Ritornare a essere popolari:
ecco le sette parole del 2019
ecco le sette parole del 2019
Il direttore della 'Civiltà Cattolica' legge i tempi di cambiamento e conflitto indicando come si può reagire. La rivista dei
gesuiti invita prima di tutto a riconnettersi con la società civile,
con i «ceti popolari», ricostruire cioè la relazione naturale con il
popolo
In questo tempo di
cambiamenti e conflitti che ci sfidano, non possiamo correre il
rischio di seguire ciò che leggiamo nel 'Gattopardo': «Viviamo in una
realtà mobile alla quale cerchiamo di adattarci come le alghe si
piegano sotto la spinta del mare». Bisogna reagire. Una reazione alla
quale possiamo dar forma considerando sette parole.
Paura.
Instillare la paura del caos è divenuta una strategia per il successo
politico: si innalzano i toni della conflittualità, si esagera il
disordine, si agitano gli animi della gente con la proiezione di scenari
inquietanti. Questa retorica evoca forze potenti, ma forse non ancora
emerse dal profondo della società e dell’opinione pubblica. La
riflessione politica sarà irrilevante se non entra in contatto con le
paure dei nostri contemporanei che sono attratti dalla cultura
fondamentalista. Ai leader religiosi coreani Francesco ha chiesto di
usare «parole che si differenziano dalla narrativa della paura» e
compiere «gesti che si oppongono alla retorica dell’odio ». E di
recente ha pure affermato: «Servono leader con una nuova mentalità. Non
sono leader di pace quei politici che non sanno dialogare e
confrontarsi: […] occorre umiltà, non arroganza».
Ordine.
I rapporti tra Europa, Stati Uniti, Russia e Cina sono in ebollizione…
alla ricerca di un nuovo ordine mondiale che attualmente pare solo un
gran disordine. Più che mai il disordine reclama anche una solida
collocazione internazionale dell’Italia e un’attiva politica estera
specialmente nel Mediterraneo, punto di incontro di Europa, Africa e
Asia. Forse occorre evocare un «nuovo ordine mediterraneo».
Migrazioni.
I flussi migratori siano una delle priorità dell’Unione Europea dei
prossimi anni, perché le migrazioni oggi rischiano di essere il
grimaldello per far saltare l’Europa. Non sfuggono a nessuno le
conseguenze del rimescolamento delle identità tradizionali e lo
spaesamento che esso provoca. Bisogna affrontarlo con discernimento.
Occorre non tradire mai i valori di fondo dell’umanità, ma metterli in
pratica tenendo conto della situazione in cui si opera. Concretamente:
è necessario lavorare all’integrazione.
Popolo.
Per i populismi che sperimentiamo oggi, la forza di una democrazia
dipende dall’esistenza di un popolo relativamente omogeneo con
un’identità precisa e riconoscibile fondata sulla coesione etnica. Ma
attenzione, perché quando la comunità etnica si pone al di sopra della
persona, secondo Jacques Maritain, non vi è più alcun baluardo al
totalitarismo politico. Le tradizioni antiliberali co-
stituiscono ponti ideologici per le attuali alleanze tra cristianesimo e
forme aggressive di populismo. Il rischio oggi per la Chiesa è
altissimo: l’appartenere senza credere. E questo trasformerebbe la
religione in ideologia: sarebbe la morte della fede. Ma non possiamo
ridurre la questione del popolo a «populismo». La questione del popolo
è una cosa molto seria. Scriveva il cardinale Bergoglio nell’anno 2010:
«Non serve un progetto di pochi e per pochi, di una minoranza
illuminata o di testimoni, che si appropria di un senso collettivo. Si
tratta di un accordo sul vivere insieme. È la volontà espressa di voler
essere popolo-nazione nel contemporaneo ». Queste parole scritte
dall’allora primate d’Argentina dopo le elezioni del 4 marzo 2010
suonano come l’ammonimento più urgente anche
per l’oggi. Non basta più formare i giardini delle élite e discutere al
caldo dei «caminetti» degli illuminati. Non bastano più le accolte di
anime belle... Facciamo discorsi ragionevoli e illuminati, ma la gente
è altrove. E il grande rischio è quello di immaginare il 'popolo' in
forma di «massa anonima». La verità è che molte persone si avvicinano ai
partiti populisti o alle sette fondamentaliste perché si sentono
lasciate indietro. Ecco perché la questione centrale oggi è quella della democrazia.
Democrazia.
Emerge anche in Europa l’ossimoro di democrazie che possono morire
per mani di leader eletti democraticamente. Sembra ormai insostenibile
il divario tra il carattere globale dell’economia, della comunicazione
e, ancor più, della finanza e la dimensione solamente locale della
democrazia, che rischia di divenire quasi solo una gestione
amministrativa. Si è incrinata la fiducia nei sistemi
democratico-liberali. Si ha perfino simpatia per una certa
improvvisazione democratica che dà almeno il senso di appartenenza. La
democrazia rappresentativa parlamentare è destinata dunque a
estinguersi? Assolutamente no, ma la domanda di una «democrazia
immediata », della quale si immagina che la rete possa essere luogo di
azione e strumento, sembra averla messa in difficoltà. Qui c’è un
problema, però anche una sfida da accogliere. Non possiamo far finta
che la rete non esista e dobbiamo prendere atto che il consenso si
forma anche nell’ambiente digitale. Il
disagio si esprime soprattutto lì. Come fare a vivere la rete come
forma di partecipazione democratica senza cadere in scorciatoie
demagogiche?
Partecipazione.
Scriveva il Papa, sempre in quel testo del 2010, che occorre
«recuperare l’effettività dell’essere cittadini ». Occorre trasformarsi
«da abitante a cittadino». Questo è, in fondo, anche il vero problema
dell’Europa: ha abitanti europei che ancora non si sentono cittadini
europei. Il «divario tra i popoli e le nostre attuali forme di
democrazia» è stato uno dei temi forti del discorso di papa Francesco
al terzo Incontro mondiale dei movimenti popolari del 2016. Il Papa li
definiva «una forma diversa, dinamica e vitale di partecipazione
sociale alla vita pubblica », che non è la forma del «partito politico
» e che è capace di esprimere «attaccamento al territorio, alla realtà
quotidiana, al quartiere, al locale, all’organizzazione del lavoro
comunitario».
Senza
partecipazione la democrazia si atrofizza, diventa una formalità,
perché lascia fuori il popolo nella costruzione del suo destino.
Lavoro. Pensiamo ai nostri giovani. I neet (not in education, employment or training)
sono circa il 20% dei giovani italiani. 2/3 degli studenti di oggi
faranno, da adulti, lavori che al momento neanche esistono. Oggi siamo
colpiti da un nuovo malessere: la disoccupazione tecnologica, causata
dal fatto che scopriamo nuovi modi per risparmiare lavoro a una
velocità superiore di quella alla quale scopriamo nuovi modi per
impiegare lavoro. Sembra esserci una differenza antropologica ormai tra
l’uomo di Davos e il forgotten man,
tra una élite di creativi innovatori e una massa di esecutori non
qualificati.
Servono quelle «tre T» delle quali parla Francesco, non
come slogan: Tierra Techo Trabajo.
Terra, casa e lavoro sono le cose fondamentali che danno dignità a una
vita umana, rendono possibile la famiglia e permettono lo sviluppo umano integrale. Per reagire, dunque, occorre prima di tutto riconnettersi con la
società civile, con i «ceti popolari», ricostruire la relazione
naturale con il popolo. Questa la parola: riconnettersi. Insomma, bisogna tornare a essere «popolari».
*Direttore di 'La Civiltà Cattolica'
Fonte: Avvenire
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