sabato 6 ottobre 2018

LASCIATE CHE I PICCOLI VENGANO A ME

Dal Vangelo secondo Marco
Mc 10, 2-16

2Alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, gli domandavano se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. 3Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosé?». 4Dissero: «Mosé ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». 5Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. 6Ma dall’inizio della creazione li fece maschio e femmina; 7per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie 8e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. 9Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto». 10A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. 11E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; 12e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio».
13Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. 14Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. 15In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». 16E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.
La parte più lunga del vangelo di questa domenica ci testimonia un confronto di Gesù con alcuni farisei, i quali lo mettono alla prova, lo tentano, cercando di sorprenderlo in errore riguardo alla tradizione dei padri, sul tema della possibilità del divorzio. Questo annuncio evangelico è esigente, chiaro: da una parte ci scandalizza, soprattutto se conosciamo la faticosa realtà della vicenda nuziale; dall’altra, lo stesso brano può essere utilizzato come un bastone, per giudicare e condannare chi è in contraddizione con le parole chiare e piene di parrhesía pronunciate da Gesù.
Per questo, ogni volta che devo predicare su questo testo mi metto in ginocchio non solo davanti al Signore, ma anche davanti ai cristiani e alle cristiane che vivono il matrimonio, per dire loro che, certo, rileggo le parole di Gesù e le proclamo, ma senza giudicare, senza minacciare, senza l’arroganza di chi si sente immune da colpe al riguardo, memore di ciò che Gesù afferma altrove: “Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore” (Mt 5,28). Chi legge queste parole di Gesù non sta dall’altra parte, in uno spazio esente dal peccato, ma innanzitutto si deve sentire solidale con quanti, nel duro mestiere del vivere e nell’ancor più duro mestiere del vivere nella coppia la vicenda matrimoniale, sono caduti nella contraddizione alla volontà del Signore. Non posso dunque fare altro che offrire qui alcuni semplici spunti di meditazione, eco della parola di Dio contenuta nelle sante Scritture.
Nel millennio dell’Antico Testamento la pratica del divorzio era comune in tutto il medio oriente e il mondo mediterraneo. Il divorzio era una realtà normata dal diritto privato, che lo prevedeva solo su iniziativa del marito. Il matrimonio era un contratto, neppure scritto, e dobbiamo riconoscere che nell’Antico Testamento non vi è nessuna legge sul matrimonio. Il brano del Deuteronomio a cui certamente si riferiscono i farisei (Dt 24,1-4) in verità appartiene alla casistica e non alla dottrina, perché mette a fuoco un caso particolare, e di conseguenza deve essere recepito con dei limiti ben precisi. Si legge in quel testo:
Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che ella non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualcosa di vergognoso (‘erwat davar, lett.: “nudità di qualcosa”), scriva per lei un certificato di ripudio, glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa (Dt 24,1).
Viene dunque contemplato il caso in cui l’uomo trovi nella moglie “qualcosa di vergognoso”, espressione assai vaga che i rabbini interpretano in modi molto diversi; in tal caso, il marito ha la possibilità di divorziare. A certe condizioni, pertanto, il divorzio è permesso e ne è prevista la procedura, ma da questo non si può concludere che nella Torah, nella Legge di Mosè vi sia una dottrina sul matrimonio e una sua precisa concordi disciplina. D’altra parte, i profeti, i sapienti e gli stessi testi essenici non offrono posizioni certe e chiare che escludano il divorzio e proclamino che la Legge di Dio lo vieta. Solo Malachia testimonia una parola del Signore semplice ma radicale: “Io odio il ripudio” (Ml 2,16).
Ma ecco che Gesù è chiamato dai farisei a esprimersi proprio su questa possibilità: “È lecito a un marito ripudiare la propria moglie?”. Egli risponde con una domanda: “Che cosa vi ha ordinato Mosè?”. Ed essi a lui: “Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla”. È come se gli dicessero: “Questa è la Torah!”. Gesù allora interviene in modo sorprendente: non entra nella casistica religiosa a proposito della Legge; non si mette a precisare le condizioni necessarie al ripudio, come facevano i due grandi rabbi del suo tempo, Hillel e Shammai; non si schiera dalla parte dei rigoristi né da quella dei lassisti. Nulla di tutto questo: Gesù vuole risalire alla volontà del Legislatore, di Dio. In tal modo egli ci fornisce un principio decisivo di discernimento nel leggere e interpretare la Scrittura: fare riferimento all’intenzione di Dio (e non a tradizioni umane: cf. Mc 7,8.13!), che attraverso le sua parola messa per iscritto vuole rivelarci la sua volontà.
Questa dunque la replica di Gesù ai suoi interlocutori: “Per la durezza del vostro cuore (sklerokardía) Mosè scrisse per voi questa norma. Ma nell’in-principio (be-reshit, en archê: Gen 1,1) della creazione Dio ‘li fece maschio e femmina’ (Gen 1,27); ‘per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due saranno una carne sola’ (Gen 2,24). Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto”. Gesù risale al disegno del Creatore, alla creazione dell’adam, il terrestre tratto dall’adamah, la terra (cf. Gen 2,7; 3,19), fatto maschio e femmina perché insieme i due vivano nella storia, la storia dell’amore, la storia della vita, l’uno di fronte all’altra, volto contro volto, in una reciproca responsabilità, chiamati nel loro incontro a diventare una sola realtà, una sola carne. In questo incontro di amore c’è la chiamata a essere amanti come Dio ama, essendo lui amore (cf. 1Gv 4,8.16), di un amore durevole, fedele, per sempre; in questo incontro c’è l’arte e la grazia del dono gratuito l’uno all’altra, a cominciare dal proprio corpo; c’è l’alleanza che fa sì che l’incontro sia storia nel tempo e tenda dunque al “per sempre”, fino alla morte, per andare anche oltre la morte.
Questa la volontà di Dio nel creare il terrestre e nel porlo nel mondo quale sua unica immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26-27). È un mistero grande, ma tanto grande che è difficile per gli umani fragili, deboli e peccatori viverlo in pienezza. In verità, sappiamo quanta miseria si sperimenti in questo faticoso incontro, come sia facile la contraddizione, come questo capolavoro dell’arte del vivere insieme nell’amore sia perseguibile, ma mai pienamente e solo con l’aiuto della grazia, con l’efficacia del Soffio santo del Signore. Eppure l’annuncio di Gesù permane, in tutta la sua chiarezza: “L’uomo non divida quello che Dio ha congiunto”. Subito dopo, questa parola dura ed esigente viene spiegata da Gesù ai suoi discepoli, nella casa in cui la comunità si ritrovava. E viene spiegata con un’aggiunta straordinaria per la cultura del tempo, visto che Gesù mette sullo stesso piano la responsabilità dell’uomo e quella della donna: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio”.
Certo, Mosè ha cercato di umanizzare la pratica del divorzio, imponendo al marito di percorrere una via giuridica di rispetto per la donna. Ma Gesù, proprio guardando alla durezza di cuore dei destinatari della Torah, osa andare ben oltre, mettendo in evidenza la volontà, l’intenzione del Creatore. Del resto, lo aveva già fatto altre volte, svelando, per esempio, la volontà di Dio sul sabato e sulla sua osservanza (cf. Mc 2,23-28): sempre Gesù si fa interprete autentico della Legge non attraverso vie legalistiche, non attraverso interpretazioni fondamentaliste, ma annunciando profeticamente la volontà di Dio a tutti, in particolare ai peccatori pubblici e agli esclusi, da lui sempre accolti, perdonati, mai condannati.
Dall’annuncio dell’indissolubilità del matrimonio Marco, cambiando scena, passa poi al tema dell’accoglienza dei piccoli. Vengono portati e presentati a Gesù dei “bambini” (paidía), affinché li tocchi, e dunque attraverso il contatto fisico comunichi loro forze benefiche di guarigione di benedizione. Nella cultura giudaica del tempo i bambini non contavano nulla, erano di fatto trattati da esclusi, come le donne e gli schiavi. Il rapporto con un rabbi è una relazione importante che riguarda gli adulti, quelli che sono in grado di conoscere e osservare la Torah. Per questo i discepoli intervengono a sgridare i bambini, ma Gesù va in collera, si indigna e li rimprovera perché i bambini, come gli altri “esclusi” e “marginali”, hanno un loro posto nel regno di Dio.
Proprio i bambini e quelli che sono simili a loro per la piccolezza e l’essere scartati e ai margini, sono i primi beneficiari e destinatari del Regno. Non vi è qui nessun ipotetico riferimento a un’innocenza dei bambini, ma viene messa in evidenza la loro condizione di povertà, di esclusione, di piccolezza, che attira l’attenzione di Gesù. Semmai egli sa individuare in questi bambini una esemplarità nella loro accoglienza del dono del Regno: stupore, meraviglia, nessun merito vantato, ma la semplicità di chi accoglie il dono dei doni. E così Gesù ammonisce quanti nella sua comunità vorrebbero impedire agli esclusi, ai poveri, agli ultimi l’accesso a lui. Proprio a questi ultimi va invece la sua tenerezza, la sua benedizione, il suo abbraccio, affinché non si sentano più abbandonati o messi ai margini.
p. Enzo Bianchi – 

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