Giovani e anziani sono più soli. Il paradosso del «tutti collegati»
La solitudine come patologia della modernità.
Per i vecchi si
attenuerà con la scomparsa della generazione «adigitale».
Preoccupa la crescita
degli «Hikikomori»
L’isolamento e le restrizioni dei rapporti sociali introdotti
per arginare la pandemia da coronavirus hanno incrementato il disagio giovanile
e favorito il rifugio nel mondo della realtà virtuale
L’impegno del Gruppo
Abele anche su questo fronte giovanile premiato dall’Accademia dei Lincei con
il premio Antonio Feltrinelli 2020
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di LAMBERTO MAFFEI*
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La globalizzazione è stata indubbiamente un evento epocale,
avvenuto in tempi relativamente rapidi e indotto o certamente facilitato da uno
sviluppo altrettanto epocale della tecnologia delle comunicazioni. Essa è stata
salutata, almeno all’inizio come un evento favorevole per le popolazioni,
mirante a una migliore socialità e collaborazione in quanto ha levato molti
limiti agli spostamenti tra Paesi e continenti diversi, promuovendo l’idea che
anche gli altri sono buoni e cattivi come noi, con gli stessi pregi e
difetti. C ome scrive José Saramago, ci si aspettava che la
globalizzazione significasse prima di tutto globalizzazione del pane, la fine
della fame nel mondo, ma questo non è avvenuto; ed era possibile, perché è noto
che tanto pane è buttato via, o in pance già piene accumula grasso e talvolta
patologia come il diabete di secondo tipo. È accaduto invece, come questo
giornale continua a documentare, che le disuguaglianze sono aumentate e i
ricchi sono diventati ricchissimi e i poveri poverissimi. Mi domando se la
globalizzazione abbia significato solo un apparente diverso costume di
comportamento, un vestito di un altro colore che copre un corpo con la stessa
vecchia anima egoista e con occhi che, per parafrasare ancora Saramago, vedono
le disuguaglianze e le ingiustizie, le cui immagini impietosamente si
depositano sulla retina, senza però smuovere il cervello della
solidarietà.
La rivoluzione digitale ha cambiato il modo di
comunicare, la parola ha perso la sua musica, che porta con sé tutti quei messaggi
che è difficile dire, ed è diventata messaggio scritto, quindi visivo, su uno
smartphone, volutamente e inevitabilmente sintetico e apatico. Ascoltare, che è
comprensione del-l’altro, è ormai considerato perdita di tempo in una forma di
egoismo individuale e di una fisiologia dell’indifferenza.
La
globalizzazione e la digitalizzazione dell’individuo hanno fatto emergere, a
mio avviso, tra gli effetti collaterali, il paradosso della solitudine: negli
anziani, rimasti indietro nella cultura digitale sia tecnicamente che nel nuovo
linguaggio che l’accompagna impedendo loro di conversare perfino con i figli; e
anche nei giovani, i ragazzi Neet (not in education, employment or
training), ragazzi o giovani adulti che non studiano, non lavorano,
non seguono corsi di formazione e che purtroppo in Italia superano i 2 milioni,
e i ragazzi Hikikomori (che vivono fisicamente appartati,
autoisolati nella dimensione digitale).
L’effetto di isolamento degli anziani era in gran parte
prevedibile, a causa della difficoltà nell’acquisizione delle nuove tecniche;
ma, benché terribilmente triste e cinico a dirsi, tale fenomeno è
economicamente e anche socialmente trascurabile perché i tecnologi, fautori di
queste innovazioni dicono o sperano che esso scomparirà con la generazione
vivente 'adigitale'. Il fenomeno degli Hikikomori invece non
era affatto prevedibile e va considerato nella sua gravità, nei suoi aspetti
sociali, medici e anche politici. Questo fenomeno può essere interpretato
non tanto o non solo come una sorta di ribellione giovanile contro la società
del consumismo e l’assenza di valori morali e culturali, quanto come una
malattia indotta da un cambiamento violento di paradigma culturale, che basato
su tradizioni e leggi divenuti memi che passano di generazione in generazione,
è stato sconvolto dalla rivoluzione digitale.
Non è un caso che il fenomeno si sia manifestato prima e
più intensamente in Giappone dove le tradizioni sono state e sono guida
assai rigida di comportamento e dove l’innovazione tecnologica è stata
particolarmente attiva; né è un caso che il fenomeno sia particolarmente
presente in famiglie borghesi dove le tradizioni sono più conservate. Il
lockdown, il confinamento in casa dovuto al Covid-19, ha certamente aggravato
il fenomeno e lo ha reso più evidente alle famiglie costrette anch’esse al
confinamento. Nel valutare il fenomeno, bisogna anche considerare che il
giovane cerca “fisiologicamente” il nuovo, valori e scopi diversi per vivere e
allo stesso tempo è in fuga dai suoi bisogni vegetativi.
I ragazzi Hikikomori sono giovani, di età compresa tra 11-12
anni e 27-28 anni, che si rinchiudono nella propria stanza, isolandosi dal
contatto con altre persone e vivono utilizzando unicamente la connessione
telematica, spesso anche con l’inversione degli orari sonno-veglia. Questo
comportamento si insinua progressivamente e comporta la rarefazione o più
spesso l’abbandono della frequenza scolastica e dei rapporti sociali, fino a un
completo isolamento anche rispetto alla famiglia. Il mondo virtuale
finisce per sostituire del tutto quello reale. Il fenomeno è iniziato in
Giappone dove il numero di questi ragazzi supera già i 2 milioni ed è in
espansione.
In Italia il numero dei ragazzi Hikikomori è
intorno ai centomila e in espansione particolarmente nelle regioni
del Centro Nord a più alto sviluppo tecnologico. Vi
sono osservazioni che suggeriscono che l’isolamento e
le restrizioni dei rapporti sociali introdotte per arginare la
pandemia da coronavirus abbiano incrementato il disagio giovanile e favorito il
rifugio nel mondo della realtà virtuale. Sembra che ci sia una relazione
(ancora non statisticamente quantificata) tra Paesi o città ad alto sviluppo
tecnologico e numero dei ragazzi Hikikomori, come se lo
sviluppo tecnologico agisse da attrattore verso una realtà diversa. In Giappone
si è sviluppato, ad aiuto dei genitori, un nuovo tipo di occupazione, quello di
studentesse che, dietro pagamento, contattano gli Hikikomori, principalmente
maschi, cercando di reintrodurli a maggiore socialità.
In Italia il fenomeno dell’isolamento dei giovani è
stato sottovalutato: solo il Gruppo Abele, guidato da don Luigi Ciotti, ha
colto con tempestiva sensibilità l’importanza del fenomeno che può minare
futuro e salute dei giovani. Nel cuore di Torino è già stato organizzato un
“centro diurno” che – con un “laboratorio di espressione corporea” e un
“laboratorio sulle tecnologie” – ha il progetto di riportare a una normale vita
sociale e occupazionale i soggetti isolatisi, grazie a un intervento
personalizzato, non sempre e, comunque non completamente di natura clinica, quanto
piuttosto educativo socializzante, con rapporti prevalenti con altri ragazzi.
Per questo l’Accademia dei Lincei ha assegnato per 2020 al Gruppo Abele il
premio Antonio Feltrinelli «per un’impresa eccezionale di alto valore morale e
umanitario » . Mi permetto di aggiungere, con un pizzico di orgoglio, che il
collega Aldo Montesano e io siamo stati tra i relatori del progetto e l’abbiamo
sostenuto con grande convinzione.
*Presidente emerito
Accademia dei Lincei
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