venerdì 20 marzo 2020

LA POESIA, INATTUALE MA NECESSARIA

Da Berardinelli a Valduga, passando per Conte, Luzi, Magrelli e Merini, Vita e Pensiero raccoglie in volume undici saggi usciti sulla rivista in cui altrettanti poeti fanno il punto sul senso di scrivere versi oggi. 

di ALESSANDRO ZACCURI

La domanda è sempre la stessa e anche le risposte, in fondo, non variano mai troppo. «Perché i poeti nel tempo del bisogno?», si chiedeva Friedrich Hölderlin in un verso divenuto celeberrimo grazie alla lettura che ne diede Martin Heidegger. Appunto: perché la poesia quando tutto il resto intorno sembra spingerci in un’altra direzione? Probabilmente perché ogni tempo è «tempo del bisogno» ed è proprio questa mancanza che ci convince a dare ascolto ai poeti. «La poesia – quando è tale – è sempre ricerca e desiderio di salvezza, per sé e per il mondo intero», scrive l’italianista Uberto Motta nella prefazione a La parola e la cosa, il volume edito da Vita e Pensiero nel quale trovano spazio una dozzina di “saggi sulla resistenza della poesia”. Originariamente apparsi sulla storica rivista dell’Università Cattolica tra il 2003 e il 2017, i contributi comprendono in realtà anche un paio di interviste, per la precisione quella ad Alda Merini raccolta nel 2003 da Alessandro Gamba (il poeta, afferma l’autrice della Terra Promessa, «è una persona che è impazzita di felicità, cioè che paga su di sé, anche fisicamente, l’esperienza della felicità») e quella realizzata da Roberto Mussapi con Mario Luzi alla fine dello stesso anno, in vista del novantesimo compleanno del grande poeta fiorentino.       «La poesia deve agire », ribadisce Luzi durante la conversazione, e forse basterebbe questo appello a un’efficacia da dispiegare «intimamente ma anche esteriormente» per risolvere la questione della perenne inattualità del canto. Di primo acchito, La parola e la cosa è a sua volta un libro intempestivo, clamorosamente fuori sincrono rispetto a questi giorni di quarantena collettiva, di timori privati e di pubbliche preoccupazioni. Non lo è, invece, e non soltanto perché “la cosa” da cui “la parola” si lascia interpellare potrebbe benissimo essere lo sfuggente Covid–19. C’è un’altra ragione da tenere in considerazione, un dato solo in apparenza contingente che in effetti va dritto al cuore dell’esperienza poetica. Domani, secondo i programmi, si sarebbe dovuta svolgere presso la Libreria Vita e Pensiero di Milano una presentazione del libro. Evento cancellato, come ogni altra manifestazione in calendario in queste settimane, ma prontamente rimpiazzato nella stessa giornata da un reading online sul canale YouTube della casa editrice, al quale è possibile partecipare inviando al più presto una email all’indirizzo ufficiostampa. vp@unicatt.it. Hanno già aderito alcuni degli autori presenti in La parola e la cosa, come Valerio Magrelli e Giuseppe Conte, a dimostrazione che la poesia riesce comunque ad agire, nonostante ogni difficoltà.
Ma dalle pagine del libro emergono molti altri buoni motivi per cui della poesia, adesso, non possiamo fare a meno. Se la poesia stessa è «qualcosa che accade nel mondo del linguaggio», come osserva Alfonso Berardinelli nel suo panorama critico del Novecento italiano, ecco che non ci si può che trovare d’accordo con la richiesta, avan- zata da Maurizio Cucchi, di una reazione alla lingua «smorta» e a un «parlato […] standardizzato verso il basso e il banale» che tanti danni ha prodotto nelle prime fasi dell’emergenza in atto. Chiamata a confrontarsi con l’«indicibile », la poesia è sempre «una testimonianza dell’esperienza
dello spirito », come ricorda Franco Loi nella sua toccante confessione autobiografica. In questo, come intuiva nel suo articolo del 2003 il compianto Luciano Erba, dare ascolto alla poesia significa prestare attenzione alla «misteriosa figura di scorcio» che, «come in un dipinto del Veronese », all’improvviso «attraversa la scena in diagonale, inseguendo un oggetto indistinto ». Ci sarà pure un problema di mercato, come giustamente lamenta lo stesso Conte, che pure continua a nutrire una speranza incrollabile nella poesia («Se dovesse tacere lei, neppure gli uomini, e forse neppure Dio, sarebbero più gli stessi»), ma tocca a Magrelli ribadire che il pubblico della poesia non è necessariamente confinato a una ridotta di irriducibili e può prendere corpo ovunque, sia pure in forme e modalità inattese.
Torniamo al “tempo del bisogno”, che è anzitutto il tempo dello spirito, nel quale riecheggia la voce del sacro. Elemento comune di molti interventi di La parola e la cosa, come sottolinea anche Motta, il tema si delinea con maggiore evidenza negli interventi di Guido Oldani (la poetica del “realismo terminale”, per cui risulta rovesciato il rapporto tra natura e manufatto, ha molti punti di contatto con la prosa dei Vangeli) e di Mussapi, che fa discendere la perdita della dimensione spirituale dalla scarsa propensione a misurarsi con la realtà: «La rottura del sacro è la rottura del mistero, della condivisione », sostiene coniando una formula che sarebbe utilissimo rilanciare in questi giorni. Nel frattempo, mentre scrutiamo i segni del malessere da cui ci sentiamo minacciati, non resta che accogliere l’invito di Patrizia Valduga: se volete leggere un poeta, leggete Clemente Rebora, «uno che ha amato non saggiamente ma troppo bene », senza mai stancarsi di invocare «una salvezza di tutto, una vera e propria redenzione del mondo » . Di che altro possiamo avere bisogno, in questo tempo?





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