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mercoledì 29 aprile 2020

CELEBRAZIONI EUCARISTICHE IN TEMPO DI PANDEMIA. CHE COSA FARE?


Una lacerazione 
ricucita a fatica

-        Giuseppe Savagnone
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Non è bastata neppure la precipitosa retromarcia di Conte, dopo il duro comunicato della Cei, a placare le polemiche suscitate dalla sua conferenza stampa di domenica sera, in cui aveva annunciato il mantenimento della sospensione sine die delle celebrazioni eucaristiche. Immediata la risposta della Conferenza Episcopale Italiana, che aveva denunciato la violazione dell’«esercizio della libertà di culto». Un’accusa grave, foriera di una rottura che il presidente del Consiglio sicuramente non prevedeva e non voleva. Da qui la nota con cui palazzo Chigi, nella tarda serata dello stesso giorno, tentava di recuperare annunciando l’elaborazione di un protocollo per la partecipazione dei fedeli alle celebrazioni liturgiche.
Si è saputo, dopo, che la decisione del governo era stata presa su indicazione del Comitato tecnico-scientifico, in base alla considerazione che le chiese sono frequentate soprattutto da persone anziane, particolarmente esposte al contagio.
Ora si parla di una ripresa delle celebrazioni liturgiche per domenica 10 maggio, privilegiando le messe all’aperto e mettendo in atto una serie di precauzioni per evitare il contagio.
Le reazioni favorevoli alla Cei
Questi i fatti. Ma, al di là dell’episodio, resta il vespaio di reazioni e di commenti, che hanno delineato una netta spaccatura nell’opinione pubblica, prima di tutto in quella cattolica.
La netta maggioranza di quest’ultima si è schierata con la Cei. Da un capo all’altro d’Italia vescovi, parroci, semplici fedeli, hanno salutato la presa disposizione della Conferenza Episcopale come una salutare reazione a un provvedimento che rischiava di perpetuare la situazione di disagio che la sospensione delle messe aveva creato.
A colpire sono stati soprattutto l’unilateralità della decisione e lo scarso valore attribuito alla dimensione religiosa. Per quanto riguarda la prima, in un’ intervista al «Giornale» il cardinale Camillo Ruini, ex presidente della Cei, ha accusato il governo di essersi arrogato «competenze non sue riguardo alla vita della comunità cristiana».
Sullo sfondo, l’art.7 della Costituzione, dove si dice che «lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani». O, ancora più monte, la famosa risposta data da Gesù ai dottori della legge che lo interrogavano sulla liceità del pagamento del tributo a Cesare: «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,21).
Quanto al misconoscimento della dimensione religiosa, un altro ex presidente della Cei, il card. Angelo Bagnasco, ha fatto notare che «la persona ha desideri non solo materiali, ma anche spirituali. Assicurare il pane della tavola è doveroso, ma non riconoscere anche il pane dello spirito significa non rispettare l’uomo e impoverire la convivenza. L’esperienza della fede genera energia morale, e questa è la vera forza di una società».
Le reazioni critiche
Non sono mancate le reazioni contrarie alla presa di posizione dei vescovi, anche da parte di cattolici. Emblematica la posizione di don Giovanni Ferretti, noto filosofo: «Libertà di culto non è libertà di infettare la gente. La nota Cei mi ha profondamente amareggiato, come cittadino, come cattolico e come prete, mi pare un errore politico e pastorale». I motivi: «Siamo in grado oggi di assicurare che non vi sarà pericolo di contagio? Sapremo sanificare le chiese? Sapremo obbligare la gente a tenere le distanze le mascherine?. E il prete celebrerà con la mascherina? Che Messe con il popolo sarebbero mai queste?».
Ci sono stati anche commenti più aspri, come quella del teologo Alberto Maggi, che ha esortato a non dare troppa importanza all’opinione dei vescovi, incapaci, a suo avviso, di percepire le vere esigenze della società e degli stessi cristiani.
Convergendo così, paradossalmente, con la posizione di Antonio Socci, instancabile critico di Francesco e della Chiesa da lui guidata, secondo cui «da sempre la Cei – su ordine del papa argentino, mosso dalla precisa intenzione di attaccare la Lega di Salvini – era stata più che collaborativa: servile». Tardiva, dunque, secondo Socci, la protesta per la decisone di Conte: «La Cei raccoglie quello che ha seminato. Da servi si sono comportati, da servi vengono ora trattati».
L’ammonimento di papa Francesco
Grande rilievo i mezzi di comunicazione hanno dato alle parole del papa, durante una messa a Santa Marta: «In questo tempo nel quale si incomincia ad avere disposizioni per uscire dalla quarantena, preghiamo il Signore perché dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e dell’obbedienza alle disposizioni perché la pandemia non torni».
Una preghiera interpretata da molti come un segnale di sostegno alla posizione del governo nello scontro con la Cei, tanto da far parlare a un quotidiano di «una vistosa mancanza di comunicazione» e di «forti incomprensioni tra papa Francesco e la Conferenza episcopale italiana»
Così del resto hanno interpretato le parole del papa quei cattolici che già da tempo vedono in Francesco un dissacratore della genuina tradizione cattolica e che hanno commentato con giudizi del tipo: «Il primo Papa ateo della storia», «Papa comunista», «Ritorni in Argentina».
Il punto di vista dell’altro
Cosa pensare di questa vicenda e, soprattutto, delle prese di posizione che essa ha suscitato? La prima cosa appare evidente è che ci sono state delle difficoltà a mettersi nel punto di vista dell’ “altro”.
È stato sicuramente l’errore di Conte che, pur avendo delle importanti ragioni scientifiche e sanitarie a favore della sua soluzione iniziale, non ha tenuto affatto conto della grande fatica con cui il mondo cattolico e i suoi pastori avevano vissuto questo periodo, con sincero spirito di collaborazione col governo, ma attendendosi anche una adeguata comprensione, da parte di quest’ultimo, delle proprie esigenze.
Il premier non si è neppure reso conto che i vescovi si trovavano pressati da una base inquieta e perplessa, a cui i “conservatori” e i partiti di destra – con in testa Salvini, il quale aveva fatto la proposta (lasciata cadere dalla Cei) di riaprire le chiese per la Settimana Santa – offrivano continue sollecitazioni, accusando la gerarchia di “resa” di fronte al potere politico.
Le esagerazioni del comunicato e di molte reazioni dei cattolici
Anche da parte della CEI, è vero, l’accusa rivolta a Conte di voler violare la libertà di culto, è suonata in sé esagerata. E il tono appare troppo rivendicativo e quasi minaccioso. È mancata – nel comunicato dei vescovi, ma soprattutto in tanti commenti provenienti dal mondo cattolico – una sfumatura di comprensione nei confronti del governo, alle prese con una sollevazione generale, da parte di tutte le categorie che vogliono riaprire le rispettive attività, in un momento in cui i medici dicono che la riapertura è un grosso rischio.
Le ragioni della Cei
Alla Cei bisogna tuttavia riconoscere l’impatto della delusione, davanti a una decisione bruscamente unilaterale, mentre era ancora in corso un dialogo rispettoso col governo. Tanto più che il decreto prevedeva, entro i primi di giugno, la data di riapertura di musei e ristoranti. Finché si era trattato, come finora, di farmacie e tabaccai, era stato facile rispondere ai critici interni che una veloce compravendita non è comparabile alla partecipazione di una folla a una messa domenicale. Ma i musei e i ristoranti? Possibile che non ci fosse neppure par condicio fra i McDonald’s e le chiese?
Resta la violenza di una frangia consistente di cattolici che hanno dato l’impressione di pensare il problema solo in termini confessionali, contraddicendo l’etimologia di “cattolico”, che indica una pienezza e universalità di visione. Giusta la richiesta della ripresa delle funzioni, non sempre il tono.
Il bilanciamento negato
Altrettanto unilaterale appare l’atteggiamento di coloro che si sono indignati per la presa di posizione dei pastori. Fermo restando il valore primario della salute, oggi si sente giustamente l’urgenza di bilanciarlo con altri, per tentare una difficile ma non impossibile conciliazione. Lo si fa per il lavoro e la produttività, senza cui si rischia di morire di fame, invece che di coronavirus. Lo si fa per la cultura, riaprendo le librerie e i musei. È giusto chiedere che si faccia anche per le funzioni religiose. A meno di dare per scontato, come purtroppo accadeva anche prima del coronavirus (quando le chiese erano aperte!), che ciò che non muove il Pil sia irrilevante e venga dopo.
Che significa essere cattolici “praticanti”?
Soprattutto però appare preoccupante la scarsa percezione, dall’una e dall’altra parte, che questa società potrà risollevarsi, anche dal punto di vista materiale, solo reinterpretando la dimensione spirituale. Non lo capiscono coloro che mettono in secondo piano, come optional, la sfera religiosa. Ma sembrano non capirlo neppure coloro che, per recuperarla, si pongono soltanto il problema di ripristinare il culto pubblico.
In questi giorni, in un articolo apparso su «Settimananews», Ivo Seghedoni ha fatto notare che il coronavirus ha fatto saltare lo spartiacque tra cattolici “praticanti” e “non praticanti” a cui eravamo assuefatti da secoli, e che indicava nei secondi coloro che non vanno in chiesa la domenica.
Oggi ci siamo trovati tutti ad essere, in quel senso, “non praticanti”. Ma questo ci costringe a chiederci se davvero la “pratica” che caratterizza il cristiano si possa ridurre alla frequenza ai riti, o se non dobbiamo prendere coscienza che essa oggi esige un ripensamento più profondo, che non escluda il culto ma riproponga aspetti dimenticati del Vangelo.
Perché ora a messa ci torneremo, ma, così come non abbiamo cessato di essere “praticanti”, nel senso evangelico per il solo fatto di essere esclusi dai riti, non è detto che lo saremo davvero perché la domenica ci presenteremo a prendere l’eucaristia.




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