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giovedì 30 aprile 2020

INSEGNARE NEL TEMPO DELLA PANDEMIA. UN'ESPERIENZA DALLA ROMANIA


La prima volta nella vita?...
La mia esperienza di insegnamento durante il tempo del Coronavirus


-      Adrian Podar
Collegio Teoretico Nazionale
Bucarest

Un insegnante è sempre  anche uno studente, un professionista in crescita. 
In questo tempo di pandemia, nonostante le gravi difficoltà e incertezze che stiamo vivendo, ci è data l'opportunità  di acquisire, assieme ai nostri alunni, nuove competenze. C'è, infatti, molto da imparare e sperimentare nel nuovo contesto di vita.  Ma anche di pensare al futuro. Io cerco di fare del mio meglio.
Dall'undici marzo, quando sono state applicate le restrizioni in Romania, ho insegnato online. Questa non solo è una nuova sfida, ma è anche un'ottima opportunità per migliorare noi stessi e gli alunni. Ho proficuamente usato tutta la mia ventennale esperienza di insegnamento in classe per far entusiasmare i miei studenti nell'apprendimento dell'inglese.
La scuola ove insegno, il Collegio Teoretico Nazionale, si trova nel centro di Bucarest. È una delle istituzioni educative che ha utilizzato molto la tecnologia e, perciò, il passaggio alle lezioni online è stato molto fluido. La nostra scuola fornisce tutte le App di G Suite.
Per me, insegnante, la nuova sfida professionale è stata la preparazione del nuovo scenario didattico, che – forse-  può essere usato con successo come modello per altri colleghi. Sono stato invitato dal preside a prepararne uno, e ci sono aspetti mi hanno permesso di riflettere sulla nuova esperienza da vivere e fare vivere. Uno di questi è la necessità di riconnettersi. Mancano i contati umani diretti, così come quotidianamente avviene nella classe, ma gli studenti hanno bisogno di questo. Essi sapere che ci importa ancora di loro; che - anche se siamo separati - stiamo insieme. Così ho introdotto un momento speciale, obbligatorio, nel progresso della lezione. Sapere come loro stanno è rilevante per coinvolgerli nell’attività e favorire un buon apprendimento.  Una lezione per avere successo  si deve basare su contatti tra persone,  sull'essere "connessi" anche emotivamente, sul non dimenticare che ci incontreremo presto.
Al fine di migliorare il messaggio, la mia esperienza di insegnamento, durante il periodo di chiusura delle scuola per la pandemia, si è concentrata principalmente sulla revisione e sul rafforzamento delle conoscenze precedenti. Ho incontrato i miei studenti per interagire e offrire loro il supporto di cui ciascuno aveva bisogno. Nella nostra scuola, l’insegnamento di tutte le lezioni si svolge “regolarmente” nell'orario normale, come se gli alunni fossero nell'aula fisica, pur essendo i collegamenti virtuali. L'insegnante vede i propri studenti in videoconferenza ogni giorno  e per ogni classe. Insegnanti e alunni maturiamo insieme le necessarie competenze informatiche per rendere sempre migliori i percorsi di apprendimento.
Gli incontri si svolgono tre volte alla settimana, e siamo anche in grado di prevedere possibili ostacoli o impedimenti nel processo di insegnamento. Non è un compito facile per me come insegnante. A volte trascorro otto ore al giorno seduto davanti allo schermo, ma considerando i benefici per i miei alunni, penso è bene fare ciò che deve essere fatto.
Il Ministero della Pubblica Istruzione in Romania ha deciso che le lezioni si svolgeranno online fino alla fine dell'anno scolastico. Ora tutto accade in un modo diverso, ma ritengo che questo modo di insegnare, e di apprendere, non sarà dimenticato, e ciò che ha funzionato bene dovrebbe essere preso in considerazione nell'aula reale, a settembre.
Mi piacerebbe confrontarmi con altre esperienze: come sta cambiando la didattica? quali esperienze stiamo facendo? quali risorse? quali nuovi apprendimenti per noi e  per i nostri alunni? che cosa prevediamo per il dopo virus? come possiamo prepararci ai "nuovi tempi"? .....  




mercoledì 29 aprile 2020

CELEBRAZIONI EUCARISTICHE IN TEMPO DI PANDEMIA. CHE COSA FARE?


Una lacerazione 
ricucita a fatica

-        Giuseppe Savagnone
-         
Non è bastata neppure la precipitosa retromarcia di Conte, dopo il duro comunicato della Cei, a placare le polemiche suscitate dalla sua conferenza stampa di domenica sera, in cui aveva annunciato il mantenimento della sospensione sine die delle celebrazioni eucaristiche. Immediata la risposta della Conferenza Episcopale Italiana, che aveva denunciato la violazione dell’«esercizio della libertà di culto». Un’accusa grave, foriera di una rottura che il presidente del Consiglio sicuramente non prevedeva e non voleva. Da qui la nota con cui palazzo Chigi, nella tarda serata dello stesso giorno, tentava di recuperare annunciando l’elaborazione di un protocollo per la partecipazione dei fedeli alle celebrazioni liturgiche.
Si è saputo, dopo, che la decisione del governo era stata presa su indicazione del Comitato tecnico-scientifico, in base alla considerazione che le chiese sono frequentate soprattutto da persone anziane, particolarmente esposte al contagio.
Ora si parla di una ripresa delle celebrazioni liturgiche per domenica 10 maggio, privilegiando le messe all’aperto e mettendo in atto una serie di precauzioni per evitare il contagio.
Le reazioni favorevoli alla Cei
Questi i fatti. Ma, al di là dell’episodio, resta il vespaio di reazioni e di commenti, che hanno delineato una netta spaccatura nell’opinione pubblica, prima di tutto in quella cattolica.
La netta maggioranza di quest’ultima si è schierata con la Cei. Da un capo all’altro d’Italia vescovi, parroci, semplici fedeli, hanno salutato la presa disposizione della Conferenza Episcopale come una salutare reazione a un provvedimento che rischiava di perpetuare la situazione di disagio che la sospensione delle messe aveva creato.
A colpire sono stati soprattutto l’unilateralità della decisione e lo scarso valore attribuito alla dimensione religiosa. Per quanto riguarda la prima, in un’ intervista al «Giornale» il cardinale Camillo Ruini, ex presidente della Cei, ha accusato il governo di essersi arrogato «competenze non sue riguardo alla vita della comunità cristiana».
Sullo sfondo, l’art.7 della Costituzione, dove si dice che «lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani». O, ancora più monte, la famosa risposta data da Gesù ai dottori della legge che lo interrogavano sulla liceità del pagamento del tributo a Cesare: «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,21).
Quanto al misconoscimento della dimensione religiosa, un altro ex presidente della Cei, il card. Angelo Bagnasco, ha fatto notare che «la persona ha desideri non solo materiali, ma anche spirituali. Assicurare il pane della tavola è doveroso, ma non riconoscere anche il pane dello spirito significa non rispettare l’uomo e impoverire la convivenza. L’esperienza della fede genera energia morale, e questa è la vera forza di una società».
Le reazioni critiche
Non sono mancate le reazioni contrarie alla presa di posizione dei vescovi, anche da parte di cattolici. Emblematica la posizione di don Giovanni Ferretti, noto filosofo: «Libertà di culto non è libertà di infettare la gente. La nota Cei mi ha profondamente amareggiato, come cittadino, come cattolico e come prete, mi pare un errore politico e pastorale». I motivi: «Siamo in grado oggi di assicurare che non vi sarà pericolo di contagio? Sapremo sanificare le chiese? Sapremo obbligare la gente a tenere le distanze le mascherine?. E il prete celebrerà con la mascherina? Che Messe con il popolo sarebbero mai queste?».
Ci sono stati anche commenti più aspri, come quella del teologo Alberto Maggi, che ha esortato a non dare troppa importanza all’opinione dei vescovi, incapaci, a suo avviso, di percepire le vere esigenze della società e degli stessi cristiani.
Convergendo così, paradossalmente, con la posizione di Antonio Socci, instancabile critico di Francesco e della Chiesa da lui guidata, secondo cui «da sempre la Cei – su ordine del papa argentino, mosso dalla precisa intenzione di attaccare la Lega di Salvini – era stata più che collaborativa: servile». Tardiva, dunque, secondo Socci, la protesta per la decisone di Conte: «La Cei raccoglie quello che ha seminato. Da servi si sono comportati, da servi vengono ora trattati».
L’ammonimento di papa Francesco
Grande rilievo i mezzi di comunicazione hanno dato alle parole del papa, durante una messa a Santa Marta: «In questo tempo nel quale si incomincia ad avere disposizioni per uscire dalla quarantena, preghiamo il Signore perché dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e dell’obbedienza alle disposizioni perché la pandemia non torni».
Una preghiera interpretata da molti come un segnale di sostegno alla posizione del governo nello scontro con la Cei, tanto da far parlare a un quotidiano di «una vistosa mancanza di comunicazione» e di «forti incomprensioni tra papa Francesco e la Conferenza episcopale italiana»
Così del resto hanno interpretato le parole del papa quei cattolici che già da tempo vedono in Francesco un dissacratore della genuina tradizione cattolica e che hanno commentato con giudizi del tipo: «Il primo Papa ateo della storia», «Papa comunista», «Ritorni in Argentina».
Il punto di vista dell’altro
Cosa pensare di questa vicenda e, soprattutto, delle prese di posizione che essa ha suscitato? La prima cosa appare evidente è che ci sono state delle difficoltà a mettersi nel punto di vista dell’ “altro”.
È stato sicuramente l’errore di Conte che, pur avendo delle importanti ragioni scientifiche e sanitarie a favore della sua soluzione iniziale, non ha tenuto affatto conto della grande fatica con cui il mondo cattolico e i suoi pastori avevano vissuto questo periodo, con sincero spirito di collaborazione col governo, ma attendendosi anche una adeguata comprensione, da parte di quest’ultimo, delle proprie esigenze.
Il premier non si è neppure reso conto che i vescovi si trovavano pressati da una base inquieta e perplessa, a cui i “conservatori” e i partiti di destra – con in testa Salvini, il quale aveva fatto la proposta (lasciata cadere dalla Cei) di riaprire le chiese per la Settimana Santa – offrivano continue sollecitazioni, accusando la gerarchia di “resa” di fronte al potere politico.
Le esagerazioni del comunicato e di molte reazioni dei cattolici
Anche da parte della CEI, è vero, l’accusa rivolta a Conte di voler violare la libertà di culto, è suonata in sé esagerata. E il tono appare troppo rivendicativo e quasi minaccioso. È mancata – nel comunicato dei vescovi, ma soprattutto in tanti commenti provenienti dal mondo cattolico – una sfumatura di comprensione nei confronti del governo, alle prese con una sollevazione generale, da parte di tutte le categorie che vogliono riaprire le rispettive attività, in un momento in cui i medici dicono che la riapertura è un grosso rischio.
Le ragioni della Cei
Alla Cei bisogna tuttavia riconoscere l’impatto della delusione, davanti a una decisione bruscamente unilaterale, mentre era ancora in corso un dialogo rispettoso col governo. Tanto più che il decreto prevedeva, entro i primi di giugno, la data di riapertura di musei e ristoranti. Finché si era trattato, come finora, di farmacie e tabaccai, era stato facile rispondere ai critici interni che una veloce compravendita non è comparabile alla partecipazione di una folla a una messa domenicale. Ma i musei e i ristoranti? Possibile che non ci fosse neppure par condicio fra i McDonald’s e le chiese?
Resta la violenza di una frangia consistente di cattolici che hanno dato l’impressione di pensare il problema solo in termini confessionali, contraddicendo l’etimologia di “cattolico”, che indica una pienezza e universalità di visione. Giusta la richiesta della ripresa delle funzioni, non sempre il tono.
Il bilanciamento negato
Altrettanto unilaterale appare l’atteggiamento di coloro che si sono indignati per la presa di posizione dei pastori. Fermo restando il valore primario della salute, oggi si sente giustamente l’urgenza di bilanciarlo con altri, per tentare una difficile ma non impossibile conciliazione. Lo si fa per il lavoro e la produttività, senza cui si rischia di morire di fame, invece che di coronavirus. Lo si fa per la cultura, riaprendo le librerie e i musei. È giusto chiedere che si faccia anche per le funzioni religiose. A meno di dare per scontato, come purtroppo accadeva anche prima del coronavirus (quando le chiese erano aperte!), che ciò che non muove il Pil sia irrilevante e venga dopo.
Che significa essere cattolici “praticanti”?
Soprattutto però appare preoccupante la scarsa percezione, dall’una e dall’altra parte, che questa società potrà risollevarsi, anche dal punto di vista materiale, solo reinterpretando la dimensione spirituale. Non lo capiscono coloro che mettono in secondo piano, come optional, la sfera religiosa. Ma sembrano non capirlo neppure coloro che, per recuperarla, si pongono soltanto il problema di ripristinare il culto pubblico.
In questi giorni, in un articolo apparso su «Settimananews», Ivo Seghedoni ha fatto notare che il coronavirus ha fatto saltare lo spartiacque tra cattolici “praticanti” e “non praticanti” a cui eravamo assuefatti da secoli, e che indicava nei secondi coloro che non vanno in chiesa la domenica.
Oggi ci siamo trovati tutti ad essere, in quel senso, “non praticanti”. Ma questo ci costringe a chiederci se davvero la “pratica” che caratterizza il cristiano si possa ridurre alla frequenza ai riti, o se non dobbiamo prendere coscienza che essa oggi esige un ripensamento più profondo, che non escluda il culto ma riproponga aspetti dimenticati del Vangelo.
Perché ora a messa ci torneremo, ma, così come non abbiamo cessato di essere “praticanti”, nel senso evangelico per il solo fatto di essere esclusi dai riti, non è detto che lo saremo davvero perché la domenica ci presenteremo a prendere l’eucaristia.




SIAMO PIÙ' FRAGILI. SERVE PIÙ' UMANITÀ'


A colloquio col filosofo Mauro Ceruti su pandemia e conseguenze: «Il morbo del nostro tempo è la semplificazione. 
Siamo figli dell’abitudine moderna a pensare che le cose abbiano una spiegazione semplice. 
E questa si accompagna alla droga della quantificazione 
Dietro calcoli e diagrammi non si vedono le sofferenze umane»


-         di MARCO RONCALLI

Mauro Ceruti risponde al telefono da Bergamo. Due anni fa nel libro Il tempo della Complessità (Cortina), per certi versi, aveva delineato lo scenario di questa crisi, riflettendo sulla possibilità di fatti inattesi in grado di ribaltare situazioni su scala planetaria. La voce è triste: «Mi mancano persone che in questi giorni se ne sono andate. E tuttavia, in questo tempo pasquale, la loro assenza si fa, strappando le parole al poeta, più acuta presenza …».
Professore dicevano che gli algoritmi prevedono tutto. Per Nassim Nicholas Taleb quanto accaduto era prevedibile...
Il problema è un altro: è prevedibile che accada l’imprevedibile. Ma ciò non lo rende comunque prevedibile. Per questo bisogna sviluppare la capacità di affrontare l’intreccio di concause, l’incerto, l’aleatorio, l’imprevisto.
Soprattutto nel caso dei virus …
La pandemia ci pone di fronte ai rischi della condizione globale. Il virus rivela che viviamo in un mondo in cui tutto è connesso. I fili della globalizzazione biologica, antropologica, economica, politica sono aggrovigliati e inestricabili.
Bernard–Henri Levy dice che bisogna liberarsi dall’idea di causa–effetto tra globalizzazione ed epidemia: lei?
Ma ciò, in partenza, significa ammettere che tutto è connesso. Che non bastano risposte tecniche a singoli problemi. Il morbo del nostro tempo è la semplificazione. Siamo figli dell’abitudine moderna a pensare che le cose abbiano una spiegazione semplice. E questa si accompagna alla droga della quantificazione. Dietro i calcoli, le simulazioni, i diagrammi, non si vedono le sofferenze umane. Ma, detto con Foucault, le sofferenze umane mai devono essere lo scarto muto della politica.
Siamo solo all’inizio dei guai, o c’è luce in fondo al tunnel? La storia è costellata di crisi, pandemie, catastrofi...
La metafora del tunnel non funziona. Dà per scontata l’idea che siamo in una parentesi. Che all’uscita del tunnel troveremo lo stesso mondo, seppure impoverito. Dobbiamo invece scommettere in un cambiamento di paradigma. Dobbiamo assume- re la fragilità come condizione di opportunità e come condizione permanente. È dalla cura della fragilità, non dalla forza della guerra al nemico, che si genera la creatività umana.
La fragilità è ora. Conviviamo con la paura del contagio. Martini diceva che non aveva paura della morte, ma dell’atto di morire senza nessuno a tenergli la mano ….
Il dramma della solitudine del morire, in questi giorni, ci spinge a voler ritrovare questo grande rimosso della nostra civiltà: proprio il morire. Che abbiamo sempre più confinato e sterilizzato fuori dalla nostra cura, fuori dalla necessità di tenere e farci tenere la mano. Il bisogno di riappropriazione della morte può essere una via per riappropriarsi della vita…
Viviamo questo tempo trascinati da quanto passa sui nostri schermi, la tv, la rete sembrano le grandi soccorritrici…
C’è un paradosso nella nostra società: più si comunica e meno si comunica, più piovono informazioni e meno siamo informati, più siamo interdipendenti e meno siamo solidali. Il morbo della semplificazione è andato di pari passo con la frammentazione dei saperi e delle discipline, che ha isolato gli “esperti” nelle rispettive “specialità”.
Quali le priorità appena si riapriranno le porte di casa?
È necessario riformare i sistemi di educazione e di istruzione. C’è ancora poca interdisciplinarità e molta burocratizzazione, tecnicizzazione nelle
scuole e nelle università! Usiamo la Rete, ma non mettiamo in rete fra loro i saperi, i problemi, le crisi.
E’ da ripensare anche la medicina?
Può darsi che questa pandemia abbia costretto a far comunicare di più tra loro medici infettivologi, microbiologi, virologi. Per affrontare le prossime epidemie dovrà emergere una scienza e una figura di scienziato polidisciplinare. Certo, anche la medicina deve essere ripensata. Aumenta l’imprevedibilità di nuovi fattori patogeni esterni e, dal momento in cui compare e minaccia la salute, si può allungare il tempo tra la conoscenza e la cura della malattia provocata dal nuovo fattore patogeno.
Quale ruolo avrà l’Europa? Chiediamo unità, ma in Italia i partiti accantoneranno le logiche di consenso immediato?
La ricerca del consenso immediato? Ma è la fine della politica! Quanto all’ Europa la crisi sanitaria ne ha aggravato la crisi. Di fronte al pericolo comune, lo spirito di solidarietà è mancato. Si sono rinvigoriti gli egoismi nazionali. Certe parole della politica sono proprio inconsistenti e pericolose: ad esempio prima noi, solo noi… Ma l’Europa o si unirà o soccomberà.
C’è chi dice che le frontiere aperte saranno viste come pericoli, chi pensa saremo più umani, chi si ricomincerà come prima. Cosa potremmo avere imparato?
Che è necessaria un’altra globalizzazione, più umanizzata, più solidale, non dominata dalla potenza anarchica di profitto e tecnoscienza. Sembra un’utopia: ma, alla prova dal Coronavirus, è diventata più concreta, non differibile. Per affrontare crisi globali, c’è bisogno di mettere insieme risorse e conoscenze al di là delle frontiere nazionali. Il virus ignora i confini territoriali. Lo devono fare anche gli Stati.
Tutti dentro una condizione inedita?
Tutti legati dagli stessi problemi di vita e di morte, dallo stesso destino. La fraternità non è più solo un’aspirazione etica. È necessità inscritta nella nuova condizione umana. Come ha detto Papa Francesco: tutti sulla stessa barca e nessuno che può salvarsi da solo.


martedì 28 aprile 2020

LA MALDICENZA, UNA MALA BESTIA


SIGNORE, LIBERACI DAL QUOTIDIANO CHIACCHIERICCIO....  

" .... Tutti sappiamo che questo non è buono, ma quello che non sappiamo è che c’è un piccolo linciaggio quotidiano che cerca di condannare la gente, di creare una cattiva fama sulla gente, di scartarla, di condannarla. 
Il piccolo linciaggio quotidiano del chiacchiericcio che crea un’opinione. Tante volte uno sente sparlare di qualcuno e dice: “Ma no, questa persona è una persona giusta!” – “No, no, si dice che…”, e con quel “si dice che” si crea un’opinione per farla finita con una persona. 
La verità è un’altra: la verità è la testimonianza del vero, delle cose che una persona crede; la verità è chiara, è trasparente. La verità non tollera le pressioni....

Il Signore ci aiuti a essere giusti nei nostri giudizi, a non incominciare o seguire questa condanna massiccia che il chiacchiericcio provoca".
Papa Francesco


lunedì 27 aprile 2020

LA SCUOLA NON SI FERMA !


LE SCUOLE CHIUSE SONO UNA FERITA PER TUTTI

di Rino La Placa

Aprendo oggi il nuovo Programma di Rai Cultura in collaborazione con il Ministero dell'istruzione #LaScuolaNonSiFerma", il Presidente Mattarella ha evidenziato che trattasi di un contributo importante, che esalta la missione di servizio pubblico, richiamando il ricordo di alcune delle pagine più belle e preziose della Rai".
"Le scuole chiuse sono una ferita per tutti" aveva detto poco prima e si può aggiungere che un contributo non può ritenersi come un'alternativa permanente  un rimedio pieno e totale.
Questa considerazione viene espressa non tanto per limitare o attutire il valore e il significato di quanto si vuole fare, ma viene presentata al solo fine di manifestare una viva preoccupazione per una possibile crescita di acquiescenza o di indifferenza alle aule vuote all'enfatizzazione della didattica a distanza come  soluzione di tanti variegati problemi del sistema scolastico.
Il Presidente, già ministro dell'Istruzione, ha anche detto opportunamente alle ragazze e ai ragazzi che "La scuola non è soltanto il luogo dell'apprendimento. E' la vostra dimensione sociale fondamentale, nella quale, assieme al sapere e alla conoscenza, cresce e si sviluppa - anche nella relazione con gli altri, con i compagni, con i vostri insegnanti - la personalità di ognuno di voi. cioè quel che sarete nella vostra vita futura".
In buona sostanza l'aula, luogo d'istruzione e di formazione, non può facilmente essere sostituita e tutti gli strumenti tecnologici, da crescere e diffondere, hanno una funzione preziosa di aiuto, di ausilio, di semplificazione della trasmissione del sapere facilitando la conoscenza e l'apprendimento.
Siamo di fronte ad un evento eccezionale e tutto ciò che si può fare senza voce e non in presenza, con linguaggi nuovi e con strumenti prima sconosciuti, deve essere accolto con disponibilità e con gratitudine, soprattutto verso i docenti che sperimentano, con passione educativa, nuove modalità didattiche d'insegnamento.
Si tragga da questa esperienza un'occasione di crescita, avendo sempre presente l'unitarietà e la nazionalità del sistema scolastico italiano, che deve aiutare a superare gli squilibri territoriali e sociali tenendo sempre al centro la formazione integrale dell'uomo e del cittadino.

                                                                                             


domenica 26 aprile 2020

DAL SE ... AL SI ! - DALLE LAMENTELE AL GIOIOSO E GENEROSO IMPEGNO !

Papa Francesco: " ..... Il Vangelo di oggi, ambientato nel giorno di Pasqua, racconta l’episodio dei due discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,13-35). È una storia che inizia e finisce in cammino. C’è infatti il viaggio di andata dei discepoli che, tristi per l’epilogo della vicenda di Gesù, lasciano Gerusalemme e tornano a casa, a Emmaus, camminando per circa undici chilometri. È un viaggio che avviene di giorno, con buona parte del tragitto in discesa. E c’è il viaggio di ritorno: altri undici chilometri, ma fatti al calare della notte, con parte del cammino in salita dopo la fatica del percorso di andata e tutta la giornata. Due viaggi: uno agevole di giorno e l’altro faticoso di notte. Eppure il primo avviene nella tristezza, il secondo nella gioia. Nel primo c’è il Signore che cammina al loro fianco, ma non lo riconoscono; nel secondo non lo vedono più, ma lo sentono vicino. Nel primo sono sconfortati e senza speranza; nel secondo corrono a portare agli altri la bella notizia dell’incontro con Gesù Risorto.
I due cammini diversi di quei primi discepoli dicono a noi, discepoli di Gesù oggi, che nella vita abbiamo davanti due direzioni opposte: c’è la via di chi, come quei due all’andata, si lascia paralizzare dalle delusioni della vita e va avanti triste; e c’è la via di chi non mette al primo posto sé stesso e i suoi problemi, ma Gesù che ci visita, e i fratelli che attendono la sua visita, cioè i fratelli che attendono che noi ci prendiamo cura di loro. Ecco la svolta: smettere di orbitare attorno al proprio io, alle delusioni del passato, agli ideali non realizzati, a tante cose brutte che sono accadute nella propria vita. Tante volte noi siamo portati a orbitare, orbitare… Lasciare quello e andare avanti guardando alla realtà più grande e vera della vita: Gesù è vivo, Gesù mi ama. Questa è la realtà più grande. E io posso fare qualcosa per gli altri. È una bella realtà, positiva, solare, bella! L’inversione di marcia è questa: passare dai pensieri sul mio io alla realtà del mio Dio; passare – con un altro gioco di parole – dai “se” al “sì”. Dai “se” al “sì”. Cosa significa? “Se fosse stato Lui a liberarci, se Dio mi avesse ascoltato, se la vita fosse andata come volevo, se avessi questo e quell’altro…”, in tono di lamentela. Questo “se” non aiuta, non è fecondo, non aiuta noi né gli altri. Ecco i nostri se, simili a quelli dei due discepoli. I quali passano però al sì: “sì, il Signore è vivo, cammina con noi. Sì, ora, non domani, ci rimettiamo in cammino per annunciarlo”. “Sì, io posso fare questo perché la gente sia più felice, perché la gente migliori, per aiutare tanta gente. Sì, sì, posso”. Dal se al sì, dalla lamentela alla gioia e alla pace, perché quando noi ci lamentiamo, non siamo nella gioia; siamo in un grigio, in un grigio, quell’aria grigia della tristezza. E questo non aiuta neppure ci fa crescere bene. Dal se al sì, dalla lamentela alla gioia del servizio......


sabato 25 aprile 2020

RESTA CON NOI, PERCHÉ SI FA SERA

Dal Vangelo secondo Luca 
- Lc 24, 13-35


Ed ecco, in quello stesso giorno [il primo della settimana] due dei [discepoli] erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo.

Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l'hanno visto».
Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.
Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro.

Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l'un l'altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?».

Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l'avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

Commento di p. Hermes Ronchi
Gesù si avvicinò e camminava con loro. Dio si avvicina sempre, viandante dei secoli e dei giorni, e muove tutta la storia. Cammina con noi, non per correggere il nostro passo o dettare il ritmo. Non comanda nessun passo, prende il nostro. Nulla di obbligato. Ogni camminare gli va. Purché uno cammini.
Gli basta il passo del momento. Gesù raggiunge i due viandanti, li guarda li vede tristi, rallenta: che cosa sono questi discorsi? Ed essi gli raccontano la sua storia: una illusione naufragata nel sangue sulla collina. Lo hanno seguito, lo hanno amato: noi speravamo fosse lui… Unica volta che nei Vangeli ricorre il termine speranza, ma solo come rimpianto e nostalgia, mentre essa è «il presente del futuro» (san Tommaso); come rammarico per le attese di potere tramontate. Per questo «non possono riconoscere» quel Gesù che aveva capovolto al sole e all’aria le radici stesse del potere.
Ed è, come agli inizi in Galilea, tutto un parlare, confrontarsi, insegnare, imparare, discutere, lungo ore di strada. Giunti a Emmaus Gesù mostra di voler «andare più lontano». Come un senza fissa dimora, un Dio migratore per spazi liberi e aperti che appartengono a tutti. Allora nascono parole che sono diventate canto, una delle nostre preghiere più belle: resta con noi, perché si fa sera. Hanno fame di parola, di compagnia, di casa. Lo invitano a restare, in una maniera così delicata che par quasi siano loro a chiedere ospitalità. Poi la casa, non è detto niente di essa, perché possa essere la casa di tutti. Dio non sta dappertutto, sta nella casa dove lo si lascia entrare. Resta. E il viandante si ferma, era a suo agio sulla strada, dove tutti sono più liberi; è a suo agio nella casa, dove tutti sono più veri.
Il racconto ora si raccoglie attorno al profumo del pane e alla tavola, fatta per radunare tanti attorno a sé, per essere circondata da ogni lato di commensali, per collegarli tra loro: gli sguardi si cercano, si incrociano, si fondono, ci si nutre gli uni degli altri. Lo riconobbero allo spezzare il pane. Lo riconobbero non perché fosse un gesto esclusivo e inconfondibile di Gesù – ogni padre spezzava il pane ai propri figli – chissà quante volte l’avevano fatto anche loro, magari in quella stessa stanza, ogni volta che la sera scendeva su Emmaus. Ma tre giorni prima, il giovedì sera, Gesù aveva fatto una cosa inaudita, si era dato un corpo di pane: prendete e mangiate, questo è il mio corpo.
Lo riconobbero perché spezzare, rompere e consegnarsi contiene il segreto del Vangelo: Dio è pane che si consegna alla fame dell’uomo. Si dona, nutre e scompare: prendete, è per voi! Il miracolo grande: non siamo noi ad esistere per Dio, è Dio che vive per noi.


ROMA, I NAZISTI, IL MORBO DI K, L'EPIDEMIA

LA BEFFA DELL'ISOLA TIBERINA

TRE GIOVANI MEDICI "INVENTANO" IL MORBO DI K

Durante la seconda Guerra Mondiale a Roma ci fu una terribile epidemia di una malattia sconosciuta e pericolosa.
Si chiamava morbo di K., aveva sintomi molto gravi ed era estremamente contagiosa, ma grazie all’intuizione di tre medici eccezionali (Giovanni Borromeo, Adriano Ossicini e Vittorio Sacerdoti) non ci fu nessuna vittima. Tutti i malati, messi in isolamento in un padiglione dell’Ospedale Fatebenefratelli, si salvarono miracolosamente e così anche i medici e infermieri, nonostante il morbo di K. fosse molto contagioso.
Iniziò tutto il 16 ottobre 1943, il “sabato nero” del ghetto di Roma, quando le SS fecero un orrendo rastrellamento costringendo 1024 persone, tra cui centinaia di bambini, a salire sui treni dell’orrore per andare a morire ad Auschwitz.
Qualcuno però riuscì a evitare i nazisti e a salvarsi, cercando rifugio proprio sull’isola Tiberina dove il coraggioso dottor Borromeo, primario dell’ospedale, decise di ricoverarli tutti, quasi un centinaio.
Ovviamente bisognava compilare una cartella clinica per questi pazienti speciali. E così i tre medici, in particolare Vittorio Sacerdoti (che in quanto ebreo era già stato vittima delle leggi razziali e lavorava sotto falso nome all’ospedale, protetto dal primario Borromeo), immaginarono una malattia orrenda, devastante e contagiosa, il Morbo di K., dove la K. indicava in realtà Kesselring, lo spietato ufficiale nazista, o secondo altre fonti, Kappler, il disumano persecutore di Roma.
I finti ricoverati furono messi tutti in un reparto speciale, in isolamento.
La sera del 16 ottobre 1943, quando i nazisti arrivarono a perlustrare l’ospedale, trovarono i tre medici, Borromeo, Ossicini e Sacerdoti con delle mascherine sul volto, preoccupatissimi per lo scoppio di questa improvvisa e pericolosa epidemia. I nazisti allora pretesero di vedere tutte le cartelle cliniche, dato che c’era anche un medico tra loro, ma alla richiesta del dott. Borromeo di andare a visitare personalmente i malati, ebbero paura di questo terribile morbo di K. e preferirono andarsene.
E così tutti i finti malati ricoverati in isolamento si salvarono dall’orrore nazista.
Ma la storia non finisce qui.
Borromeo, Ossicini e Sacerdoti continuarono quotidianamente ad aiutare ebrei e partigiani. Installarono una radio ricetrasmittente clandestina negli scantinati dell’ospedale per restare in contatto con gli altri partigiani e con Radio Londra, dichiararono morti proprio per il morbo di K. i finti pazienti e procurarono loro documenti falsi per farli fuggire, esponendosi così a grandi rischi, in un triste momento storico in cui le delazioni ai tedeschi erano all’ordine del giorno e l’ospedale pullulava di spie.
Questi tre medici coraggiosi non arretrarono davanti all’orrore e alla paura perché, come non smetteva di raccontare nelle interviste dopo la guerra Adriano Ossicini: “Bisogna cercare di essere dalla parte giusta, sempre”.

Olivella Foresta

(Pietro Borromeo, figlio di Giovanni Borromeo ha raccontato questa storia nel libro: Il giusto che inventò il morbo di k.. Fermento Editori, 2007)

EUROPA SIGNIFICA ATTENZIONE CONCRETA ALLE PERSONE

INTERVISTA AL PRESIDENTE DEL PARLAMENTO EUROPEO

Nell'intervista concessa all'Osservatore Romano e a Radio Vaticana - Vatican News il presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli, elenca le sfide, che attendono l'Unione dei 27, innanzitutto legate all'emergenza Coronavirus. "Solo insieme si esce dalla crisi"

di Andrea Monda

Incontriamo telefonicamente David Sassoli, presidente del Parlamento Europeo, in una data altamente simbolica, il 25 aprile e la conversazione ruota tutta sul tema dei valori, libertà, democrazia, pluralismo che sono sottesi a quella ricorrenza. Non si tratta di temi astratti ma di quella “fonte” da cui scaturisce la cura e l’attenzione per la vita concreta delle persone che è la dimensione da cui si deve ripartire per ricostruire un’Europa capace di uscire più forte dalla tremenda crisi della pandemia del Covid-19.

Papa Francesco di recente a più riprese ha dedicato molto spazio nei suoi discorsi  proprio al tema dell’Europa. Ad esempio, nel messaggio Urbi et Orbi della Pasqua ha affermato che: «Dopo la Seconda Guerra Mondiale, questo continente è potuto risorgere grazie a un concreto spirito di solidarietà, che gli ha consentito di superare le rivalità del passato. È quanto mai urgente, soprattutto nelle circostanze odierne, che tali rivalità non riprendano vigore, ma che tutti si riconoscano parte di un’unica famiglia e si sostengano a vicenda. Oggi l’Unione Europea ha di fronte a sé una sfida epocale, dalla quale dipenderà non solo il suo futuro ma quello del mondo intero. Non si perda l’occasione di dare ulteriore prova di solidarietà anche ricorrendo a soluzioni innovative». Volevo chiedere a lei, come cattolico, come cittadino, rappresentante politico e come Presidente del Parlamento Europeo, che effetto le ha fatto ascoltare queste parole dal Santo Padre? 
R.: L’effetto di un richiamo giusto, per affrontare con responsabilità questo passaggio storico, perché è vero che l’Europa è una comunità di interessi, ma non può non essere una comunità di destino. E in questo momento il richiamo del Santo Padre è particolarmente importante perché ci chiede di essere attenti a tutte le persone. Credo che questo sia il momento in cui l’Europa degli Stati, delle nazioni, dei governi, possa rafforzare le sue istituzioni per essere accanto a tutti i cittadini, quelle del nord e quelli del sud. Per fare cosa? Innanzi tutto per rivedere il proprio modello di sviluppo, per riuscire a proteggere meglio le persone e per custodire anche quei valori che il Santo Padre ha richiamato e che sono un elemento indispensabile per sostenere  le sfide che il mondo globale ci propone. Noi abbiamo una responsabilità che riguarda anche il patrimonio di valori che questi settanta anni ci hanno consegnato: la libertà, la democrazia, il pluralismo. Credo che in questo momento dobbiamo essere ancora più orgogliosamente fedeli ai valori europei perché il mondo ne ha bisogno. 
L’Unione Europea si trova nella condizione di dover armonizzare la spinta ideale dei padri fondatori, con la concretezza, anche finanziaria, richiesta nei vari momenti storici e politici. Come riuscire a trovare ogni volta, e adesso in special modo, questo difficile, ma necessario equilibrio?
R.: Siamo ad un cambio di fase e serviranno visione e pragmatismo. L’Europa non si costruisce soltanto immaginandola illuministicamente. L’Europa è un grande spazio di dibattito politico e vogliamo che lo sia sempre di più. Vogliamo che però sia anche uno spazio di partecipazione e non solo di cruda difesa degli interessi nazionali. Ecco perché lo spazio europeo può essere anche di esempio e un modello per gli altri, non credendoci più bravi degli altri, ma sapendo offrire agli altri un patrimonio importante per tutti. Dobbiamo dimostrare che in libertà, in democrazia, rispettando  i diritti fondamentali  della persona e il valore della vita si vive meglio e si può migliorare gli standard di vita. Se si sgretola l’Europa chi altri oggi nel mondo terrebbe alta a bandiera dei diritti della persona? In questo momento il mondo chiede più democrazia, non meno democrazia.
Il Papa dice: «Dare ulteriore prova di solidarietà anche ricorrendo a soluzioni innovative»; scendendo sul piano concreto: le misure che sono uscite fuori dal Consiglio Europeo del 23 aprile, penso ad esempio al Recovery Fund, possono essere viste come quelle soluzioni innovative di cui parla il Papa?
R.: Sì, nella miseria della politica, il Consiglio ha fatto un importante passo in avanti. Siamo entrati un mese e mezzo fa a mani nude, sprovvisti di strumenti per affrontare una crisi così profonda  che lascerà degli strascichi importanti nelle nostre società. Oggi ne usciamo un po’ meglio attrezzati, con degli interventi che sono stati fatti tempestivamente, alcuni erano anche attesi da molto tempo, ma sono stati fatti con velocità. Nel Consiglio di giovedì è stata presa una decisione: aprire un “cantiere della ricostruzione” per dare una risposta comune, europea, all’emergenza. Questo è il passo in avanti; non era scontato. Adesso questo piano della ricostruzione dobbiamo fondarlo sulla solidarietà. Mi lasci dire però che credo che da questa crisi non si uscirà solo raddrizzando le questioni materiali; penso invece che usciremo da questa crisi se le questioni materiali si combineranno con una ripresa di valori, quei valori europei oggi indispensabili. Bene quindi l’apertura del cantiere e della discussione che si svilupperà cercando di far conciliare sensibilità, punti di vista, interessi. Ma la cosa importante, da sottolineare, è che abbiamo sentito da tutti i capi di governo il richiamo a un’uscita comune dalla crisi. Si esce insieme, altrimenti sarebbe declino per tutti; questo qualche settimana fa non era scontato.
Lei ha usato l’espressione della necessità di un “Piano Marshall” per la ripresa, finanziato direttamente dai Paesi dell’Unione. Si tratterebbe di una strategia che evidenzierebbe la forza dell’Unione Europa, ma soprattutto la sua capacità di essere coesa e solidale. Questo mi sembra un messaggio di cui si sente davvero il bisogno: la vicinanza e non la distanza. Dal ruolo che  riveste, lei percepisce che c’è stato uno scatto, un cambiamento, che la dimensione sociale è entrata al centro della riflessione dell’Unione Europea?
R.: Sì, perché tutti, settimana dopo settimana, si sono resi conto della profondità della crisi. E quanto siano interdipendenti e connesse le economie dei singoli Stati. L’Europa si costruisce con le sue crisi, diceva Jean Monnet. È così. E ad ogni momento di difficoltà tutti capiscono che non puoi fare da solo, che nessuno è autosufficiente. L’avevamo detto sei settimane fa: o ne usciremo con un’Unione europea  più attrezzata e robusta oppure non ne usciremo. Per fare questo adesso servirà rafforzare il livello istituzionale dell’Unione e renderlo capace di guidare la fase nuova. Dobbiamo combattere contro l’egoismo? Sì. Dobbiamo combattere contro una vecchia idea nazionalista che esiste in tutti i Paesi? Sì. Però, in questo momento sentiamo tutti la necessità che il mondo lo possiamo affrontare se le nostre istituzioni, il quadro democratico europeo sarà più robusto e in grado di assumere decisioni in  tempi rapidi. Quindi non bastano solo soluzioni alla crisi in quanto tale; servono soluzioni al cambio di fase che questa crisi impone a tutti. Le faccio un esempio: noi non possiamo e non vogliamo rinunciare alle libertà e alla democrazia, però dobbiamo anche adeguarle, perché siano anche più capaci di rispondere tempestivamente. Abbiamo bisogno di sostenere un processo di uscita dalla crisi rivedendo il nostro modo di essere. Rafforzare l’Europa vuole dire anche cambiarla, adeguando gli strumenti con i quali siamo entrati nella tempesta. Credo che questo sia uno sforzo che riguarda Bruxelles, ma che riguarda tutte le capitali, tutti i Paesi; anche loro devono cambiare. Dobbiamo inoltre avere un’idea chiara nel medio e nel lungo periodo su dove vogliamo andare, cosa e come  ricostruire. Vogliamo tornare a rimettere le lancette dell’orologio indietro o le vogliamo mettere al tempo giusto, in cui, con grandi difficoltà, la storia ci ha posizionato? Oggi l’orologio non può tornare indietro. In questo è quanto mai prezioso il forte richiamo che Papa  Francesco ci sta rivolgendo, ha ragione e coglie il punto, perché la democrazia la rafforziamo se guarda alle persone, a ogni persona, agli interessi e alla necessità di ogni persona. Allora la sfida è quella di riallacciare, riscoprire una vocazione. Poi è vero, abbiamo un piano per la ricostruzione, un “piano Marshall”, che però a differenza del Secondo Dopoguerra, deve essere finanziato dagli europei e non verrà finanziato da altri; un piano che, ad esempio, dovrà dirci quanto cambiamento del nostro modello economico vogliamo, quanto vogliamo investire nelle ricostruzione sul green deal e l’Europa digitale… La pandemia ci ha posto davanti  a una sfida, il cambio di fase, di passo, e questo ci deve vedere molto attenti e capaci di coglierne gli elementi di novità. Dobbiamo questo non solo alla tradizione e ai valori dell’Europa; dobbiamo questo anche alle persone che sono morte, alle persone che ci hanno lasciato, a questo dolore che il mondo sta provando. Dobbiamo uscirne proteggendo meglio le nostre società. La ricostruzione è fatta di tante cose, contiene tanti ingredienti.
Qualche giorno fa, intervistato da Vatican News, Andrea Riccardi ha detto che secondo lui la pandemia non rende più difficile, ma più facile l’azione condivisa, la coesione quindi di tutti per cercare di cambiare la situazione. Però lui stesso notava come l’Europa in passato e ancora forse oggi, stia tralasciando i temi umani, i temi del legame. Quella attenzione alle persone che con insistenza Papa Francesco ci ricorda è la risposta  al vero problema della società europea, delle società occidentali, il problema della grande solitudine delle persone. Paradossalmente il coronavirus che ci condanna all’isolamento, ha svelato un fatto che però era già presente, questa grande solitudine. Non tocca alla politica rispondere, e come?
R.: Sono convinto che questa fase, anche così dolorosa, stia mettendo in risalto tanti elementi di umanità. Anche la politica quando esce dalle contrapposizioni, magari dà anche prova di questa umanità. Mi riferisco per esempio ad alcuni provvedimenti, a delle buone pratiche che in questo momento tanti governi europei, sia al nord che al sud, hanno adottato e che forse potrebbero essere utili e costituire degli esempi. In Portogallo è stata fatta una legge per dare un indirizzo fittizio ai senzatetto e ai migranti e poter consentire loro di accedere ai servizi sociali, sanitari. Credo che questo modo di affrontare la crisi, facendo leva sulle esperienze che le società civili stanno animando, sia molto importante perché una politica senza i cittadini vive nella torre di avorio e diventa burocrazia. Penso quindi che da questa stagione si uscirà rafforzando l’umanità che in questo momento in tutti i Paesi si sta manifestando, è una grande ricchezza e sarà anche il riscatto di questa stagione. Poi, non dobbiamo nemmeno cadere in visioni illuministiche, perché noi sappiamo che non basta immaginare il mondo nuovo, dobbiamo costruirlo. Questo lo dobbiamo fare passo per passo, battaglia dopo battaglia, sostenendo ogni passaggio con il consenso, perché la democrazia è consenso, trovare soluzioni per mezzo di decisioni condivise. Questo è il tempo per grandi riflessioni sul modo di essere della politica. Vorrei sottolineare però che stiamo vedendo delle cose straordinarie che fanno parte di una generosità degli uomini e delle donne che in questo momento stanno combattendo, che si rimboccano le maniche; pensate a tutte le associazioni che in questo momento sono mobilitate in Europa: che energia esprimono! Credo quindi che possiamo caricarci di speranza, rispetto alla fatica, al dolore di queste drammatiche vicende. Per noi questa è una necessità: caricare e ricaricare la speranza e lo possiamo fare solo se saremo accanto alle persone.
Quale ruolo può assumere l’Unione Europea nello scenario globale del dopo pandemia? Può diventare l’UE un modello da seguire?
R.: Deve diventare un modello, perché altrimenti non avrebbe alcuna funzione. Purtroppo nello spazio europeo ci sono dei virus oltre il Covid, che da sempre tormentano lo spirito europeo. Uno è certamente l’antisemitismo e l’altro è il nazionalismo, che sono le spinte che producono divisione, costruzione del nemico, odio, e in Europa anche guerre. Dobbiamo portare lo spazio europeo, che già lo è,  ad essere ancora di più un punto di riferimento. Ma uno spazio di libertà non può vivere senza responsabilità e solidarietà. Credo che questa sia la vocazione dell’Europa che ci hanno consegnato i nostri padri in questi settant’anni, e su questo   dobbiamo investire. L’Europa non può essere utile solo a se stessa, perché non avrebbe visione, non avrebbe orizzonti. Essa è utile agli europei certo, ai nostri paesi per stare al mondo altrimenti sarebbero marginalizzati, ma è anche utile al mondo per avere un punto di riferimento. Non vogliamo uscire da questa crisi con più autoritarismo e imperialismo ma con più democrazia e partecipazione.
In un’intervista di qualche mese fa all’Osservatore Romano, Massimo Cacciari usò questa espressione: «L’Europa è vecchia, decrepita. Ha bisogno di un fertilizzante e guardandomi in giro, lo dico da non credente, l’unico fertilizzante che vedo in circolazione è la Chiesa cattolica, i cattolici». Secondo lei la Chiesa cattolica, i cattolici, possono oggi avere questo ruolo per rigenerare non il Vecchio Continente, ma un continente vecchio?
R.: Sì, possono esserlo, però questo non deve costituire un alibi per chi non è cattolico, perché c’è il rischio di assegnare ai cattolici una responsabilità che deve essere di tutti. Si scarica sempre su altri e questo non va bene. Secondo la Lettera a Diogneto i cristiani vivono nella società, non al di fuori di essa. E  anche gli altri devono vivere nella società e devono collaborare. Ognuno faccia la propria parte. In Europa ci sono tante sensibilità, tante culture e ognuno deve portare sulle spalle la propria parte di responsabilità. Certamente lo faranno i cattolici, i cristiani, però in questo momento credo che sia l’Europa nel suo insieme che deve avere le spalle larghe per assumere una funzione agli occhi del mondo. Per i cristiani credo venga naturale pensare che la vita degli altri, di quelli che sono fuori dal nostro spazio, sia uguale alla nostra, che debba avere gli stessi diritti. Questo è normale per i cristiani. Ecco perché credo che le parole di Papa Francesco stiano impressionando tutti e chiamando tutti alla responsabilità anche i non credenti.
La società ha bisogno sempre di essere rigenerata. Mi viene in mente la figura del Senatore Roberto Ruffilli, che il 16 aprile del 1988 fu barbaramente ucciso dai terroristi; viene da pensare che dal punto di vista cristiano per “fertilizzare” bisogna dare la vita, il seme che muore produce molto frutto. Ruffilli aveva dedicato tutta la vita a questo ideale di libertà e democrazia, il suo libro s’intitolava «Il cittadino come arbitro». Oggi anche la democrazia è in gioco in questa crisi dell’Europa?
R.: Sono stato molto amico di Roberto. La sua testimonianza è davvero un esempio. Quel titolo, «Il cittadino come arbitro», è molto attuale. Ci richiama a fare in modo che tutto quello che uscirà dalla crisi sia fatto per le persone, non solo per ricucire stappi all’interno di dinamiche di potere. Ecco perché da questa crisi dobbiamo uscirne rafforzando i processi democratici. Ma quanti oggi si stanno impegnando per dividere lo spazio europeo? E come mai  c’è tanto impegno a dividerci, a renderci più deboli, a frammentarci, a riportarci ognuno nella sua piccola patria? Perché c’è questa dinamica che arriva forte da fuori dell’Europa e che scatena questa voglia di averci deboli? Eppure non abbiamo un esercito, non facciamo la guerra, non invadiamo Paesi … Credo che la risposta sia perché i valori e il diritto europeo siamo elementi di forte contraddizione in questo momento rispetto a dinamiche globali che vedono una ripresa dell’autoritarismo. Ecco perché ha fatto molto bene Papa Francesco a richiamare alla responsabilità gli europei, affinché in questo momento possano essere un punto di riferimento per riappropriarsi dei valori davvero importanti per l’uomo: il valore della vita, il valore dei diritti inalienabili delle persone, il diritto alla libertà; riferimenti per noi scontati, ma che ne mondo non lo sono.
Ha ragione quindi il cardinale del Lussemburgo Hollerich, che di recente su “La Civiltà Cattolica” ha detto: «L’Europa non può essere ricostruita senza un’idea di Europa senza ideali»
R.: Certamente. Ma noi gli ideali li abbiamo anche se facciamo troppa fatica ad esprimerli. Il problema è che spesso l’egoismo delle nazioni, un cattivo sentimento nazionalista, l’idea che io sia migliore dell’altro, impedisce di dispiegare le nostre potenzialità e manifestare la nostra identità. Credo che questa crisi possa essere l’occasione per liberarci di tante catene.