“Rallegratevi sempre nel Signore: ve lo ripeto,
rallegratevi, il Signore è vicino” (Fil 4,4-5)
La voce di colui che invitava tutti a preparare la via del
Signore, quella stessa voce possente e ferma che nel deserto esortava alla vera
conversione del cuore si trasforma in esile interrogativo, sa farsi domanda a
colui che sta rivelando il volto misericordioso del Padre.
Dal Vangelo
secondo Matteo - Mt 11, 2-11
In quel tempo, Giovanni, che
era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei
suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo
aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che
udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi
sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il
Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».
Mentre quelli se ne andavano,
Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere
nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a
vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di
lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un
profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta
scritto: "Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli
preparerà la tua via". In verità io vi dico: fra i
nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più
piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui».
Commento
di Luciano Manicardi
Se la seconda domenica di Avvento presentava Giovanni nel
deserto, la terza lo presenta in prigione. Giovanni è stato arrestato (Mt 4,12)
e gettato in quella fortezza erodiana di Macheronte, a oriente del mar Morto,
dove troverà anche la morte (Mt 14,3-12). Il testo di domenica scorsa non
metteva ancora in scena Gesù, il Messia, e le parole di Giovanni che lo
annunciavano erano sicure, forti, autorevoli, gridate, mentre ora che Gesù è in
scena, che predica e opera, e dopo che Giovanni stesso l’ha battezzato riconoscendo
di aver lui bisogno di essere battezzato da Gesù (Mt 3,13-17), ora la parola di
Giovanni, in prigione, si fa debole, incerta, insicura. La voce che gridava nel
deserto diviene la voce che domanda dalla prigione. Vi è uno scarto tra il
Giovanni che ha gridato con pienezza di convinzione e con una forza che
incuteva timore la venuta del “più forte” di lui (Mt 3,11) ma che non era
ancora presente, e il Giovanni che, stando in prigione, si trova a fare i conti
con l’evidenza di una persona precisa e soprattutto, con l’evidenza di ciò che
questi compie e dice, con l’evidenza delle sue opere: la realtà non collima con
l’immagine annunciata da Giovanni. Sembra anzi contraddirla. Nella fede e
nell’attesa vi è sempre una parte di proiezione, di immagini che noi ci
costruiamo, ma che vengono smentite e invitate a correzione dalla presa d’atto
della realtà. Anche la fede e l’attesa vanno purificate da immagini e
desiderata che si proiettano sugli altri. E che rischiano di rendere gli altri
dei replicanti di noi stessi. Quando dunque si potrebbe pensare che finalmente
l’attesa di Giovanni è colmata, che colui che da lui è stato battezzato e ora
predica e opera prodigi è veramente il Messia, sembra che la certezza di
Giovanni scemi, si tinga di toni meno forti e sicuri di sé. Ecco allora la
domanda in bocca al Battista: “Sei tu il Veniente o dobbiamo aspettare un
altro?” (Mt 11,3).
Il rapporto tra Giovanni e Gesù si svolge in una dialettica
di reciprocità in continua tensione. Giovanni ha immerso nel Giordano Gesù in
obbedienza a Gesù stesso e al volere di Dio, ma ha riconosciuto che lui stesso
avrebbe avuto bisogno di essere battezzato da Gesù (Mt 3,13-17). In prigione,
Giovanni conosce il dubbio circa l’identità dell’uomo che lui aveva indicato
con certezza come il Messia, eppure rivolge a Gesù stesso la domanda: “Sei tu
colui che deve venire o dobbiamo attendere un altro?” (Mt 11,3). Dunque si
affida a Gesù anche nel dubbio su Gesù. Se vi è distanza, tra i due vi è anche
grande somiglianza. Tanto che Erode, dopo che aveva fatto mettere a morte
Giovanni, avendo sentito parlare di Gesù, disse: “Costui è Giovanni il
Battista. È risorto dai morti e per questo ha il potere di fare prodigi” (Mt
14,2). Anche il nostro testo liturgico ci rinvia a questa reciprocità profonda
e discreta: nei vv. 2-6 l’attenzione è sull’identità di Gesù a partire dalla
domanda che Giovanni rivolge a Gesù affidandola ai suoi discepoli; nei vv. 7-11
su quella di Giovanni a partire dalle domande che Gesù pone alle folle.
Giovanni ha sentito parlare delle “opere del Messia”. Nei
capitoli 8 e 9 Matteo ha raggruppato una quantità di guarigioni e gesti potenti
attuati da Gesù sicché non stupisce, narrativamente, che la fama di questi
gesti sia giunta fino a Giovanni che pure si trova in prigione. La risposta che
Gesù affida ai discepoli di Giovanni elenca: ciechi che recuperano la vista (Is
35,5; 42,7; Mt 9,27-31), zoppi che camminano (Is 35,6; Mt 15,31), lebbrosi che
sono purificati (Mt 8,1-4), sordi che riacquistano l’udito (Is 29,18; 35,5; Mt
15,30), muti che parlano (Mt 9,32-33; 15,31), morti che risuscitano (Is 26,19;
Mt 9,23-26), poveri a cui è annunciato il vangelo (Is 29,19; 61,1; Mt 5,3). Le
opere terapeutiche elencate da Gesù culminano nel miracolo della resurrezione,
ma trovano paradossalmente il loro vertice nell’annuncio del vangelo ai poveri.
Il percorso che Gesù stabilisce è dai gesti alla parola, come se i gesti non
fossero che una propedeutica che conduce all’autorevolezza della parola stessa,
o meglio, non fossero che esplicitazione dell’autorevolezza e potenza della
parola, una visibilizzazione della parola. Come se i gesti di guarigione e di
liberazione compiuti da Gesù non fossero che vangelo in atti, espressione del
“vangelo che è potenza di Dio” (Rm 1,16). Il senso è chiaro: il fine è giungere
a credere al vangelo, alla parola di Gesù stesso. Credendo alla parola del
vangelo, cioè alla parola di Gesù, anche alla parola che Gesù ha appena
comunicato a Giovanni, lo stesso Giovanni potrà aderire a Gesù così come si
presenta e non trovare scandalo in lui. La beatitudine è appunto per chi non
trova motivo di scandalo in Gesù. Gesù, inaugurando la sua predicazione sulla
scia del Battista, non chiede di credere ai gesti che avrebbe fatto, ma di
credere al vangelo (Mt 4,17; cf. Mt 3,2), e più volte nel vangelo chiede di
seguire lui, di lasciare tutto per lui, di aderire alla sua persona. Il vertice
della risposta di Gesù a Giovanni è la beatitudine di chi vive la fede come
affidamento alla persona di Gesù, come atto di fiducia in lui, nella sua persona.
In quell’uomo che egli è. Effettivamente, ci sarebbe motivo di scandalo.
Impressiona poi che tra le opere di liberazione messianica
elencate nel testo di Is 61,1 da cui è tratta l’indicazione
dell’evangelizzazione dei poveri, vi sia anche la liberazione dei prigionieri.
Vi è una dimensione realmente drammatica in Giovanni: il Veniente le cui opere
annunciano come liberatore è colui che non lo libera dalla prigione: Giovanni
resta in carcere e vi troverà la morte. Anche in questo Giovanni sembra precorrere
il Gesù che nel Getsemani si affida al Dio che non ne esaudisce la preghiera di
essere liberato da quell’ora (Mc 14,35), che passi da lui quel calice (Mt
26,39). Sergej Bulgakov ha interpretato questo episodio della vita del Battista
come se qui Giovanni vivesse il suo personale Getsemani. Per Giovanni, il
Veniente ha cessato di essere una verità evidente e diviene un interrogativo.
Il dubbio lo attraversa, ma il dubbio, che sempre accompagna una fede che non
sia totalitaria e fanatica, può affinare la fede e ridurre la distanza tra
l’immagine del Signore che il credente nutre e il Signore stesso nel suo
rivelarsi. Anche la fede, la nostra personale fede, ha una storia. E anche la
nostra fede non è solo luce, ma luce e buio, luce nel buio, e conosce zone
grigie. Del resto, già al battesimo Giovanni era stato spiazzato da Gesù e
aveva “lasciato fare” (cf. Mt 3,15) operando un decentramento da sé in favore
di colui che veniva dietro di lui.
Al tempo stesso la domanda su Gesù che Giovanni affida ai
discepoli può avere anche un’altra sfumatura di significato: indicare cioè un
passaggio di consegne. I suoi discepoli sono inviati a Gesù come colui alla cui
parola essi si dovranno attenere. Obbligato – se così si può dire – a
manifestarsi con più evidenza da quella domanda, Gesù risponde con parole della
Scrittura ma aggiungendovi l’annotazione sullo scandalo che è possibile trovare
in Gesù. Gesù stesso riconosce che la fede in lui come Messia non è affatto
evidente, nonostante le opere e i gesti di potenza.
Nella seconda parte del testo evangelico, dopo la domanda di
Giovanni su Gesù ecco le affermazioni di Gesù su Giovanni. Il modo stesso in
cui Gesù parla di Giovanni esprime autorevolezza e mostra una vis polemica. Per
tre volte Gesù ripete la domanda martellando i suoi interlocutori: “Che cosa
siete andati a vedere nel deserto?” (vv. 7.8.9). E in questa domanda risuona un
rimprovero. Come se dicesse: avete considerato Giovanni un personaggio da
vedere, uno spettacolo da guardare (un po’ come Erode che con curiosità mondana
desiderava vedere Gesù e sperava di vedere qualche miracolo compiuto da lui:
cf. Lc 23,8), ma se Giovanni era un profeta, egli doveva essere ascoltato ben
più che visto. Ascoltato e obbedito. Ma anche Giovanni, come normalmente i
profeti, non è stato capito. E dopo aver detto ciò che Giovanni non è: non è un
irresoluto, una banderuola che si piega nella direzione del soffiare del vento,
non è un uomo che svende la coscienza, ma è una roccia che resta saldamente se
stesso; dopo aver detto che non è un uomo che vive nel lusso e negli agi, anzi
vive in modo sobrio e ascetico; Gesù afferma ciò che Giovanni è. Egli è un
profeta anzi, più di un profeta: è stato non un annunciatore, ma il precursore
del Messia. Giovanni ha visto, riconosciuto e indicato in Gesù il Messia. Anche
se, aggiunge Gesù, il più piccolo nel Regno è più grande di lui. E il più
piccolo, il discepolo, colui che è venuto dietro a Giovanni, altri non è che
Gesù stesso. E Gesù, il più piccolo (per Luca, Gesù è anche più giovane di Giovanni),
è più grande di Giovanni, di colui che l’ha preceduto e annunciato. Anche in
questo riconoscimento reciproco nella verità vediamo la libertà dell’uno e
dell’altro: Giovanni aveva già riconosciuto che colui che lo seguiva era più
forte di lui, e questo non era per lui motivo di gelosia o di frustrazione; ora
Gesù riconosce il ruolo di preparazione attuato da Giovanni, ma senza alcun
senso di superiorità. La libertà che nasce dall’obbedienza diventa
riconoscimento e rispetto reciproco.
Nessun commento:
Posta un commento