denunciare ed una vecchia non trova più
giovani che vogliano soddisfarla a pagamento. Persino Zeus si lamenta che gli
uomini non hanno più bisogno di fare offerte agli dei, ed Ermes, dio degli
affari e degli arricchimenti, deve cercarsi un nuovo lavoro. Tuttavia, i malumori
si placano e nel finale tutti si avviano in corteo per accompagnare Pluto
presso la sua dimora sul Partenone.
L’opera
tratta, come numerose altre commedie dell’autore, della possibilità di
realizzare una grande utopia, in questo caso quella dell’eliminazione della
povertà e di una distribuzione della ricchezza che premi gli onesti. I
risultati però non sono quelli sperati e sono numerosi, tra uomini e dei,
coloro che si lamentano del nuovo stato di cose.
Le
argomentazioni più importanti vengono dalla Povertà, la quale afferma che
grazie ad essa gli uomini sono spinti ad impegnarsi e a lavorare per costruirsi
una migliore situazione di vita, mentre da ricchi si lasciano andare alle
mollezze e non producono più nulla di positivo. E questo è ancor più vero per
gli uomini politici, che una volta ottenuti potere e ricchezza perdono ogni
scrupolo e cominciano ad arricchirsi a scapito del bene comune. Gli effetti di
quest’utopia si fanno imprevedibili e non prefigurano affatto un mondo
migliore, come sperato da Cremilo.
Prima
che la pandemia si abbattesse sull’Italia con il carico di lutti, di paura del
diverso e di timori per il presente e per futuro, essa era già un Paese in
declino che scivolava verso la marginalità sia in Europa che nel mondo. Non è
più necessario ricorrere alla messe di dati che i vari e qualificati Istituti
di Ricerca mettono ogni giorno a disposizione. La cronaca sempre più spietata
ci restituisce una narrazione inequivocabile.
Il
Paese si è fatto trovare inerme e arretrato, con ancora irrisolta la
secolare questione meridionale e sta perdendo ulteriormente
terreno perché ha permesso che in questi anni la distanza tra la propria
società e quella della maggior parte dei Paesi occidentali con cui
inevitabilmente è chiamato a misurarsi, diventasse incolmabile.
I
tanti appuntamenti a cui non ha saputo presentarsi, il mancato rinnovamento
della propria classe dirigente pubblica, il protrarsi di un capitalismo anomalo
e prenditore, l’inseguimento di ideologie altrove morte e sepolte hanno generato
un clima di sfiducia da cui i giovani che possono fuggono alla prima occasione,
mentre gli anziani scuotono il capo rassegnati. Non si tratta soltanto
dell’ormai piena consapevolezza di avere davanti prospettive di molto inferiori
a quelle dei propri genitori o nonni, né della conclamata crisi di
attendibilità che logore istituzioni si affannano quotidianamente a
manifestare.
Una
grande malinconia caratterizza l’intero Paese, pur manifestandosi con modalità
sociologiche e culturali specifiche nelle molte e diverse zone geografiche di
una penisola troppo lunga. Nel nord si è esaurita da anni la spinta
propulsiva che sosteneva il cuore produttivo di un’Italia della
creatività, dell’invenzione, dell’originalità coniugate nel clima familiare
della piccola e media impresa, come l’hanno definita Susanna B. Stefani e Piero
Trupia nel saggio L’impresa conviviale Protagonisti, regole e
governance del modello italiano, Egea, 2004.
Travolta
dalla pressione fiscale cresciuta in modo esponenziale e oppressa dalla più
vasta e costosa burocrazia del Pianeta, essa non ha potuto investire in ricerca
e innovazione ed ha preferito de localizzare per sopravvivere, cercando altrove
di ricostruire il proprio futuro, dove ancora era possibile rispondere ad una
domanda di mercato attestata sui beni primari di un inedito consumismo.
Nel
Sud, ormai totalmente controllato dalle diverse seppur mutanti organizzazioni
criminali, è lo Stato stesso che è comparso solo due volte: la prima come
datore di lavoro pubblico, effimero riparatore della scelta miope di non far
decollare lo sviluppo produttivo, la seconda come insieme di istituzioni sempre
più impotenti dinanzi al dilagare del bisogno, della malattia, del degrado
ambientale e sociale e, talvolta, contagiate dal medesimo.
Il
declino del Paese viene da lontano perché si è radicato in almeno tre scelte
che oggi si pagano a caro prezzo. La prima scelta è stata il progressivo
allontanamento di quanto dall’Unione Europea perveniva, già in anni lontani, in
tema di suggerimenti opportunità di conoscenze e metodologie, direttive non
vincolanti che, però, avrebbero aiutato un progresso lento ma costante.
Per
l’Italia l’Europa è stata solo una risorsa economica da spendere nel
clientelismo e nello spreco. Ne è un segnale evidente la potente barriera
linguistica che vede solo una percentuale minima di abitanti conoscere altre
lingue (intendo proprio conoscere e praticare .. e non studiare a scuola per
qualche anno). Si pensi al danno fatto dal doppiaggio cinematografico, quasi
assente negli altri Paesi, dove al contrario proprio il mezzo televisivo o il
cinema ha contribuito significativamente all’avvicinamento almeno all’inglese
che oggi la maggior parte dei nati tra il 1960 e il 1990 comprende bene nei
paesi scandinavi e sufficientemente in quelli dell’est europeo.
Chi
scrive ha vissuto in più occasione esperienze di percorsi di scambio e di
studio promossi dal CEDEFOP, l’agenzia europea che si occupa di apprendimento e
di formazione promuovendo in paesi diversi, alcuni dei quali allora non erano
ancora entrati nell’Unione, seminari molto impegnativi, ma del tutto spesati,
ed ogni volta ha constatato lo stupore e la sorpresa degli altri partecipanti
nell’incontrare un italiano.
A
Oslo ed a Stoccarda, a Tallinn e ad Helsinki i workshop erano
affollati da estoni, lettoni, danesi, norvegesi, finlandesi mandati dai propri
governi a capire le nuove strade dello sviluppo e ad acquisire gli strumenti
per gestirlo. Anni dopo abbiamo visto la differenza che si rispecchia nella
risibile presenza di funzionari italiani nei ruoli amministrativi dell’Unione
Europea, anche a motivo del gap linguistico.
Per
noi è sufficiente emanare proclami a difesa della lingua italiana nel contesto
europeo. Quindi non solo non ci sforziamo di aprire la mente ma in più vi
costruiamo sopra una protesta da ridere non certo per l’indubbio valore del
nostro idioma quando per il provincialismo con cui la conduciamo.
Oggi
paghiamo quelle mancate opportunità, recitando presso i paesi cosiddetti
frugali il ruolo degli accattoni di soldi a prestito o a fondo perduto per
scaricarne il costo sui figli e nipoti per i prossimi trent’anni, dimenticando
che essi erano “in braghe di tela” quando noi celebravamo il miracolo economico
operato dal Piano Marshall e dai pochi illuminati imprenditori. Hanno usato
bene l’Europa e noi oggi, rimasti in coda, ne mangiamo la polvere.
Una
seconda drammatica scelta è stata il mantenimento di un capitalismo familiare
sovvenzionato dallo Stato, luogo della massima ambiguità economica,
garantendone gli errori attraverso la cassaforte di Mediobanca e scaricandone
le perdite sui piccoli risparmiatori. Un sistema di cui sono stati custodi gli
gnomi della finanza nostrana a scuola dei quali molti sono poi andati non
riuscendone però ad esserne all’altezza, per cui alla misteriosa riservatezza
di Cuccia o alla palese contiguità con il crimine di Sindona, entrambi menti
raffinatissime seppur diversamente orientate, si è sostituita la rapacità di
Calvi, la grandeur di Geronzi prima e l’arroganza dei furbetti del
quartierino dopo.
Nel
frattempo, il sistema bancario andava in frantumi con la legge Amato che
avrebbe funzionato sicuramente altrove ma che in Italia, piuttosto che
bonificare ove necessario, ha solo invitato a pranzo squali e piranha che
hanno fatto a pezzi Istituzioni plurisecolari e inoculato nei risparmiatori il
veleno della speculazione, con i disastri che conosciamo.
Infine,
hanno avuto risalto l’incapacità di porre un freno agli appetiti delle
corporazioni (ordini professionali, università, fondazioni bancarie ecc.) e la
mancanza di onestà intellettuale con cui riconoscere che alcune follie
ideologiche non potevano più essere prese in considerazione in un Paese che le
aveva comunque realizzate, seppur attraverso un immenso debito pubblico. Ciò ha
generato un’azione combinata che ha ulteriormente differito ogni presa di
coscienza e accelerato il declino.
Era
inevitabile che sulle macerie facesse la propria comparsa, il Bagatto, epigono
del già evocato dio Pluto che, suonando pifferi di ogni genere ha conquistato
almeno due generazioni veramente convinte che il mondo fosse quello del Mulino
Bianco e che l’Italia fosse solo un Paese “dai ristoranti pieni” incompreso e
ingiustamente criticato in Europa e nel mondo. Ercolino è di
nuovo in piedi e studia da “ago della bilancia” sperando nel laticlavio a vita.
Taccio
sulle brevi parentesi dei governi di centro sinistra, pallidi ologrammi di
valori mai creduti e meno che mai praticati, ma impegnati esclusivamente a
procurarsi in ben due occasioni sprecate una foglia di fico dietro cui
nascondere la propria strutturale inadeguatezza a traghettare il Paese verso il
cambiamento.
Ora
è giunto il tempo in cui l’intero circo sta venendo giù, non per gli applausi,
quanto per il fragore con cui sono entrate in scena due categorie di mattatori:
i Castigamatti e i Prestigiatori. Alla prima appartengono coloro che trovano
ogni volta un nemico da additare e verso cui convogliare la rabbia e la
delusione della gente normale. Tra di essi si distinguono quanti propongono una
visione del Paese come se l’Italia fosse l’Arcipelago delle Isole Lofoten o del
Canale della Manica e non un significativo tassello di delicatissime dinamiche
internazionali.
Nella
seconda categoria si affollano fate ignoranti che, nonostante
ciò, si ritengono portabandiera del rigore prima morale, poi giudiziario, poi
economico e che probabilmente credono che Aristofane sia uno degli aristogatti.
Essi inseguono l’utopia contro cui proprio il commediografo greco ammoniva e
stanno seminando nel paese il virus dell’assistenzialismo diretto, superando in
ipocrisia quello storico e alimentando l’idea che il reddito debba provenire da
uno Stato che nazionalizza un po’ tutto, pagandolo con il denaro comunitario
destinato agli investimenti. Amano la Cina e ne stanno costruendo l’avamposto
in occidente.
C’è
chi ha proposto il Dio Po e le danze celtiche, chi il ritorno della lotta di
classe, alla produzione di massa e alla decrescita felice, chi, ancora,
spacciando le nuove tecnologie, che altrove hanno contribuito a cambiare il
mondo, come un messianico strumento per rifondare la democrazia e chi infine
sta dando il colpo finale al palo centrale del tendone da circo, riproponendosi
quale Demiurgo che, in modo camaleontico e suadente, ritiene se stesso
l’insostituibile leader in grado di salvare il Paese. Triste figura che con i
propri accoliti replica l’eterna dinamica circense tra il clown bianco e l’Augusto.
Alla
luce dei fatti, e dei numeri, non prevarranno probabilmente né i Castigamatti
né i Prestigiatori, pallidi burattini che recitano copioni scritti da altri che
vogliono che entrambi siano costretti a convivere, a mescolarsi, a ostacolarsi
gli uni con gli altri, rendendo ancora più confusa ed incomprensibile la strada
verso il futuro.
In
ogni essere umano e in ogni società un istinto sopito che, nei momenti di
grande drammaticità si riscuote e permette di attingere a risorse che non si
immaginava di avere. La chiamiamo resilienza ma è l’istinto di
sopravvivenza, che ben riconosciamo sui volti dei migranti, che porta i singoli
o i gruppi a ricercare altrove condizioni di vita migliore per sé e per la
prole e le società a ribellarsi, talvolta in modo cruento e incontrollato,
quando la misura è veramente colma, i figli piangono e gli anziani muoiono di
abbandono, non perché siano dei barboni ma semplicemente perché non possono più
permettersi di riscaldare quelle case, di cui, IMU a parte, sono
paradossalmente “padroni”.
Non
è facile immaginare verso quale delle due strade si dirigerà l’istinto di
sopravvivenza degli italiani, ma è sotto gli occhi di tutti che se la prima è
già stata imboccata dai giovani più coraggiosi e non solo talentuosi e dalle
imprese più avvedute, la seconda potrebbe rimanere l’ultima via d’uscita per
chi, come un tempo si diceva “non ha da perdere altro se non le proprie
catene”.
Governare
con la crisi è il titolo di un libro di Giulio
Andreotti, pubblicato nel 1991 da Rizzoli, in cui si ricostruisce il clima di
perenne incertezza politica che caratterizzò l’Italia a partire dal dopoguerra.
Sono pagine che vengono da lontano, rivelando l’innegabile lucidità dell’uomo
politico più controverso che l’Italia repubblicana abbia mai avuto. Tuttavia,
l’Andreotti storico è finissimo analista e spietato patologo di una lunga
stagione iniziata con Badoglio e mai conclusa. Nel sigillare il proprio libro
per i posteri, appone un marchio di fuoco, definendo quale destino nazionale
«la stabile instabilità della prima Repubblica». Oggi mentre agonizza la
seconda e si prefigura la quarta, probabilmente dovrebbe aumentare la dose
giornaliera di aspirine.
Più
vicino alla realtà odierna è il saggio di Pierre Dardot e Christian Laval Guerra
alla democrazia, pubblicato nel 2016 da DeriveApprodi, così recensito da
Benedetto Vecchi «Un saggio partigiano da usare come antidoto a chi invoca
populismi tinteggiati di rosso per sovvertire la società del capitale» nel cui
primo capitolo, intitolato Governare la crisi, si legge:
«La
parola crisi utilizzata negli ultimi trent’anni per indicare
un meccanismo oggettivo indipendente dall’azione umana, maschera di fatto la
realtà di una guerra politica portata avanti da diversi attori, privati e
pubblici, nazionali e globali. Da questo punto di vista la politica, in quanto
esercizio del potere, non è nient’altro che la forma con la quale viene
instancabilmente portata avanti la guerra tra classi da parte dell’oligarchia
politico-finanziaria.
Questa
guerra ha per posta in gioco l’organizzazione della società e per strumento
l’economia. Ha l’obiettivo di trasformare, talvolta distruggere, le istituzioni
sociali che garantivano una relativa autonomia individuale, familiare, e più in
generale collettiva di fronte al mercato del lavoro e alla subordinazione nei
confronti del capitale. »
Alessandro
Pajno, classe 1948, docente di Diritto amministrativo, ex presidente del
Consiglio di stato, capo di gabinetto di Mattarella e di Ciampi,
all’Istruzione, al Bilancio e al Tesoro, segretario generale della presidenza
del Consiglio con Romano Prodi e poi sottosegretario al ministero dell’Interno,
è uno di quegli uomini di cui il grande pubblico non conosce il volto e
stenterebbe a indovinarne le funzioni, malgrado abbia servito lo Stato, e nei
suoi gangli vitali, per tutta la vita.
Pajno
è infatti la grande intendenza d’Italia. E ancora oggi, da illustre
pensionato, esprime la dottrina dell’esangue potere delle istituzioni
contrapposta, come in uno specchio, al potere sanguigno della politica.
Intervistato
da Salvatore Merlo su Il Foglio del 14 aprile ha spiegato:
«Pensano che governare significhi comunicare, ma occorre la gestione. C’è una
battuta che a me piace ripetere: Il populismo spesso intercetta problemi seri
ma dà sempre le risposte sbagliate’. Ecco, sembra che nessuno voglia fare la
fatica del lavoro necessario a cambiare le cose.»
Secondo
Pajno, uno dei guasti che affliggono l’Italia, che ne frenano la capacità di
sviluppo anche economico, è l’eccesso di leggi, «contraddittorie, sedimentate
l’una sull’altra, di difficile interpretazione. L’effetto di una miopia, e di
una malattia propagandistica, cioè dell’idea che le leggi siano palingenetiche,
che basti una norma a risolvere un problema. Al punto da aver trasformato le
leggi in bandiere, in strumenti retorici, fin dai nomi con le quali sono
battezzate.
Pensateci
un attimo. “La buona scuola“. Oppure: “Legge Spazzacorrotti“. Spazzacorrotti dà
l’idea di un colpo di maglio che cancella ogni cosa. Ma sono figure retoriche
che servono soltanto a saltare i problemi a piè pari. E infatti i problemi sono
venuti al pettine con le sentenze della Corte dei diritti dell’uomo, della
Corte costituzionale… Di leggi ce ne sono anche troppe. Se il sistema non
funziona in modo adeguato, se ci si perde in una serie di regole astruse, la
causa non è soltanto in un certo tipo di cultura e di mentalità della
burocrazia o nella sua mancanza di qualità ma, innanzitutto, è proprio in quel
reticolo di leggi, regolamenti, disposizioni primarie e secondarie che
circondano lo svolgimento dell’azione amministrativa».
E
si ritorna dunque a Max Weber, qualunque sistema economico richiede una
amministrazione efficiente e una giustizia funzionante. Dice infatti il
professor Pajno: «Per fornire un contributo alla ricostruzione, sarebbe quanto
mai opportuno un autentico cambiamento culturale, che riscopra il valore
autentico della discrezionalità dell’amministrazione. Le leggi devono essere
poche e chiare. Le decisioni, in base a quelle leggi, le prende
l’amministrazione. Solo così rilanciamo l’Italia».
E
infatti ogni volta che in Italia, in ogni campo, si è posta una questione, la
risposta è stata facciamo una legge o istituiamo un ministero. Un guasto
culturale. Una deriva che ha piegato l’attività di governo, che dovrebbe essere
capacità di scegliere ragionevolmente, alla ricerca del consenso più immediato.
La nostra politica è più brava a preparare le elezioni che a impegnarsi nella
fatica di governare”.
Ma
la crisi drammatica del Covid19 può essere anche un’occasione di riscatto, di
ammodernamento, l’opportunità di modificare i guasti storici di un paese che
già prima della depressione virale non riusciva a crescere e funzionare. «La
semplificazione legislativa è un obiettivo alto. Non semplice. Solo Dio è
semplice. Ma si può fare”, dice questo professore palermitano tra gli amici più
fidati del Presidente Mattarella di cui è anche vicino di casa e che la
macchina dello Stato la conosce bene come pochi altri, ma che pure deve credere
nella Provvidenza quale forza, spesso chiamata in causa troppo e a sproposito,
che trasforma la storia umana e fornisce il modo per spezzare il circolo che
aggiunge male al male».
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