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martedì 31 luglio 2018

2018-19 - PRIMO GIORNO DI SCUOLA NELLE VARIE REGIONI ITALIANE

I primi a rientrare in classe sono gli studenti di Bolzano il 5 settembre,
 gli ultimi quelli della Puglia il 20 settembre.

Valle d’Aosta: 12 settembre
Trento: 12 settembre
Bolzano: 5 settembre
Veneto: 12 settembre
Friuli Venezia Giulia: 10 settembre
Piemonte: 10 settembre
Lombardia: 12 settembre
Lazio: 17 settembre
Liguria: 17 settembre
Emilia Romagna: 17 settembre
Umbria: 12 settembre
Abruzzo: 10 settembre
Marche: 17 settembre
Campania: 12 settembre
Molise: 13 settembre
Basilicata: 10 settembre
Calabria: 17 settembre
Puglia: 20 settembre
Sicilia: 12 settembre
Sardegna: 18 settembre.



FINLANDIA, UN MODELLO DI SCUOLA ALTERNATIVA


Come funziona uno dei sistemi scolastici migliori del mondo? Partiamo col dire che al­l’e­tà di set­te an­ni i bam­bi­ni fin­lan­de­si ini­zia­no la scuo­la del­l’ob­bli­go, che du­ra no­ve an­ni. A cir­ca 16 an­ni pos­so­no quindi de­ci­de­re se proseguire negli studi op­pu­re no. Se de­ci­do­no di far­lo han­no due op­zio­ni: il li­ceo, che pre­pa­ra agli stu­di ac­ca­de­mi­ci, e la scuo­la pro­fes­sio­na­le, che of­fre del­le com­pe­ten­ze in un cer­to me­stie­re e dà la pos­si­bi­li­tà di con­ti­nua­re con la scuo­la uni­ver­si­ta­ria pro­fes­sio­na­le. In questo modo in Finlandia la media dei laureati è cresciuta fino al 45% al punto che la zecca dello stato finlandese ha emesso una serie divisionale di Euro dedicata ai “laureati” del 2016. La laurea è un punto di svolta nella vita di un giovane adulto. Il giovane laureato avrà così un ricordo della sua laurea, che preserverà. La confezione emessa per i neolaureati comprende anche una medaglia commemorativa che può essere utilizzata per incidere le informazioni personali come la data della cerimonia di laurea. Il folder “Le Congratulazioni a un neolaureato!” sarà un ricordo dell’anno giubilare del laureato da una generazione a quella successiva. Anche per la consegna del diploma di scuola superiore in Finlandia è prevista una giornata nazionale di festa. A dimostrazione di quanta attenzione e sostegno i finlandesi abbiano verso il loro sistema educativo. Mentre l’Italia con la media nazionale di laureati del 22,4% è la più bassa in Europa (dati Eurostat 2013), l’Europa punta al 40% di laureati entro il 2020. Forse ripensare ai riti e ai simboli potrebbe aiutare a far riacquisire consapevolezza e riconoscimento sociale anche al nostro sistema educativo.
Il si­ste­ma uni­ver­si­ta­rio fin­lan­de­se com­pren­de 16 uni­ver­si­tà e 24 scuo­le uni­ver­si­ta­rie pro­fes­sio­na­li: in tut­to 40 uni­ver­si­tà che ogni an­no of­fro­no ai neo­di­plo­ma­ti la pos­si­bi­li­tà di stu­dia­re gratuitamente. Que­sta è la strut­tu­ra ge­ne­ra­le del si­ste­ma edu­ca­ti­vo fin­lan­de­se. I ge­ni­to­ri pos­so­no sce­glie­re li­be­ra­men­te se far fre­quen­ta­re ai pro­pri fi­gli la “esi­kou­lu”, in cui i bam­bi­ni e le bam­bi­ne di sei an­ni tra­scor­ro­no un an­no pri­ma del­l’i­ni­zio del­la scuo­la ele­men­ta­re. Qui me­tà del­la gior­na­ta è im­pie­ga­ta in at­ti­vi­tà di ti­po sco­la­sti­co men­tre nel­l’al­tra me­tà si svol­go­no le at­ti­vi­tà ti­pi­che di un asi­lo. Fi­no ai sei an­ni la mag­gior par­te dei bam­bi­ni fin­lan­de­si fre­quen­ta la scuo­la ma­ter­na, gli al­tri re­sta­no a ca­sa con la fa­mi­glia.
A dif­fe­ren­za del­l’I­ta­lia e di mol­ti al­tri Pae­si, in Fin­lan­dia non esi­sto­no scuo­le pri­va­te. Tut­te le scuo­le del­l’ob­bli­go so­no pub­bli­che, il che ren­de il si­ste­ma mol­to uni­for­me. In Fin­lan­dia tut­ti i bam­bi­ni fre­quen­ta­no le stes­se scuo­le a pre­scin­de­re dal­lo sti­pen­dio o dal li­vel­lo di istru­zio­ne dei ge­ni­to­ri. Tut­ti i bam­bi­ni so­no nel­la stes­sa scuo­la: il fi­glio del Pri­mo Mi­ni­stro as­sie­me ai fi­gli e al­le fi­glie de­gli au­ti­sti d’au­to­bus, de­gli in­se­gnan­ti o di chiun­que al­tro. In Fin­lan­dia nes­su­no può sce­glie­re una scuo­la di­ver­sa per i pro­pri fi­gli, non esi­sto­no nem­me­no scuo­le spe­cia­li per bam­bi­ni con par­ti­co­la­re ta­len­to o con dif­fi­col­tà par­ti­co­la­ri.
La scuola Finlandese può essere chiamata la scuola della domanda. Si privilegia la capacità, infatti, di fare domande a quella di dare risposte pre-confezionate. L’ascolto e l’osservazione del docente prevale sul suo intervento diretto. Si impara facendo e fino a 13 anni non ci sono voti.
Que­sto ti­po di si­ste­ma è re­so pos­si­bi­le in pri­mis dal fat­to che tut­ti gli in­se­gnan­ti ri­ce­vo­no un’ot­ti­ma for­ma­zio­ne: tut­ti de­vo­no stu­dia­re al­l’u­ni­ver­si­tà, an­che chi la­vo­ra nel­le scuo­le ma­ter­ne. A par­ti­re dal­la pri­ma clas­se del­la scuo­la ele­men­ta­re la qua­li­fi­ca mi­ni­ma per in­se­gna­re è la lau­rea magistrale in teacher training. È quin­di fon­da­men­ta­le che chi la­vo­ra a con­tat­to coi mi­no­ri ab­bia un’ot­ti­ma e so­li­da edu­ca­zio­ne. La selezione per chi vuole intraprendere la carriera docente è elevata: mol­te per­so­ne vo­glio­no iscri­ver­si ai cor­si di lau­rea per di­ven­ta­re in­se­gnan­ti (circa 6000 matricole l’anno) ma sol­tan­to il 10% ot­tie­ne il po­sto.
Le  scuo­le so­no or­ga­niz­za­te in mo­do che i ra­gaz­zi con disabilità o con bi­so­gni spe­cia­li ven­ga­no in­clu­si in tut­te le at­ti­vi­tà. Hanno classi dedicate e super attrezzate, all’interno delle scuole comuni, con docenti ed educatori dedicati a sviluppare programmi personalizzati, ma al contempo lavorano con i compagni in alcune discipline e a turno i questi ultimi lavorano con loro. L’in­se­gna­men­to di so­ste­gno in Fin­lan­dia è uni­co al mon­do per­ché si ba­sa sul ri­co­no­sci­men­to del­le rea­li dif­fi­col­tà di ap­pren­di­men­to, sul­la lo­ro evo­lu­zio­ne e pre­ven­zio­ne piut­to­sto che sul­le cau­se me­di­che. È af­fian­ca­to da psi­co­lo­gi, me­di­ci, con­su­len­ti, as­si­sten­ti so­cia­li e al­tre fi­gu­re.
Il concetto di classe è superato da tempo e si lavora per gruppi e sottogruppi di apprendimento dove ogni studente può trovare ciò di cui ha più bisogno: un approfondimento, un recupero o lo sviluppo di un particolare talento. Questo sistema favorisce l’inclusione e lo sviluppo delle competenze sociali.
Se­con­do la nuo­va le­gi­sla­zio­ne, ad esem­pio, ogni stu­den­te e ogni stu­den­tes­sa ha il di­rit­to e il do­ve­re di sot­to­por­si ad una vi­si­ta me­di­ca ge­ne­ri­ca ogni an­no. Ci si pre­oc­cu­pa mol­to del be­nes­se­re dei ra­gaz­zi e del per­so­na­le: ogni scuo­la of­fre gra­tui­ta­men­te un pa­sto equi­li­bra­to al gior­no. Que­sto è fon­da­men­ta­le nel mo­men­to in cui la prio­ri­tà è as­si­cu­rar­si che ognu­no go­da di buo­na sa­lu­te e che sia fe­li­ce nel­la sua scuo­la. In Fin­lan­dia si ri­tie­ne che ciò stia al­la ba­se di un buo­no stu­dio e ap­pren­di­men­to.
 ll focus è centrato sullo studente e sulle relazioni: si dà più im­por­tan­za al­la re­spon­sa­bi­li­tà e al­la fi­du­cia che al­le ve­ri­fi­che o agli esa­mi.
Gli in­se­gnan­ti in Fin­lan­dia ten­do­no a non da­re va­lu­ta­zio­ni ne­ga­ti­ve agli al­lie­vi. San­no che que­sto ri­schia di di­mi­nui­re la lo­ro mo­ti­va­zio­ne e in­di­ret­ta­men­te di au­men­ta­re la di­su­gua­glian­za so­cia­le.
La de­fi­ni­zio­ne del “fal­li­men­to” è una que­stio­ne in­te­res­san­te. In mol­ti si­ste­mi sco­la­sti­ci i ra­gaz­zi ven­go­no va­lu­ta­ti con un si­ste­ma stan­dar­diz­za­to che com­pa­ra le car­rie­re sco­la­sti­che, l’ap­pren­di­men­to o le ca­pa­ci­tà per far­ne del­le me­die sta­ti­sti­che (la me­dia del­la clas­se, la me­dia na­zio­na­le, ecc.). Do­po­di­ché si de­fi­ni­sco­no i ra­gaz­zi in ba­se al­la po­si­zio­ne (so­pra o sot­to) ri­spet­to a quel­la me­dia. In Fin­lan­dia la va­lu­ta­zio­ne dei ra­gaz­zi è ba­sa­ta su una fi­lo­so­fia del tut­to di­ver­sa: ogni stu­den­te vie­ne giu­di­ca­to a par­ti­re dal­le sue stes­se abi­li­tà e dal po­ten­zia­le che cia­scu­no pos­sie­de se­con­do il pa­re­re del sin­go­lo in­se­gnan­te. In Fin­lan­dia un 8 (in una sca­la da 4 a 10) si­gni­fi­ca che si è mi­glio­ra­ti, che in ba­se al­la pro­pria con­di­zio­ne di par­ten­za e al­la pro­pria si­tua­zio­ne per­so­na­le c’è sta­ta un’e­vo­lu­zio­ne po­si­ti­va. Quin­di an­che un al­lie­vo per il qua­le la ma­te­ma­ti­ca è dif­fi­ci­le, che ha dif­fi­col­tà con la let­tu­ra o con la scrit­tu­ra, ma che si ap­pli­ca e fa eser­ci­zi e stu­dia di­li­gen­te­men­te, può ar­ri­va­re ad un 8.
In que­sto sen­so, nel­le scuo­le fin­lan­de­si il “fal­li­men­to” ha un si­gni­fi­ca­to di­ver­so ri­spet­to ad al­tri Pae­si. In Fin­lan­dia, uno stu­den­te o una stu­den­tes­sa che “fal­li­sce”, è qual­cu­no che non ha fat­to tut­to ciò che era nel­le sue pos­si­bi­li­tà, non qual­cu­no i cui ri­sul­ta­ti ven­go­no mes­si a con­fron­to con del­le sta­ti­sti­che.
In Fin­lan­dia ci si fi­da de­gli in­se­gnan­ti esat­ta­men­te co­me ci si fi­da di un den­ti­sta, di un me­di­co, di un av­vo­ca­to o di qual­sia­si al­tro pro­fes­sio­ni­sta. Da noi nes­su­na au­to­ri­tà ester­na in­ter­vie­ne sul­la dia­gno­si che un me­di­co ha fat­to del suo pa­zien­te. Al­lo stes­so mo­do non esi­ste un’or­ga­niz­za­zio­ne che ab­bia il com­pi­to di giu­di­ca­re il la­vo­ro di un in­se­gnan­te.
Per il sistema finlandese la tecnologia è uno strumento didattico, al pari di altri, non lo strumento per eccellenza. Ogni aula è attrezzata e quasi tutti i ragazzi hanno un tablet in dotazione. I docenti sono discretamente preparati ad utilizzare le tecnologie e ogni scuola ha alcuni docenti molto esperti nel settore. Molte delle relazioni burocratico-amministrative scuola-famiglia avvengono per via informatica. Ma la tecnologia non è il focus del processo di insegnamento-apprendimento né il succedaneo dei docenti.

da TUTTOSCUOLA

lunedì 30 luglio 2018

30 luglio - GIORNATA MONDIALE CONTRO LA TRATTA DI ESSERI UMANI

Papa Francesco: Questa piaga riduce in schiavitù molti uomini, donne e bambini con lo scopo dello sfruttamento lavorativo e sessuale, del commercio di organi, dell’accattonaggio e della delinquenza forzata. Anche qui, a Roma. Anche le rotte migratorie sono spesso utilizzate da trafficanti e sfruttatori per reclutare nuove vittime della tratta. È responsabilità di tutti denunciare le ingiustizie e contrastare con fermezza questo vergognoso crimine"

Nella Giornata mondiale contro la tratta di esseri umani, l’Ordine di Malta lancia appello per aumentare sforzi congiunti

Comunicato Stampa
Nella Giornata mondiale contro la tratta di esseri umani, il Sovrano Ordine di Malta fa appello ai governi e alla società civile- comprese le imprese- per adottare misure per prevenire e porre fine alla tratta di esseri umani, proteggendo e assistendo vittime e sopravvissuti. La tratta di esseri umani è una tragica forma di schiavitù contemporanea, che costituisce un crimine e una seria minaccia alla dignità umana e all’integrità fisica.
L’Ordine di Malta vuole sottolineare la necessità di rafforzare le sinergie, le partnership e le alleanze tra le diverse agenzie delle Nazioni Unite, organizzazioni regionali, organizzazioni non governative locali e internazionali e società civile, comprese le organizzazioni religiose” afferma Albrecht Boeselager, Gran Cancelliere dell’Ordine di Malta. “Queste misure sono disperatamente necessarie per prevenire le violazioni, proteggere le vittime, perseguire i responsabili, condividere ricerche ed esperienze, mettere in evidenza le buone pratiche, sensibilizzare e impegnarsi in modo proattivo con le organizzazioni regionali e sub-regionali”.
Adempiendo alla sua missione di assistere i più deboli, il Sovrano Ordine di Malta sta intensificando i suoi sforzi contro la tratta di esseri umani attraverso i servizi sociali e l’azione umanitaria condotta dalle sue Associazioni nazionali e dalla sua Agenzia di soccorso mondiale “Malteser International”, nonché attraverso la sua rete diplomatica e in particolare i suoi due ambasciatori incaricati di combattere la tratta. Con sede a Ginevra e a Lagos, Michel Veuthey – Ambasciatore per monitorare e combattere la tratta di persone – e Romain de Villeneuve – Ambasciatore At large per l’Africa – stanno lavorando per rafforzare l’impegno dell’Ordine di Malta attraverso progetti diplomatici e locali.
L’Ordine di Malta sottolinea anche l’importanza di affrontare la schiavitù moderna nelle catene di approvvigionamento. “Porre l’attenzione sulla domanda di lavoro in schiavitù è assolutamente necessario”, osserva l’ambasciatore Michel Veuthey. Le etichette con la scritta “free-slave” dovrebbero essere introdotte per beni e servizi. La schiavitù moderna esiste nelle catene di approvvigionamento in tutte le regioni. Con una cifra stimata di 150 miliardi di dollari di profitti illeciti all’anno, è una delle maggiori sfide dell’attuale economia globale e, a meno che non si possano realizzare reali progressi, gli obiettivi delle filiere sostenibili e dello sviluppo sostenibile resteranno inattuabili”.
L’Ordine di Malta ricorda le parole di Sua Santità Papa Francesco, che più volte ha denunciato questo flagello moderno, facendo un appello all’azione: “Di fronte a questa realtà tragica, nessuno può lavarsi le mani se non vuole essere, in qualche modo, complice di questo crimine contro l’umanità. Questo lavoro immenso, che richiede coraggio, pazienza e perseveranza, ha bisogno di uno sforzo comune e globale da parte dei diversi attori che compongono la società”(Papa Francesco ai partecipanti al 2 ° Forum Internazionale sulla schiavitù moderna, maggio 2018).
L’Ordine di Malta lavora con la Santa Sede, gli stati, le organizzazioni internazionali e le organizzazioni locali religiose, sostenendo ad esempio Bakhita Villa, un rifugio per i sopravvissuti a Lagos, in Nigeria, gestito da Suor Patricia Ebegbulem delle Suore di Saint Louis.
Il Sovrano Militare Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme di Rodi e di Malta, fondato a Gerusalemme intorno all’anno 1048, è ente primario di diritto internazionale ed Ordine religioso cattolico laicale. La missione dell’Ordine è di testimoniare la fede e servire i poveri e gli ammalati. Oggi l’Ordine di Malta opera principalmente nell’ambito dell’assistenza medico sociale e degli interventi umanitari, svolgendo la propria attività in oltre 120 paesi. Insieme ai suoi 13.500 membri, operano 80.000 volontari, coadiuvati da oltre 42.000 tra medici, infermieri e ausiliari paramedici. L’Ordine gestisce ospedali, centri medici, ambulatori, istituti per anziani e disabili, centri per i malati terminali, corpi di volontari. Il Malteser International, la speciale agenzia di soccorso dell’Ordine di Malta, è sempre in prima linea nelle calamità naturali e per ridurre le conseguenze dei conflitti armati.
L’Ordine è attualmente impegnato nei paesi confinanti la Siria e l’Iraq per prestare soccorso alla popolazione in fuga dalle violenze. Il Corpo italiano di Soccorso dell’Ordine di Malta partecipa ai soccorsi medici di barconi carichi di migranti nello Stretto di Sicilia, affiancando le autorità italiane L’Ordine di Malta è neutrale, imparziale e apolitico. Ha rapporti diplomatici bilaterali con 107 Stati, relazioni ufficiali con 6 altri Stati, relazioni a livello di ambasciatore con l’Unione Europea. È Osservatore permanente presso le Nazioni Unite e le sue agenzie specializzate,  ha rappresentanze presso le principali Organizzazioni Internazionali. Dal 1834 la sede del Governo del Sovrano Ordine di Malta è a Roma, dove ha garanzie di extraterritorialità.

www.zenit.org 

CARITA'?!

Quando si parla di carità il pensiero corre spontaneamente al portafoglio e subito ci immaginiamo il gesto classico dell’elemosina. Invece, quando i cristiani parlano di carità vogliono intendere altro. Carità è innanzitutto la definizione, l’identità stessa di Dio, che è amore gratuito di benevolenza. Il termine carità, poi, definisce l’amore con il quale Dio ama se stesso e ama ognuno di noi.
 
Infine, carità significa l’amore con il quale noi amiamo Dio, noi stessi e il prossimo. Così ne parla il Catechismo della Chiesa Cattolica: «La carità è la virtù teologale per la quale amiamo Dio sopra ogni cosa per se stesso, e il nostro prossimo come noi stessi per amore di Dio»; essa «ha come frutti la gioia, la pace e la misericordia; esige la generosità e la correzione fraterna; è benevolenza; suscita la reciprocità, si dimostra sempre disinteressata e benefica; è amicizia e comunione».
 
«“Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1 Gv 4, 16). Queste parole della prima Lettera di Giovanni descrivono con singolare chiarezza il centro della fede cristiana: l’immagine di Dio e la conseguente immagine dell’uomo e del suo cammino. Inoltre, in questo stesso versetto, Giovanni ci offre una formula sintetica dell’esistenza cristiana: “Noi abbiamo riconosciuto l’amore che Dio ha per noi e vi abbiamo creduto”. Abbiamo creduto all’amore di Dio: così il cristiano può esprimere la scelta fondamentale della sua vita.
 
All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva». Così scriveva Papa Benedetto XVI nella sua Lettera Enciclica Deus caritas est . La carità, l’amore, è Dio stesso, l’Essere vivente e personale che vuole farsi conoscere e perciò chiama all’esistenza ciò che non esiste (cf Rom 4, 17), offrendo alla sua creatura la possibilità di condividere qualcosa della sua beatitudine.
 
Questo Essere vivente e personale è in se stesso comunione sostanziale delle tre divine Persone: il Padre ama il Figlio, e l’amore con il quale il Padre ama il Figlio è lo Spirito Santo. Tutto ciò che è creato lo è per amore e con amore e riceve l’amore come legge di vita. «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna » ( Gv 3, 16).
 
Il fatto che chi ama voglia essere riamato è nella logica dell’amore. Il desiderio di essere corrisposto nasce dalla forza dell’amore stesso, che non esperimenta la perfezione del suo atto se non nel superamento di ogni estraneità dell’uno all’altro. La Scrittura af- ferma che anche Dio desidera essere corrisposto, e utilizza una formula sorprendente: parla della gelosia di Dio (cf Es 34, 14; Dt 4, 24), Dio è geloso.
 
Quando il cristianesimo parla di carità, parla di Dio che in Cristo rivela di amare l’uomo e desidera che l’uomo risponda a questo amore. E nello stesso tempo, intende la carità con la quale l’uomo ama Dio: la carità dell’uomo è risposta alla carità di Dio. «Noi amiamo - afferma san Giovanni - perché Egli ci ha amati per primo» ( 1Gv 4, 19). Dio dona la sua grazia, ma bisogna accoglierla.
 
In Gesù la natura umana è pienamente salvata, cioè perdonata, giustificata, santificata, divinizzata, resa pienamente “figlia” nella vita gloriosa dell’amore immortale. Ma dipende da ciascuno accogliere questo dono con una adesione personale e libera al mistero di Gesù, il Verbo fatto carne, morto e risuscitato: «Dio, che ti ha creato senza di te, non ti salverà senza di te», dice sant’Agostino .
 
L’amore non costringe. Ecco perché la grazia ricevuta nel Battesimo può rimanere infruttuosa per anni... Ma per fortuna Gesù ci dice: «Il Padre mio agisce anche ora e anch’io agisco» ( Gv 5, 17). Dio è sempre all’opera nella nostra vita! Anche se non sempre ce ne rendiamo conto, non siamo abbandonati a noi stessi. «Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano», affermava già il salmista ( Sal 139, 5).
 
Attraverso gli avvenimenti dell’esistenza quotidiana, Dio mi aiuta a meglio conoscermi, a chiarificare le mie intenzioni, ad emergere dalle mie indeterminazioni. Con la sua grazia che previene, Egli tutto dispone affinché io mi possa aprire alla luce della fede; libera la mia libertà affinché io possa dare il mio consenso; mi attira a sé attraverso grazie e prove, mi offre continuamente la possibilità di rispondere al suo amore.
 
Ma in che modo l’uomo può amare Dio? Ce lo rivela san Paolo in un passaggio mirabile della lettera ai Romani: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» ( 5, 5). È il dono dello Spirito Santo che, da una parte, ci comunica la certezza e l’esperienza dell’amore con cui Dio ci ama in Cristo e, dal-l’altra, ci muove ed ispira ad amare Dio come Egli merita di essere amato. È una sorta di “abilitazione”, di potenziamento che viene operato in noi: amandoci, Dio ci costituisce capaci di amare a nostra volta come Egli ama.
 
Così il credente diventa strumento libero e intelligente della Forza divina che agisce in lui. Lo Spirito Santo costituisce il “punto di incontro” fra Dio che in Cristo ama l’uomo e l’uomo che ama Dio in Cristo. È la carità di cui parla la fede cristiana. Si comprende allora quanto afferma san Giovanni: «Dio è carità. Chi rimane nella carità, rimane in Dio e Dio in lui» ( 1 Gv 4, 16). Il nostro è dunque un amore “di risposta”, che dipende dal fatto che Dio è amore e ci ama.

 Mons. Renato Boccardo
 

(articolo tratto da www.avvenire.it)

sabato 28 luglio 2018

CONDIVIDERE IL PANE PER MOLTIPLICARLO

La legge della generosità: 
il pane condiviso non finisce
 
In quel tempo, Gesù (...) salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». (...) Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci; ma che cos'è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere».
 C'era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d'orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato (....).
 
  (Letture: 2 Re 4,42-44; Salmo 144; Efesini 4,1-6; Giovanni 6,1-6).
 
 Di seguito il commento di Enzo Bianchi.
 
L’ordo delle letture bibliche dell’annata liturgica B ha previsto che, giunti nella lettura cursiva di Marco all’evento della moltiplicazione dei pani (cf. Mc 6,35-44), si interrompa la lettura del vangelo più antico e la si sostituisca con la lettura dello stesso episodio narrato nel quarto vangelo. Per cinque domeniche si legge dunque il capitolo 6 di Giovanni, un testo che richiede una breve introduzione generale.
 
In verità questo capitolo, tutto incentrato sul tema del “pane di vita”, che mai appare altrove, sembra piuttosto isolato nello svolgimento del racconto giovanneo. Con buona probabilità, si tratta di un brano aggiunto più tardi per dare alla chiesa giovannea una catechesi sull’eucaristia, essendo il racconto della sua istituzione mancante nel quarto vangelo, sostituito da quello della lavanda dei piedi (cf. Gv 13,1-17).
 
Questo capitolo in ogni caso è decisamente importante nel quarto vangelo, perché proprio attraverso la comprensione eucaristica Pietro e gli altri discepoli giungono alla confessione dell’identità di Gesù: per i giudei è il figlio di Giuseppe, semplicemente un uomo della Galilea (cf. Gv 6,42), mentre Gesù dichiara di essere il Figlio di Dio, colui che è e disceso dal cielo come inviato del Padre (cf. Gv 6,57); la vera identità di Gesù è proclamata con la confessione di Pietro, che riconosce in lui “il Santo di Dio” (Gv 6,69).
 
Dell’evento della moltiplicazione dei pani i vangeli ci danno ben sei testimonianze perché Matteo e Marco hanno conservato due tradizioni di quel “prodigio”, recepito dalla chiesa come profetico del dono del pane eucaristico dato da Gesù ai suoi discepoli la sera della sua passione. Il quarto vangelo in modo ancora più esplicito lo narra come “segno” (semeîon) che annuncia il dono del corpo e del sangue, dell’intera vita di Gesù.
 
Gesù si trova in Galilea, sul lago di Tiberiade, quando decide di attraversare l’ampia insenatura per raggiungere l’altra riva, sempre sul lato occidentale del lago, forse per cercare un luogo di riposo e di preghiera. Ma “una grande folla” lo segue, e subito l’evangelista ce ne fornisce la ragione: Gesù ha compiuto molti segni sui malati, la sua azione e la sua predicazione destano stupore e curiosità.
 
Questa sembra dunque essere un’ora di successo per lui, che sceglie di salire sul monte, come aveva fatto Mosè in occasione della celebrazione dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Viene anche esplicitata un’informazione temporale: “era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei”. Era dunque un’ora vigiliare (come l’ora dell’istituzione eucaristica), e infatti il segno che Gesù opererà sarà il segno della Pasqua cristiana per eccellenza.
 
Seduto in alto, Gesù ha davanti a sé la grande folla, che osserva alzando gli occhi: è una folla in attesa! Ed ecco che liberamente e gratuitamente prende l’iniziativa di dare un segno, di compiere un gesto che racconti l’amore di Dio, il quale ama così tanto l’umanità da darle in dono suo Figlio (cf. Gv 3,16). Chiama a sé un discepolo, Filippo, e gli chiede: “Da dove potremo comprare il pane per sfamare costoro?”.
 
In realtà Gesù sa cosa sta per compiere, perché la sua intenzione è frutto della sua comunione con i pensieri di Dio, che lui chiama “Padre”. Filippo invece compie i calcoli per determinare la spesa dell’acquisto del pane per tanta gente e Andrea fa presente che i cinque pane d’orzo e i due pesci che un ragazzo ha portato con sé sarebbero assolutamente insufficienti.
 
Allora Gesù, con la sua sovranità, chiede ai discepoli di far adagiare la folla su quell’erba verde che ricorda i pascoli dove Dio, il Pastore, conduce le sue pecore (cf. Sal 23,2), affinché abbiano cibo abbondante. Poi davanti a tutti compie il gesto: “prese i pani e, dopo aver reso grazie (eucharistésas), li distribuì a quelli che erano adagiati sull’erba, e lo stesso fece con i pesciolini, secondo il loro bisogno”.
 
Ecco il segno dato e i gesti che preannunciano quelli dell’istituzione eucaristica nell’ultima cena: Gesù prende nelle sue mani il pane, rende grazie a Dio (o lo benedice, secondo Marco e Matteo), lo spezza e lo dà, lo distribuisce ai discepoli. È lui, il Cristo Signore, che dà, distribuisce (dédoken) quel pane che sfama cinquemila persone, quei cinque pani che, condivisi, riescono a saziare tutti.
 
E proprio in virtù di questa azione totalmente decisa e fatta da lui stesso, potrà dire: “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Gv 6,51). Così Gesù appare come il Profeta escatologico, ben più di Eliseo che aveva moltiplicato i pani d’orzo (cf. 2Re 4,42-44), perché non soccorre solo la fame, il bisogno umano di mangiare per vivere, ma fa il dono del suo corpo, amando i suoi fino alla fine (cf. Gv 13,1).
 
Il pane, che è una necessità per l’uomo, per il suo bisogno di vivere, è anche ciò che Dio dona a ogni creatura (cf. Sal 136,25). Nel gesto di Gesù vi è dunque il venire incontro al bisogno umano ma anche la narrazione dell’amore di Dio, amore gratuito e sovrabbondante, eccessivo, che non chiede contraccambio, ma solo accoglienza e ringraziamento.
 
Anche l’ingiunzione di Gesù “Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto” ha un significato particolare: non manifesta solo l’abbondanza del pane condiviso ma significa che sempre nella comunità del Signore ci sarà il pane eucaristico, che dovrà essere conservato con cura e sollecitudine.
 
Il racconto di questo segno si risolve però in un malinteso. Attraverso questo segno Gesù ha voluto rivelare qualcosa della sua identità e del suo inserimento nella storia di salvezza: è il Profeta, è il Messia, è colui che rinnova e trascende in un’inedita pienezza i segni operati da Dio stesso nell’esodo, ma la gente che giunge a questa comprensione di Gesù trae delle conseguenze che egli rigetta, fino a sottrarsi e a fuggire nella solitudine.
 
Infatti, posta di fronte a quel segno profetico e a quel prodigio della moltiplicazione del pane condiviso, la folla pensa che sia giunta l’ora di proclamare Gesù Re dei Giudei e di celebrare la sua gloria. Equivoco, malinteso che svela come anche l’acquisizione della conoscenza di Gesù possa essere sviante e tradire la sua vera identità e l’autentica intenzione dei suoi gesti.
 
Percepire Gesù come re al modo dei re, dei potenti di questo mondo, sarebbe negare la missione che egli ha ricevuto dal Padre e acconsentire alle intenzioni del Principe di questo mondo, Satana. Gesù è il Re dei Giudei, e tale sarà proclamato sulla croce dal titolo che Pilato farà innalzare sul suo capo (cf. Gv 19,19); ma è un Re crocifisso, nella debolezza dell’uomo dei dolori, vittima dell’odio del mondo, solidale con i perseguitati, gli oppressi, i poveri, gli scarti della storia.
 
La numerosa folla misconosce dunque quel Gesù che ha seguito, perché lo interpreta e lo vuole secondo i propri desideri e le proprie proiezioni, non essendo disposta ad accettare un Profeta e Messia conforme al disegno di Dio. È significativo che Giovanni annoti che “volevano impadronirsi di lui per farlo re”, volevano cioè ridurlo a un oggetto, un idolo plasmato dai loro desideri, volevano un Messia con un programma mondano.
 
Ma Gesù rifiuta perché sa che quel potere che gli vogliono dare non è il vero potere conferitogli dal Padre. Come aveva fuggito le tentazioni di potere nel deserto (cf. Mc 1,12-13; Mt 4,1-11; Lc 4,1-13), così ora si ritira nella solitudine della montagna, fuggendo dalla folla che lo acclama, discernendo l’illusione di un apparente successo, che non può né desiderare né accettare.
 
Salendo su quel monte, da solo, lasciando a valle anche i discepoli, Gesù medita su quell’incomprensione e si affida nuovamente al Padre, affidandogli anche quella folla e quei discepoli che non avevano capito né il suo gesto né la sua intenzione. Ma il seguito del racconto, che ascolteremo nelle prossime domeniche, ci rivelerà, attraverso un lungo discorso di Gesù, che colui che ha dato il pane in abbondanza è in verità lui stesso il pane dato da Dio all’umanità per la pienezza della sua vita.
  

(tratto da www.monasterodibose.it)


IL CROCIFISSO OVUNQUE? QUAL E' IL VERO MOTIVO?



Fa discutere la proposta leghista per ribadire l'obbligo 
in tutti gli edifici pubblici

LE REGOLE CI SONO GIA’!
di Carlo Cardia, giurista

 Probabilmente, la polemica che s’è aperta con la proposta di prevedere la presenza del Crocifisso in tutti gli uffici e i luoghi pubblici, con una estensione senza confini, perfino nelle Università, nei porti e aeroporti, terminerà presto, per la sua inutilità e per qualche profilo, contraddittorio e rischioso. Ciò che rende del tutto inutile la proposta è anzitutto la tradizione italiana, e il nostro ordinamento giuridico, che pur in tempi diversi, si sono ispirati a una laicità positiva che ha sempre salvaguardato il nostro Paese da polemiche aggressive, e l’ha indotto a scelte inclusive dall’epoca risorgimentale a oggi.
Proprio il Crocifisso, in opposto a opinioni non informate, è collocato nelle scuole italiane per impulso della Legge Casati del 1859 e per il Regio Dec. 15 settembre 1860, n. 4336 che lo prevedeva in ogni scuola, mentre il Decreto 6 febbraio 1908, n. 150, confermò il simbolo e l’insegnamento religioso nelle scuole elementari. Non tutti sanno che tale insegnamento introdotto in epoca liberale, dalla Legge Coppino del 1877, fu legittimato dal Consiglio di Stato, e ogni ipotesi d’abrogazione venne respinta. Per i nostri "padri liberali", d’altronde, la legge si deve «adoprare perché il sentimento religioso non scada» e non ceda all’indifferentismo, e Marco Minghetti osserva «i padri di famiglia si disvogliano dal mandare i figliuoli loro» a una scuola lontana dalla religione, che doveva tra l’altro contribuire anche a formare buoni cittadini.
Con lo stesso spirito inclusivo, la presenza del Crocifisso in alcuni spazi pubblici, è stata mantenuta in epoca concordataria (1929), ed è passata successivamente al vaglio delle nostre Magistrature superiori, nonché della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), come ricordato ieri su queste stesse pagine, superando ogni opposizione, con motivazioni sempre ispirate alla laicità positiva propria del nostro ordinamento. In particolare, sia la sentenza della Cedu del 18 marzo 2011, emessa dalla Grande Chambre di Strasburgo dopo un lungo giudizio, sia il Consiglio di Stato nel 2009, hanno sottolineato come la Scuola italiana sia improntata ai princìpi di libertà religiosa, e comprenda più presenze religiose anche non cattoliche: il Crocifisso quindi riflette la tradizione religiosa, storica e culturale italiana, nella quale la libertà religiosa s’è costantemente ispirata al rispetto del pluralismo e, possiamo dire oggi, del dialogo interreligioso con altre fedi e orientamenti ideali.
Di qui, una prima considerazione. Non c’è alcuna ragione per modifiche normative, dal momento che la nostra laicità, proprio sul tema dei simboli negli spazi pubblici, è stata ribadita dalle più alte magistrature a livello nazionale ed europeo. Può, invece, nascere il sospetto, rimbalzato sui primi commenti, che gli obiettivi della proposta siano altri rispetto a quelli enunciati. Che si voglia sottolineare ultra vires un elemento identitario che va ben oltre la previsione normativa, e che facilmente si colora di spirito esclusivista. Inoltre, un’estensione così ampia della presenza del simbolo in tanti luoghi pubblici crea più problemi di quanti ne risolva, lasciando alle autorità una discrezionalità che può provocare nuove controversie amministrative o giudiziarie: l’estensione alle assemblee elettive, alle aule universitarie, dello stesso concetto di ufficio pubblico, fino agli spazi portuali, più che il rispetto per il simbolo religioso sembra suggerire una esibizione quasi impositiva. Infine, crea disagio il fatto che una maggioranza politica voglia appropriarsi di una identità religiosa e culturale che è di tutti, e che si connota per la sua apertura al pluralismo.
Né va dimenticata la coralità di consensi che ha accompagnato in Italia la difesa del Crocifisso secondo le norme odierne. Ciò che spinse la Grande Chambre nel 2011 a dare ragione all’Italia fu proprio quella communis opinio che unì cattolici, liberali, uomini di sinistra, nel vedere nel simbolo della Croce il riflesso dei valori etici e culturali della nostra tradizione. "Avvenire" ha già ricordato le parole di Natalia Ginzburg, per la quale il Crocifisso rappresenta tutti coloro che hanno sofferto per la propria fede, e che per il Dio della Bibbia sono uguali e fratelli tutti, e tutti legati da una comune solidarietà.
Si unirono le parole di Umberto Eco secondo cui nell’epoca della multiculturalità ciascuno deve accettare le diversità degli altri, che non vanno nascoste ma proposte nella loro autenticità e per la ricchezza che ne deriva.
Ancora Massimo Cacciari ricordò che la Croce «parla di una sofferenza che sa accogliere in sé tutte le sofferenze e in qualche modo redimerle. Un segno di straordinaria accoglienza, di straordinaria donazione di sé».
E l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano evocò il significato del Crocifisso per la nostra tradizione e per i valori religiosi ed etici che esprimeva. Al consenso della cultura italiana, seguì una adesione ancor più ampia in Europa all’epoca del giudizio davanti alla Corte di Strasburgo. Quando molti Paesi ortodossi appoggiarono formalmente l’Italia nella difesa della sua legislazione, e diversi Paesi del Nord Europa a maggioranza protestante sostennero le nostre ragioni anche perché in quasi tutte le loro bandiere nazionali figura la Croce come emblema nazionale: in Gran Bretagna la bandiera nazionale evoca tre Croci, di San Giorgio, Sant’Andrea e San Patrizio. Questa coralità di adesioni convinse la Grande Chambre a legittimare la presenza del Crocifisso nelle scuole, e ottenne il consenso di una forte maggioranza dei giudici che si pronunciarono sull’argomento.
Possiamo ammettere che il tempo presente non è tempo di moderazione, e che le esasperazioni identitarie e nazionaliste sembrano prevalere in alcune parti d’Europa e oltre Atlantico, ma ciò non toglie che anche nei momenti di decadenza è sempre necessaria una saggezza elementare quando si parla di valori universali che riguardano tutte le donne e gli uomini, e ricordano che nessuno deve mai essere discriminato o privato dei suoi diritti fondamentali.
Il Crocifisso è tra i simboli che vengono rispettati, spesso riconosciuti, da uomini di tutte le fedi proprio per il loro significato di soccorso nelle sofferenze, d’esaltazione della vita buona che possiamo dedicare agli altri. Una cosa, però, va evitata tutti insieme, che venga utilizzata la Croce per esibire un orgoglio che divide e rifiutata poi quell’accoglienza ai più deboli e più poveri che invece il Crocifisso rappresenta e chiede di promuovere in ogni tempo e luogo.

UN VALORE CHE NON PUO' DIVIDERE
 di Lucia Bellaspiga, giornalista

Duemila anni dopo è ancora scontro sul Crocifisso. E sulla croce alla quale fu inchiodato. Esibito in campagne elettorali, espulso (nelle intenzione di alcuni) da aule scolastiche e stanze d’ospedale, evocato in altre Aule per giustificare proclami spesso tutt’altro che cristiani, bestemmiato in manifestazioni di pessimo gusto, imposto senza crederci, il simbolo per eccellenza di riconciliazione e rispetto infuoca ancora oggi il dibattito. Un dibattito viziato spesso dal fatto che, del Crocifisso, i due estremismi in guerra alla fine sanno ben poco e del resto non è Lui a interessare loro, ma la valenza propagandistica che gli attribuiscono. «Usare il Crocifisso come un Big Jim qualunque è blasfemo», ha twittato ieri padre Antonio Spadaro, direttore gesuita di "Civiltà cattolica", «la croce è segno di protesta contro peccato, violenza, ingiustizia e morte – ha ricordato –, non è mai un segno identitario. Grida l’amore al nemico e l’accoglienza incondizionata. È l’abbraccio di Dio senza difese. Giù le mani».
Big Jim, la bambola maschile tutta muscoli e snodabile, adattabile a qualsiasi posizione e circostanza, è immagine cruda quanto drammatica di un Cristo che oggi in croce ci torna tutti i giorni, brandito come arma e usato come alibi per respingere il prossimo. Esattamente sull’uso improprio di quel termine, "identitario", sottolineato da padre Spadaro, fa perno oggi una presunta "difesa" del Crocifisso che in realtà è un’offesa: «Ora in tutti gli edifici un bel crocifisso obbligatorio regalato dal Comune!», aveva trionfato su Facebook nel 2014 il neo sindaco leghista di Padova, Massimo Bitonci, dopo la vittoria elettorale, e ancora nel Padovano nel marzo scorso il sindaco leghista di Brugine, Michele Giraldo, regalava croci alle scuole del paese ma con parole minacciose: «Chi non rispetta determinati simboli deve adeguarsi, se desidera essere un nostro concittadino», e chi ha orecchie per intendere intenda... Volendo gli esempi si sprecano.
Così come da parte opposta si sprecano i deliri delle croci violate nelle piazze da certo femminismo (che offende le donne stesse) o dagli eccessi in stile gay pride, o ancora da chi in nome di un frainteso "diritto alla laicità" pretende di esiliare la croce.
               www.Avvenire.it

E' LA SCELTA MIGLIORE?
di Lucandrea Massaro, esperto in sociologia e scienza delle religioni

Nel bel mezzo di una (presunta) crisi migratoria, mentre nel frattempo Trump dichiara che l’Europa è nemica degli Stati Uniti, mentre in Nicaragua la Chiesa viene perseguitata (e non solo lì naturalmente) l’onorevole Barbara Saltamartini (Lega) ha depositato una proposta di legge sul crocifisso nei luoghi pubblici: per rendere obbligatoria l’esposizione della croce nei luoghi pubblici: scuole, università, accademie, carceri, uffici pubblici tutti, consolati, ambasciate. E nei porti, naturalmente: ancorché chiusi, per volontà del ministro dell’Interno, ai disperati raccolti in mare, dovrebbero tuttavia, per volontà del suo partito, esporre la croce «in luogo elevato e ben visibile» (L’Espresso).
La pena in caso di infrazione sarebbe di 1000 euro, niente male, ma posto che l’idea di vedere più spesso il Crocefisso in giro per la città fa piacere tanto a noi che scriviamo, quanto probabilmente a chi ci legge, forse non né la via migliore per risvegliare la fede in Italia, né il primo provvedimento legislativo che ci viene in mente in un paese con 5 milioni di poveri  e oltre 7 milioni in difficoltà.
L’intento della deputata salviniana (in linea con la presunta missione della Lega di difendere le radici cristiane italiane) è – leggendo la relazione introduttiva della legge – quella di correre ai ripari rispetto al laicismo imperante:
“Risulterebbe inaccettabile per la storia e per la tradizione dei nostri popoli, se la decantata laicità della Costituzione repubblicana fosse malamente interpretata nel senso di introdurre un obbligo giacobino di rimozione del Crocifisso; esso, al contrario, rimane per migliaia di cittadini, famiglie e lavoratori il simbolo della storia condivisa da un intero popolo” (TPI).
In ossequio al principio del primato della coscienza per il credente Cristo viene prima dello Stato, viene prima delle leggi e vive radicato nel cuore del buon cristiano, il quale probabilmente darà maggiore testimonianza della sua fede se si acconcia a servire Dio, se aiuta il fratello in difficoltà, se prega e se opera per il miglioramento della comunità in cui vive.
Costruire una Chiesa o un luogo di culto è un’opera pia meritoria, ma non sarebbe più utile lasciare che nei luoghi pubblici dipendenti e (nel caso delle scuole, studenti) possano discutere se mettere o meno il crocifisso appeso? Non sarebbe, magari all’inizio di ogni anno prendersi un paio d’ore per dibattere e lasciare che le domande che la Croce propone a tutti gli uomini entrassero nel dibattito anche se per poco? Anche chi è contrario non sarebbe “costretto” a chiedersi cosa significa quell’uomo inchiodato “per la Salvezza di molti”?
Più che imporre per legge il Crocifisso, non sarebbe assai più utile ed edificante proporlo e vedere che succede invece di esporlo a quello che – ne siamo certi – diventerà altrimenti l’ennesima lotta tra forze politiche, tra cittadini divisi tra l’indignazione e lo scontento?

Del resto come ebbe a dire San Giovanni Crisostomo:
Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia oggetto di disprezzo nelle sue membra cioè nei poveri, privi di panni per coprirsi. Non onorarlo qui in chiesa con stoffe di seta, mentre fuori lo trascuri quando soffre per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: «Questo è il mio corpo», confermando il fatto con la parola, ha detto anche: Mi avete visto affamato e non mi avete dato da mangiare (cfr. Mt 25, 42), e: Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno dei più piccoli tra questi, non l’avete fatto neppure a me (cfr. Mt 25, 45). Il corpo di Cristo che sta sull’altare non ha bisogno di mantelli, ma di anime pure; mentre quello che sta fuori ha bisogno di molta cura.
Impariamo dunque a pensare e a onorare Cristo come egli vuole. Infatti l’onore più gradito che possiamo rendere a colui che vogliamo venerare è quello che lui stesso vuole, non quello escogitato da noi. Anche Pietro credeva di onorarlo impedendo a lui di lavargli i piedi. Questo non era onore, ma vera scortesia. Così anche tu rendigli quell’onore che egli ha comandato, fa’ che i poveri beneficino delle tue ricchezze. Dio non ha bisogno di vasi d’oro, ma di anime d’oro.
Con questo non intendo certo proibirvi di fare doni alla chiesa. No. Ma vi scongiuro di elargire, con questi e prima di questi, l’elemosina. Dio infatti accetta i doni alla sua casa terrena, ma gradisce molto di più il soccorso dato ai poveri.
Nel primo caso ne ricava vantaggio solo chi offre, nel secondo invece anche chi riceve. Là il dono potrebbe essere occasione di ostentazione; qui invece è elemosina e amore. Che vantaggio può avere Cristo se la mensa del sacrificio è piena di vasi d’oro, mentre poi muore di fame nella persona del povero? Prima sazia l’affamato, e solo in seguito orna l’altare con quello che rimane. Gli offrirai un calice d’oro e non gli darai un bicchiere d’acqua? Che bisogno c’è di adornare con veli d’oro il suo altare, se poi non gli offri il vestito necessario? Che guadagno ne ricava egli? Dimmi: se vedessi uno privo del cibo necessario e, senza curartene, adornassi d’oro solo la sua mensa, credi che ti ringrazierebbe o piuttosto non si infurierebbe contro di te? E se vedessi uno coperto di stracci e intirizzito dal freddo, trascurando di vestirlo, gli innalzassi colonne dorate, dicendo che lo fai in suo onore, non si riterrebbe forse di essere beffeggiato e insultato in modo atroce?
Pensa la stessa cosa di Cristo, quando va errante e pellegrino, bisognoso di un tetto. Tu rifiuti di accoglierlo nel pellegrino e adorni invece il pavimento, le pareti, le colonne e i muri dell’edificio sacro. Attacchi catene d’argento alle lampade, ma non vai a visitarlo quando lui è incatenato in carcere.
Dico questo non per vietarvi di procurare tali addobbi e arredi sacri, ma per esortarvi a offrire, insieme a questi, anche il necessario aiuto ai poveri, o, meglio, perché questo sia fatto prima di quello.     
Nessuno è mai stato condannato per non aver cooperato ad abbellire il tempio, ma chi trascura il povero è destinato alla geenna, al fuoco inestinguibile e al supplizio con i demoni.                    Perciò mentre adorni l’ambiente del culto, non chiudere il tuo cuore al fratello che soffre. Questi è un tempio vivo più prezioso di quello”.





ISTRUZIONE PROFESSIONALE. PUBBLICATO IL REGOLAMENTO

MINISTERO DELL'ISTRUZIONE, DELL'UNIVERSITA' E DELLA RICERCA

DECRETO 24 maggio 2018, n. 92 

Regolamento recante la disciplina dei profili di uscita degli indirizzi di studio dei percorsi di istruzione professionale, ai sensi dell'articolo 3, comma 3, del decreto legislativo 13 aprile 2017, n. 61, recante la revisione dei percorsi dell'istruzione professionale nel rispetto dell'articolo 117 della Costituzione, nonche' raccordo con i percorsi dell'istruzione e formazione professionale, a norma dell'articolo 1, commi 180 e 181, lettera d), della legge 13 luglio 2015, n. 107. (18G00117) (GU Serie Generale n.173 del 27-07-2018 - Suppl. Ordinario n. 35)

note: Entrata in vigore del provvedimento: 11/08/2018

L’articolo 1 recita:
1. Il presente regolamento, ai sensi dell’articolo 3, comma 3, del decreto legislativo 13 aprile 2017, n. 61 determina, in relazione ai percorsi di istruzione professionale: 
a) i risultati di apprendimento dell’area di istruzione generale declinati in termini di competenze, abilita’ e conoscenze, nell’ambito degli assi culturali che caratterizzano i percorsi di istruzione professionale nel biennio e nel triennio, come definiti nell’Allegato 1, parte integrante del presente regolamento; 

b) i profili di uscita degli undici indirizzi di studio dei percorsi di istruzione professionale e i relativi risultati di apprendimento, declinati in termini di competenze, abilita’ e conoscenze, come definiti nell’Allegato 2, parte integrante del presente regolamento. Per ciascun profilo di indirizzo, nell’Allegato 2, sono contenuti il riferimento alle attivita’ economiche referenziate ai codici ATECO, adottati dall’Istituto nazionale di statistica per le rilevazioni statistiche nazionali di carattere economico ed esplicitati sino a livello di sezione e di correlate divisioni, nonche’ la correlazione ai settori economico-professionali di cui al decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’istruzione, dell’universita’ e della ricerca, del 30 giugno 2015, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 20 luglio 2015, n. 166; 

c) l’articolazione dei quadri orari degli indirizzi di cui all’Allegato B) del decreto legislativo n. 61 del 2017, come definiti nell’Allegato 3, parte integrante del presente regolamento; 
d) la correlazione di ciascuno degli indirizzi dei percorsi quinquennali dell’istruzione professionale con le qualifiche e i diplomi professionali conseguiti nell’ambito dei percorsi di istruzione e formazione professionale (IeFP), come definita nell’Allegato 4, parte integrante del presente regolamento, anche al fine di facilitare il sistema dei passaggi tra i sistemi formativi, di cui all’articolo 8 del decreto legislativo n. 61 del 2017. 
2. Il passaggio al nuovo ordinamento e’ supportato, ai sensi dell’articolo 11, comma 3, del decreto legislativo n. 61 del 2017, dalle indicazioni e dagli orientamenti a sostegno dell’autonomia delle istituzioni scolastiche che offrono percorsi di istruzione professionale, di cui agli articoli 4, 5, 6 e 7.


Leggi: Regolamento

venerdì 27 luglio 2018

M'INTERESSO DI TE. I Salesiani e i minori immigrati non accompagnati.


"M'interesso di te": l'impegno dei Salesiani per i minori immigrati non accompagnati

387 ragazzi “invisibili” avvicinati, dall'inizio dell'anno, nell’ambito del progetto avviato dai Salesiani in quattro grandi città italiane. Educatori di strada, psicologi e volontari garantiscono a ciascun minore immediato sostegno e poi opportunità scolastiche e di formazione professionale
di Adriana Masotti - Città del Vaticano

“Sono stato rinchiuso in un mese in una casa con altre 120 persone con poca acqua e cibo. Non potevo uscire. Si poteva andare in bagno una sola volta al giorno, pidocchi e zecche non ci facevano dormire e degli uomini armati ci controllavano. Il 23 di giugno alle 2.30 del mattino ci hanno presi e fatti salire su un gommone”. A.S, nigeriano appena maggiorenne, arrivato in Italia a 15 anni, ricorda così l’ultima tappa in Libia del suo viaggio al di là del Mediterraneo, nel 2015. Dopo i primi anni passati in comunità, oggi vive per strada a Catania seguito dai servizi di “bassa soglia” messi in atto dai Salesiani nell’ambito del progetto “M’interesso di te”.
Il progetto dei Salesiani per "gli ultimi"
Da due anni prima a Roma e poi a Torino, Napoli e Catania, l’associazione Salesiani per il Sociale, Federazione Scs/Cnos (Servizi Civili e Sociali – Centro Nazionale Opere Salesiane), uno strumento a sostegno della pastorale del disagio e della povertà educativa che s' ispira a San Giovanni Bosco, è impegnata a fianco dei minori migranti non accompagnati presenti in Italia e fuori dai circuiti dell’accoglienza messa in campo dallo Stato.
"I ragazzi che contattiamo – racconta ai nostri microfoni don Giovanni D’Andrea, presidente dell’associazione salesiana - li abbiamo definiti 'gli ultimi degli ultimi': sono quelli che escono fuori dal percorso ordinario delle casa-famiglia, e che vagano per la strada, dormono fuori e hanno mille avventure, anche drammatiche, tragiche. Perché il mondo della strada è molto crudo, non guarda in faccia a nessuno: dormono anche in luoghi non buoni, e non soltanto da un punto di vista ambientale ma proprio per le persone che lì possono incontrare. C’è molta violenza, ci sono codici comportamentali particolari..." (Ascolta l'intervista a don Giovanni D'Andrea sul progetto "M'interesso di te")
Il primo passo: stabilire un rapporto di fiducia
387 i minori “invisibili” contattati dal progetto nel primo semestre di quest’anno. “ Sono ragazzi molto semplici – ci dice ancora don D’Andrea -. Purtroppo la vita, per quello che hanno subito,  fa dubitare loro di tutti, quindi non si fidano subito. Mi diceva una volta Mario, un ragazzo: 'Io ho avuto tanti sorrisi da tante persone, però dietro ad ogni sorriso poi c’è stata sempre una pugnalata'. Quindi, all’inizio è normale che siano così, però si deve avere pazienza, dialogare con loro a partire dalle cose che possono sembrare più banali".
Dietro l'angolo il rischio dello sfruttamento
Secondo Save the Children, nel 2017 sono arrivati in Italia 17.337 minori, di questi 15.779 non accompagnati. Circa 5.000 quelli che gravitano attorno alle stazioni centrali delle aree metropolitane e che ogni giorno rischiano di essere coinvolti in attività criminali o in circuiti di sfruttamento sessuale. Una situazione molto lontana da quella che si immaginavano prima di arrivare. "Questo perché - spiega il presidente di Salesiani per il sociale - molti di questi ragazzi arrivano da noi con la convinzione che devono subito lavorare, fare soldi, mandarli a casa, perché da casa hanno pagato una quota non indifferente per farli arrivare in Italia. Quando poi invece arrivano e vedono che non è facile subito trovare lavoro, perché sono minori, devono stare nelle comunità e fare tutto il percorso, allora tanti preferiscono non farlo e scappano finendo per strada".
Non perdere mai la speranza
La rete che sostiene gli interventi del progetto “M’interesso di te” è composta da educatori di strada, psicologi e volontari che garantiscono subito a ciascun ragazzo intercettato, sostegno e protezione. In una seconda fase, offrono loro la possibilità di seguire un corso di lingua italiana, di ricevere assistenza legale per l’iter di riconoscimento come rifugiati, di imparare un mestiere e di inserirsi nel mondo del lavoro.
Solo 1 su 10 dei ragazzi contattati compie fino in fondo questo percorso, ma don D’Andrea non perde mai la speranza che anche per ciascuno degli altri possa maturare col tempo qualcosa di buono. "Don Bosco - afferma - diceva che 'in ogni ragazzo c’è un punto accessibile al bene, anche nel più disgraziato'. E il compito di noi educatori è trovare questa corda per farla vibrare. Questo lo si fa se ti sforzi ogni volta di metterti in gioco: ogni giorno è un giorno nuovo, e quindi anche la speranza che la grazia di Dio possa toccare il loro cuore".

OTTOBRE. MESE DELL'EDUCAZIONE FINANZIARIA

Si svolgerà dal 1° al 31 ottobre la prima edizione del “Mese dell’Educazione finanziaria”, il progetto di sensibilizzazione a una gestione sostenibile del denaro promosso dal Comitato per la programmazione e il coordinamento delle attività di educazione finanziaria diretto dall’economista Annamaria Lusardi, al quale partecipa anche il Miur. Sono previsti eventi e manifestazioni in tutta Italia e da ora è possibile proporre iniziative da inserire nel già ricco programma del mese.

Eventi al via il 1° ottobre
Il Mese dell’Educazione Finanziaria, spiega il Miur in una nota, punta a informare sui comportamenti corretti nella gestione e programmazione delle risorse personali e familiari, con l’obiettivo di garantire il benessere economico attraverso l’utilizzo appropriato di strumenti finanziari, assicurativi e previdenziali. Il programma si aprirà con con la “World Investor Week” e terminerà il 31 ottobre, giornata mondiale del risparmio. Già in calendario in diverse città (Roma, Milano, Firenze, Torino) iniziative che comprendono convegni, incontri, seminari. Previsti anche diversi webinar.

Appello a presentare proposte
Il Comitato invita tutti i soggetti interessati a prendere parte all’iniziativa e a programmare iniziative «coerenti con l’obiettivo di migliorare l’educazione finanziaria dei cittadini». L’adesione al “Mese”, spiega Viale Trastevere, consente di utilizzare il logo della manifestazione e di comparire nella promozione su scala nazionale, così da garantire agli organizzatori di singole iniziative una maggiore visibilità e favorire l’efficacia delle azioni attraverso il coordinamento con altri soggetti.
Sul sito www.quellocheconta.gov.it si trovano tutte le informazioni utili per proporre iniziative da includere nel programma.

da Il Sole 24 Ore




IMMIGRATI E DELINQUENZA. LE FAKE NEWS

Tempo fa Il Giornale pubblicava un pezzo carico di enfasi («Tenetevi forte» era l’incipit) per affermare che «i migranti delinquono di più». Come spesso accade quando si parla di immigrazione, si affrontava un tema complesso in modo troppo semplificatorio. Nel testo viene citato uno studio della Fondazione Hume curato dal sociologo Luca Ricolfi, ma i dati – senza contesto – possono avere significati diversi.
 
Per esempio: «Dal 2006 al 2015 gli immigrati imputati sono cresciuti del 22%». Ma nello stesso periodo il numero di residenti stranieri è cresciuto molto di più: da 2,7 a 5 milioni, ovvero dell’88%. Ancora, parlando dell’aumento delle violenze sessuali dal triennio 1995-1997 al 2013-15, «il boom è degli imputati immigrati – riporta il quotidiano – che sono passati da 317 a 1050», ovvero sono triplicati; ebbene, dal 1995 al 2015 i residenti stranieri sono cresciuti di circa sette volte, passando da meno di 700 mila a 5 milioni.
 
Ecco allora che il trend storico rivela una conclusione molto diversa dall’articolo: l’incidenza degli imputati stranieri sul totale dei residenti stranieri è andata diminuendo nel tempo. Se proprio si volesse stabilire un nesso causale tra immigrazione e reati, bisognerebbe sostenere che l’aumento degli stranieri degli ultimi anni coincide con una generale diminuzione dei reati.
 
Dal 2007 al 2015, mentre gli stranieri passavano da 3 a 5 milioni, tutti i principali indicatori con cui misuriamo la criminalità sono diminuiti: le denunce di delitti, cioè dei reati più gravi, secondo l’Istat sono scese da 2,9 milioni a 2,6. Mentre il numero di furti è rimasto praticamente invariato, sono diminuiti gli omicidi (fonte: ministero dell’Interno), mai così pochi dall’Unità d’Italia, le rapine e le violenze sessuali.
 
Inoltre, secondo il Viminale, dal 2004 al 2014 le denunce per reati con autori noti – circa la metà – sono cresciute del 34,3% contro gli stranieri (a fronte di un aumento del 147,3% degli stranieri in Italia) e del 40% contro gli italiani (a fronte di una leggera diminuzione dei residenti italiani). Rimane il dato sull’alta presenza di stranieri nelle carceri.
 
Spiega Paolo Pinotti, coordinatore della Fondazione De Benedetti e docente di Economia alla Bocconi: «Riflette anche il minor accesso degli stranieri agli istituti alternativi alla detenzione, come gli arresti domiciliari. In particolare, tali opzioni sono sostanzialmente precluse agli stranieri irregolari».
 
In questo senso, per il docente dell’Università milanese «è sostanzialmente incorretto affermare che non c'è spazio per discriminazioni né da parte dei giudici né delle forze dell'ordine, come sostiene lo studio di Solivetti, perché le statistiche non possono essere messe in discussione». Pinotti cita un dato del 2011: «Il 30,7% degli italiani condannati a pene detentive ha beneficiato di misure alternative, mentre per gli immigrati questa percentuale scende al 12,7%.
 
Questo perché spesso gli immigrati spesso non soddisfano le condizioni richieste per le misure alternative al carcere, come avere un lavoro regolare, un domicilio, una famiglia in grado di ospitare l'individuo». Accedere o meno a questa possibilità può determinare il futuro: secondo l’Osservatorio delle misure alternative del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, nel 2007 la recidiva di chi espiava tutta la pena in prigione era oltre tre volte superiore a quella di chi scontava la condanna con misure alternative alla detenzione: il 68,5% nel primo caso, il 19% nel secondo.
 
Inoltre va considerato che gli stranieri hanno una condizione socioeconomica mediamente più bassa: pagarsi un buon avvocato o avere quello di ufficio fa, in alcuni casi, la differenza. È la stessa ragione per cui, negli Stati Uniti, i poveri e gli afroamericani sono in percentuale particolarmente alta tra i condannati a morte.
 
L’articolo del Giornale si conclude affermando: «Chi non si integra socialmente ed economicamente ha più probabilità di ricorrere al crimine». Questo è vero e infatti da qui occorre partire per una seria riflessione sul tema. Lo fa uno studio della Bocconi sul rapporto tra permessi di soggiorno e propensione a commettere reati, coordinato da Pinotti e pubblicato sulla prestigiosa American economic review.
 
Spiega il professore: «Gli stranieri che ottengono il permesso di soggiorno sono del 50% in meno propensi a commettere reati economici gravi (furti, rapine, spaccio) rispetto a chi non ha potuto mettersi in regola». Per il Viminale, infatti, gli stranieri regolari hanno dati di criminalità in linea con gli italiani, mentre crescono drasticamente tra chi è senza permesso. Gli irregolari sono stimati il 20% degli stranieri in Italia, ma sono protagonisti dell’80% dei reati economici commessi da stranieri.
 
Che fare dunque? Le ricerche sono molto chiare: «Quando ottengono i documenti, gli stranieri assumono comportamenti molto più virtuosi. Potersi inserire regolarmente nel mercato del lavoro - per cui è necessario il permesso - fa da deterrente a invischiarsi in situazioni criminose. Il problema è, appunto, ottenere i documenti».
 
Dal 1998 il Governo stabilisce, con il Decreto flussi, ogni anno quanti permessi per motivi di lavoro possono essere concessi. Negli ultimi anni i numeri si sono ridotti, quasi azzerando la possibilità di ottenere permessi per lavoro. Nel dicembre 2007 la procedura è stata per la prima volta online: i datori di lavoro potevano cliccare la domanda dalle 8 di mattina.
 
I permessi avrebbero dovuto essere assegnati a stranieri residenti all'estero, ma tutti sanno che in realtà il click day ha legalizzato chi già era in Italia senza documenti. Spiega Pinotti: «Funzionava un po’ come una lotteria, il criterio di accettazione era casuale: chi prima arriva, meglio alloggia. Pochi minuti hanno fatto la differenza, dato che furono accolte le domande arrivate prima delle 8.27, legalizzando 170mila stranieri su 610mila irregolari in Italia».
 
La Bocconi ha analizzato i reati commessi dagli immigrati che hanno inviato la domanda immediatamente prima del taglio e da coloro che l’hanno inviata subito dopo le 8.27, quindi individui molto simili. «Per i reati economici – continua il docente – la criminalità degli immigrati legalizzati si è dimezzata nel corso dell'anno successivo, mentre il tasso di criminalità di chi non ce l’ha fatta è rimasto invariato.
 
Non cambiano le caratteristiche dei due gruppi, ma ricevere il permesso di soggiorno abbassa la propensione a commettere crimini, che sono sostituti imperfetti di attività economiche legali». Tra l’altro, molte delle domande si basavano su lavori falsi, cioè “fittizi” e strumentali al click day. Eppure la propensione ai reati economici si dimezza anche in questo caso: avere l'accesso al mercato del lavoro legale è sufficiente per innescare il cambiamento, anche se l'immigrato legalizzato non ha realmente un lavoro.
 
La tesi che spinge per la regolarizzazione è al centro di un altro lavoro di Pinotti insieme al collega Giovanni Mastrobuoni, che nel 2016 è aggiudicato il premio dell’American Economic Association. Racconta: «Abbiamo studiato i dati dell’indulto dell’agosto 2006, che ha rilasciato 22mila detenuti dalle carceri italiane (10mila dei quali stranieri).
 
Nel gennaio 2007 l’allargamento dell’Ue dava a rumeni e bulgari lo status di regolari, inclusi coloro che uscivano dalle prigioni. L’anno successivo il tasso di recidiva dei rumeni e bulgari (tutti regolarizzati) è risultato la metà di quello degli altri stranieri rilasciati dopo lo stesso indulto». Del resto, ciò che dicono le ricerche scientifiche è anche scritto nella nostra storia.
 
Negli anni Cinquanta i giudici minorili svizzeri aprirono un pacato dibattito sull’esagerato coinvolgimento dei minori italiani in procedimenti penali; ci si chiese se non vi fosse una propensione culturale della popolazione italiana al furto, un’idea avvalorata a quei tempi da molta letteratura europea. Il dibattito si esaurì man mano che gli italiani immigrati in Svizzera diventavano gelatai e aprivano pizzerie, attività per cui era necessario avere il permesso di soggiorno.
 
Insomma, “tenetevi forte”… Regolarizzare gli immigrati dimezza il tasso di criminalità.
  
Stefano Pasta

  
(articolo tratto da www.famigliacristiana.it)