«Caro papa Francesco, sono
Letizia, ho 23 anni e studio all’università. Vorrei dirle una parola a
proposito dei nostri sogni e di come vediamo il futuro». L’aspetto
principale che ha caratterizzato il cammino preparatorio del Sinodo dei
Vescovi su «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale», in
Vaticano dal 3 al 28 ottobre, è stata la ricerca di ascolto e di dialogo
con gli stessi giovani. Anche il grande incontro fra papa Francesco e
le migliaia di giovani italiani, giunti a Roma «da mille strade» nei
giorni più caldi di agosto, ha subito preso la forma di un reciproco
guardarsi e parlarsi senza barriere e timori reverenziali.
Dopo Letizia, che ha scelto la facoltà universitaria seguendo le sue
passioni e non gli inviti a considerare prioritarie le esigenze del
mercato, nel corso del grande incontro al Circo Massimo dell’11 agosto è
intervenuto Lucamatteo, anche lui con progetti più grandi di chi
dovrebbe aiutarlo a realizzarli. Martina, 24 anni, ha confidato il suo
sogno di costruire una famiglia senza aspettare un’indefinita
realizzazione sul lavoro. Nelle parole di Dario, 27enne infermiere in un
reparto di cure palliative, sono poi emerse le «grandi domande» su Dio,
la morte, l’ingiustizia della sofferenza e della povertà. Accanto a
ogni interrogativo, e nient’affatto in secondo piano, l’amara esperienza
della delusione, accompagnata dalla richiesta esplicita di punti di
riferimento «appassionati e solidali» e della testimonianza autentica di
una Chiesa «che ci accompagni e ci ascolti».
Il pensiero dei giovani su questo punto è chiarissimo: più che
strategie, strumenti o metodi pastorali, chiedono persone. Adulti
credibili disposti a spendere tempo con loro, offrendo ascolto e segni
di fiducia. È una domanda rivolta alla famiglia, alla scuola,
all’università, alla Chiesa. Rispetto ai loro coetanei di cinquant’anni
fa, l’atteggiamento verso gli adulti sembra essersi rovesciato. Nel
2018, la 'rivoluzione' vogliono farla con i loro genitori, insegnanti,
preti e datori di lavoro, non contro di loro.
Lo notava di recente anche Umberto Galimberti, nel libro in cui
aggiorna l’analisi di dieci anni fa sul nichilismo, l’ospite inquietante
nella vita dei giovani. L’atmosfera che respirano resta pesante, spiega
il filosofo, ma crolla il numero dei rassegnati. Non ci stanno a
sentirsi dire continuamente che il loro futuro sarà più grigio di quello
dei loro padri. Ciò che chiedono, continua, «sono insegnanti motivati e
carismatici, perché si impara per fascinazione». E agli adulti dicono:
«Non vi odiamo, anzi vi siamo riconoscenti se ci potete aiutare a
realizzare quel che vogliamo diventare, perché un sogno ce l’abbiamo
anche noi e non vogliamo vederlo spegnersi come si spengono le stelle
cadenti».
U na volta riallacciato il dialogo, i temi sono quelli sollevati dai giovani del Circo Massimo: studio e lavoro, amore e famiglia, Dio.
Dietro a tali questioni, non è difficile leggere un desiderio spesso
inascoltato di identità, di relazioni, di partecipazione. «Santo Padre,
con quali occhi possiamo rileggere tutto questo?», chiedevano l’11
agosto a chi appare loro come un interlocutore autorevole e affidabile,
per ricevere da lui in cambio l’invito a rischiare un’umanità più
fraterna e a «correre nella Chiesa», attratti dal volto di Cristo
presente nell’Eucaristia e nella carne dei fratelli che soffrono.
È il metodo educativo di papa Francesco che, quando era vescovo, ha
ideato una rete di scuole attorno alla triplice educazione della mente,
del cuore e delle mani. L’intelletto, gli affetti, l’agire. Nel contesto
della formazione ecclesiale dei giovani potremmo tradurlo in una sorta
di alternanza tra parola, preghiera e servizio.
Descritti dalle ricerche sociali in stand by rispetto alla fede
religiosa, propensi cioè a rinviare l’argomento, come se non fosse cosa
per la loro età, sono molti però i ragazzi che sfuggono alle etichette
che si trovano appiccicate addosso, rovesciandole con la loro sete di
incontri non superficiali e di orizzonti di vita più coraggiosi di
quelli che offrono gli store
reali e virtuali. I nostri giovani non sono affatto indisponibili a un
cristianesimo di grazia e di libertà, di rischio e perfino di
sacrificio. Ma è difficile che questo fuoco divampi se non c’è
qualcuno, magari una comunità, che glielo faccia conoscere al di là
delle semplificazioni, e soprattutto sperimentare. A ben vedere, chi ha
più paura oggi non sono i giovani. Anche davanti al Vangelo.
Sì, è vero, sembra che la parola vocazione continui a incutere grande
timore. Colpa però di una cultura e una società che tramano contro le
decisioni definitive e incoraggiano relazioni a bassa intensità, dove
essere liberi significa poter revocare ogni propria scelta. La folla
delle solitudini che popola le nostre città non è colpa di Internet
quanto di chi riduce l’amore all’alternativa estrema tra annullarsi
completamente per l’altro oppure bramare di controllarlo e possederlo.
La concretezza delle domande giovanili ricorda che tutto ciò che
apprendiamo lo facciamo nostro grazie alla molla del desiderio e sul
terreno dell’esperienza, tentando anche vie inesplorate. In questo
senso, l’educazione dei giovani si declina oggi secondo verbi quali
allargare, desiderare, orientare, provare,
meglio se insieme. Ciò non elimina certo la fatica dello studio e il
valore della conoscenza, troppo spesso trattata come sinonimo di
informazione. L’esperienza infatti da sola non basta; quello che semmai è
da abbandonare è la standardizzazione di percorsi formativi che non
valorizzano i talenti di ciascuno.
Questo vale anche per la dimensione religiosa, di cui un giovane si
appropria solo se la vaglia nelle situazioni e nelle relazioni
quotidiane. La vita scolastica e universitaria, oltre che le esperienze
lavorative, sono perciò momenti di fondamentale importanza per coloro a
cui il Sinodo intende rivolgersi. È qui, infatti, che si sviluppano il
senso critico e il desiderio, si è chiamati a rispondere degli impegni
presi, si impara a riconoscere i propri limiti e a fare tesoro dei
fallimenti. E ancora, si stringono amicizie durature, si impara ad
accettare se stessi e gli altri, si percepisce la chiamata a costruire
una società migliore per tutti. Non di rado, infine, è qui che vengono
messi in discussione – e ritrovati in modo nuovo – il valore della
spiritualità, le ragioni della fede, il senso della Chiesa. N
el maggio scorso, durante il convegno pastorale della diocesi di Roma,
a una domanda sulle attenzioni da riservare alla nuova generazione,
papa Francesco non ha nascosto il suo punto di vista: «Uno dei problemi a
mio giudizio più difficili, oggi, dei giovani – ha detto – è questo:
che sono sradicati. Devono ritrovare le radici, senza andare indietro:
devono ritrovarle per andare avanti». Viene da qui l’insistenza con cui
il Pontefice invita a far incontrare i giovani e gli anziani, e a non
'scartare' i nonni, tanto da fare del versetto di Gioele 3,1 uno
dei testi biblici da lui più citati: «I vostri anziani sogneranno e
i vostri figli profetizzeranno».
«Quando non ci sono radici, qualsiasi vento finisce per
trascinarti», aveva ricordato Francesco nello stesso appuntamento
dell’anno prima. Per questo è necessario che i giovani conoscano la
terra e la fede che li hanno generati e possano a loro volta costruire
un tessuto vitale fatto di legami, di appartenenza reciproca, di
progetti comuni. «Affinché i nostri giovani abbiano visioni, siano
'sognatori', possano affrontare con audacia e coraggio i tempi futuri, è
necessario che ascoltino i sogni profetici dei loro padri», ripete
ancora il Papa lanciando la sfida a noi adulti: aiutiamo i nostri
ragazzi a ritrovare le radici. Loro ci metteranno le ali.
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