L’informazione
dal linguaggio verbale
a quello
delle immagini
-
di Giuseppe Savagnone*
Della tragica esplosione di Beirut a molti resteranno solo le
immagini di episodi “curiosi”: la sposa in bianco travolta dall’onda d’urto
mentre faceva le foto di rito; il prete che fugge dalla chiesa; l’anziana che
suona il piano tra le macerie della sua abitazione…
È il modo più efficace di fare informazione, dirà
qualcuno. E in effetti oggi le persone abbandonano i giornali cartacei a favore
di quelli online perché sulle prime pagine di questi ultimi trionfano le
fotografie e i filmati, riducendo spesso ai margini i commenti scritti. La
gente vuole sempre meno leggere opinioni e cerca rappresentazioni immediate,
che danno l’impressione di entrare più profondamente nella dinamica dei fatti.
Ma è veramente così? Davvero un rapporto con la realtà che
“salta” il linguaggio verbale e il momento dell’elaborazione concettuale, ad
esso strettamente connesso, e si fonda sulle impressioni emozionali suscitate
direttamente dalle scene viste, dà luogo a una conoscenza più veritiera?
Il grande spettacolo delle guerre del Golfo
Ricordo ancora la “prova generale” di questo nuovo tipo di
informazione, le due guerre del Golfo, scatenate prima dal presidente americano
George Bush sr e poi da suo figlio George Bush jr, contro l’Iraq di Saddam
Hussein. La popolazione di tutto il pianeta assistette in diretta, per giorni,
a un succedersi ininterrotto di esplosioni, di crolli, di incendi. Come davanti
a un immenso spettacolo pirotecnico, con la differenza che i “missili
intelligenti” (così li aveva battezzati la nomenclatura ufficiale di guerra)
non erano petardi, ma uccidevano uomini e donne in carne ed ossa. E ci furono
immagini che commossero il mondo, come quella del cormorano impregnato di
petrolio, che tutti i giornali e le televisioni mostrarono, in occasione della
prima guerra, a riprova del disastro ambientale.
Che cos’è un “fatto”?
Solo dopo qualcuno cominciò a far notare che tutte quelle
immagini non avevano affatto consentito di “vedere”, in entrambi i conflitti,
che cosa stava accadendo in realtà. Si era trattato di una grandiosa
rappresentazione che, sulla linea del “giornalismo-spettacolo”, aveva appagato
la curiosità più epidermica senza aiutare minimamente a rendersi conto del
significato dei fatti.
Perché un puro fenomeno fisico non è un “fatto”, se non se ne
coglie il significato. Strizzare materialmente un occhio può essere un invito
erotico, un tic nervoso, un’ intesa tra spie, un’ imitazione
teatrale, tutti fatti molto diversi. Vedere senza capire non è assistere a un
fatto.
Inoltre, poiché in questo modo di informare ciò che conta è
colpire il pubblico, gli stessi fenomeni materiali possono essere manipolati
senza scrupoli – come in uno spettacolo! – a questo scopo. Come la foto del
cormorano imprigionato nel petrolio, che più tardi si è scoperto essere stata
scattata durante la guerra Iraq-Iran di dieci anni prima, anche perché in quel
periodo dell’anno non vi erano cormorani nel Golfo persico.
Le vetrine dei social
Quello delle guerre contro l’Iraq è solo un caso esemplare.
Al di là del problema dell’informazione giornalistica, è nel costume che il
primato dello spettacolo sulla riflessione si è sempre più affermato come
modalità normale di comunicazione, anche grazie al diffondersi dei social.
L’avvento di Facebook già segnava il progressivo spostamento verso la
sostituzione dell’immagine alle parole. Ma era solo l’inizio. Instagram e Tik
Tok, che, soprattutto fra i giovani, hanno in larga misura soppiantato Facebok,
sono delle vetrine. E milioni di persone vivono in funzione della visibilità
che potranno avere mostrandosi su queste vetrine, da cui è possibile trarre
successo, notorietà e denaro.
«Esistere è essere visti»
Un tempo si parlava di “immortalare” un momento importante
della vita facendo una foto. Oggi sembra quasi che il rapporto si sia invertito
e che un momento della vita sia davvero importante solo se viene fotografato o
filmato. Non si è più colti dall’obiettivo mentre si compiono i gesti
quotidiani dell’esistenza: ci si mette in posa, si vuole stupire o almeno far
sorridere l’immaginario spettatore. È come se si avesse bisogno di qualcuno che
ci guarda, per essere confermati nell’esistenza. Un filosofo del Settecento
sosteneva che «esse est percipi», esistere significa essere visti. Solo che lui
pensava allo sguardo di Dio, mentre oggi, per assicurarci che esistiamo
davvero, bastano gli anonimi “amici” di Facebook o gli altrettanto sconosciuti
frequentatori degli altri social.
La ricerca di uno sguardo che non c’è stato
C’è qualcosa di tragico in questa disperata ricerca di
attenzione. Non è un caso che i primi a viverla siano i giovani, molti dei
quali spesso ne hanno avuto molto poca dai loro indaffarati genitori. Si
cresce, da esseri umani, sotto lo sguardo benevolo di un padre e di una madre
che ci prendono sul serio. Il bambino gridava «Guarda mamma!», mentre faceva le
sue prime, più semplici esperienze. Oggi che quello sguardo purtroppo è diventato
più rado e più frettoloso, si recupera, nell’adolescenza o anche più avanti
negli anni, ricorrendo al surrogato dei social.
L’incapacità di incontrare se stessi…
Solo che questa sostituzione delle immagini virtuali alla
realtà non giova a ristabilire le relazioni, non dico con Dio, ma neppure con
se stessi e con gli altri. Ci si abitua a vivere alla superficie di se stessi.
Per quanti selfie ci si possa fare, per metterli poi in rete, alla fine la
soddisfazione di un’immagine di sé che attira più like non può sopperire
all’incapacità intima di ritornare alla propria intimità e di accettarsi. Le
immagini a volte ci difendono dalla verità di ciò che siamo.
…e gli altri
Ma anche gli altri diventano immagini. È dei giorni
scorsi il penoso fatto di cronaca di una donna, sembra malata di mente, che, a
Crema, si è cosparsa di un liquido incendiario e si è data fuoco. Un passante
ha cercato di soccorrerla soffocando le fiamme con una coperta, ma invano. La
poveretta è morta. Ma, forse ancora più terribile del suo dramma, è stata la
reazione di molti astanti che non solo non si sono mossi, ma hanno tirato fuori
i cellulari per filmare la scena.
Il soccorritore, sconcertato, ha scritto alla sindaca Bonaldi
che, d’accordo con lui, ha pubblicato un post su Facebook con il suo racconto,
poi confermato ai poliziotti. «Comprendo», ha scritto la sindaca, «che non
tutti possano avere il sangue freddo e la prontezza per intervenire quando una
persona si dà fuoco». Ma «se gli spettatori di questa tragedia hanno avuto la freddezza
di prendere il telefonino ed immortalare la scena anziché correre in aiuto,
allora dobbiamo farci delle domande. Cosa può renderci così insensibili?».
Dietro il problema morale c’è quello culturale
Una risposta a questa domanda sta in quello che si è detto
fin qui. Coloro che hanno reagito da spettatori erano stati abituati da lungo
tempo a esserlo davanti a una vita trasformata in spettacolo. Certo, il singolo
può reagire a questo e, consapevole che ciò che si sta svolgendo sotto i suoi
occhi non è solo una immagine da “postare” sui social, può fare del proprio
meglio per soccorrere la persona che muore. Ma, dietro il problema morale, ce
n’è uno culturale. Lo stesso per cui noi, ai discorsi che ci aiuterebbero a
capire la realtà, preferiamo le immagini del giornalismo-spettacolo, che fa di
questa realtà un grande gioco di fuoco.
*Pastorale
Cultura Diocesi Palermo
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