I pilastri della democrazia alla prova
di Luigino Bruni
Esiste una amicizia naturale
tra l’Italia e il Bene comune, questa espressione che sentiamo
risuonare, che sta nel cuore della Dottrina sociale della Chiesa, che
il cardinale Bassetti ha usato ieri nel suo appello alle forze politiche
e sociali in questo momento gravemente critico per l’Italia, ma che
tanti magari fanno fatica a intendere. Ma questa amicizia naturale tra
l’Italia e il Bene comune c’è davvero.
Siamo la patria di Tommaso d’Aquino, e siamo anche la terra della
tradizione della “Pubblica felicità”, il nome che l’economia moderna
prese in Italia nel Settecento. Mentre gli americani avevano messo al
centro del loro umanesimo il diritto individuale alla “Ricerca della
felicità” ( Pursuit of happiness) e gli inglesi sceglievano “La ricchezza delle nazioni” ( Wealth of Nations), noi italiani mettevamo al centro del programma della modernità la natura pubblica della felicità. In quella espressione ci sono tante cose preziose, oggi più attuali di ieri.
Innanzitutto, essa ci dice che la dimensione più importante della
nostra felicità è un qualcosa di pubblico, di condiviso, da cui
dipendono anche i suoi aspetti individuali. Quando viene minacciata la
pace o si incrina la concordia civile, anche le ordinarie private
felicità di ciascuno di noi entrano in crisi e si abbuiano – lo stiamo
vedendo in questi giorni. Oggi gli studi empirici sulla felicità ci
dicono che la maggior parte dei beni dai quali dipende la felicità
individuale sono beni pubblici e beni comuni: il lavoro, la sicurezza,
la vita famigliare, l’amicizia, l’inquinamento, il traffico, l’ambiente,
la fiducia nelle istituzioni (e molto meno da: divani, tv, telefonini,
case comode o automobili). Ciò che chiamiamo felicità dipende, dunque,
in piccola parte da noi, e moltissimo dagli altri.
Per comprendere cosa sia il Bene comune, per una volta ci viene in aiuto l’economia, in particolare la “teoria dei beni comuni” ( commons).
I beni comuni sono quei beni che usiamo insieme (parchi, atmosfera,
oceani, la terra …). Il Bene comune (con la B maiuscola) può anche
essere visto e compreso come una particolare specie di bene comune (con
la b minuscola).
La
scienza economica conosce la cosiddetta tragedia dei beni comuni, da cui
emerge un messaggio chiaro e impegnativo: se ciascuno degli
utilizzatori di un bene comune (un pascolo in montagna, un parco,
l’ozono nell’atmosfera, un’impresa…) è animato soltanto dalla ricerca
del proprio interesse privato, il bene comune viene distrutto, sebbene
nessuno dei soggetti lo volesse. Per
conservare e custodire un bene comune, invece, tra le persone deve
scattare una logica diversa, che qualcuno chiama “logica del noi”, e
così far diventare quel “bene di nessuno” un “bene di tutti”. Salviamo i
beni comuni e il Bene comune quando riusciamo a vedere un valore più
grande degli interessi privati, e una volta che abbiano visto riusciamo a
decidere di fermarci, per esempio a fermarci prima che l’erba del
pascolo finisca. Ma – e sta qui il problema – durante le crisi è proprio
la consapevolezza del “noi” che scompare, perché gli “io” diventano
talmente ipertrofici da impedire di vedere il “noi”. Così l’erba del
pascolo finisce, tutti stanno peggio, e non resta nulla per nessuno, né
per oggi né per domani. E non si torna indietro (è molto difficile
ricostituire un bene comune), perché si sono distrutte le relazioni di
fiducia su cui si basava il buon uso di quel bene comune.
Il Bene comune, ancora più radicalmente dei beni comuni, è un bene
fatto di rapporti, è una forma speciale di bene relazionale, perché sono
le relazioni tra le persone a costituire il bene. Nel Bene comune non
accade come nelle merci, dove anche se litighiamo con il fornaio
possiamo sempre mangiare quel pane che ci ha venduto. Perché quando si
spezzano le relazioni, non resta più niente da “mangiare”, e il Bene
comune si trasforma in male comune. Come succede nell’amicizia e in famiglia: quando si litiga durante la cena, passa l’appetito e si chiude lo stomaco.
Peppone e Don Camillo sono un vero mito fondativo del nostro Paese,
perché la concorrenza politica tra di loro era fondata su una concordia
civile più profonda. Erano diversissimi, ma prima, e a un livello più
vero, erano uguali, perché erano cittadini, perché erano umani. E così
bisticciavano, si sfottevano, ma poi andavano insieme a difendere
Brescello quando il grande fiume rischiava di esondare. Le comunità e
gli Stati capaci di futuro sono quelli dove si è stati capaci di
coltivare e custodire una amicizia civile che fonda e sostiene le
competizioni economiche e politiche, quell’amicizia civile che
l’illuminismo ha voluto chiamare fraternità. Quando l’amicizia civile si spezza, i popoli declinano, e si resta in balìa dei grandi fiumi della finanza e dei poteri forti.
Anche le istituzioni, nazionali e internazionali, anche l’Unione
Europea, sono forme di beni comuni, sottoposti alla possibilità della
tragedia, e quindi a essere distrutti, se ciascuno agisce solo per
curare quelli che gli appaiono come i propri interessi. Le generazioni
passate erano più capaci di vedere le ragioni del “noi” sottostanti a
quelle degli “io”, anche per le esperienze ancora molto vive dei grandi
dolori generati dall’assolutizzazione degli interessi di parte.
Noi dobbiamo reimparare, e farlo presto, a vedere il Bene comune e le sue ragioni diverse.
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