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giovedì 31 maggio 2018

IL BENE COMUNE? VA VISTO E VA SALVATO

GOVERNO,  CONCORDIA CIVILE E  SENSO DELL’INTERESSE POPOLARE
I pilastri della democrazia alla prova

di Luigino Bruni

           Esiste una amicizia naturale tra l’Italia e il Bene comune, questa espressione che sentiamo risuonare, che sta nel cuore della Dottrina sociale della Chiesa, che il cardinale Bassetti ha usato ieri nel suo appello alle forze politiche e sociali in questo momento gravemente critico per l’Italia, ma che tanti magari fanno fatica a intendere. Ma questa amicizia naturale tra l’Italia e il Bene comune c’è davvero.
        Siamo la patria di Tommaso d’Aquino, e siamo anche la terra della tradizione della “Pubblica felicità”, il nome che l’economia moderna prese in Italia nel Settecento. Mentre gli americani avevano messo al centro del loro umanesimo il diritto individuale alla “Ricerca della felicità” ( Pursuit of happiness) e gli inglesi sceglievano “La ricchezza delle nazioni” ( Wealth of Nations), noi italiani mettevamo al centro del programma della modernità la natura pubblica della felicità. In quella espressione ci sono tante cose preziose, oggi più attuali di ieri.
            Innanzitutto, essa ci dice che la dimensione più importante della nostra felicità è un qualcosa di pubblico, di condiviso, da cui dipendono anche i suoi aspetti individuali. Quando viene minacciata la pace o si incrina la concordia civile, anche le ordinarie private felicità di ciascuno di noi entrano in crisi e si abbuiano – lo stiamo vedendo in questi giorni. Oggi gli studi empirici sulla felicità ci dicono che la maggior parte dei beni dai quali dipende la felicità individuale sono beni pubblici e beni comuni: il lavoro, la sicurezza, la vita famigliare, l’amicizia, l’inquinamento, il traffico, l’ambiente, la fiducia nelle istituzioni (e molto meno da: divani, tv, telefonini, case comode o automobili). Ciò che chiamiamo felicità dipende, dunque, in piccola parte da noi, e moltissimo dagli altri.
         Per comprendere cosa sia il Bene comune, per una volta ci viene in aiuto l’economia, in particolare la “teoria dei beni comuni” ( commons). I beni comuni sono quei beni che usiamo insieme (parchi, atmosfera, oceani, la terra …). Il Bene comune (con la B maiuscola) può anche essere visto e compreso come una particolare specie di bene comune (con la b minuscola).
        La scienza economica conosce la cosiddetta tragedia dei beni comuni, da cui emerge un messaggio chiaro e impegnativo: se ciascuno degli utilizzatori di un bene comune (un pascolo in montagna, un parco, l’ozono nell’atmosfera, un’impresa…) è animato soltanto dalla ricerca del proprio interesse privato, il bene comune viene distrutto, sebbene nessuno dei soggetti lo volesse. Per conservare e custodire un bene comune, invece, tra le persone deve scattare una logica diversa, che qualcuno chiama “logica del noi”, e così far diventare quel “bene di nessuno” un “bene di tutti”. Salviamo i beni comuni e il Bene comune quando riusciamo a vedere un valore più grande degli interessi privati, e una volta che abbiano visto riusciamo a decidere di fermarci, per esempio a fermarci prima che l’erba del pascolo finisca. Ma – e sta qui il problema – durante le crisi è proprio la consapevolezza del “noi” che scompare, perché gli “io” diventano talmente ipertrofici da impedire di vedere il “noi”. Così l’erba del pascolo finisce, tutti stanno peggio, e non resta nulla per nessuno, né per oggi né per domani. E non si torna indietro (è molto difficile ricostituire un bene comune), perché si sono distrutte le relazioni di fiducia su cui si basava il buon uso di quel bene comune.
         Il Bene comune, ancora più radicalmente dei beni comuni, è un bene fatto di rapporti, è una forma speciale di bene relazionale, perché sono le relazioni tra le persone a costituire il bene. Nel Bene comune non accade come nelle merci, dove anche se litighiamo con il fornaio possiamo sempre mangiare quel pane che ci ha venduto. Perché quando si spezzano le relazioni, non resta più niente da “mangiare”, e il Bene comune si trasforma in male comune. Come succede nell’amicizia e in famiglia: quando si litiga durante la cena, passa l’appetito e si chiude lo stomaco.
       Peppone e Don Camillo sono un vero mito fondativo del nostro Paese, perché la concorrenza politica tra di loro era fondata su una concordia civile più profonda. Erano diversissimi, ma prima, e a un livello più vero, erano uguali, perché erano cittadini, perché erano umani. E così bisticciavano, si sfottevano, ma poi andavano insieme a difendere Brescello quando il grande fiume rischiava di esondare. Le comunità e gli Stati capaci di futuro sono quelli dove si è stati capaci di coltivare e custodire una amicizia civile che fonda e sostiene le competizioni economiche e politiche, quell’amicizia civile che l’illuminismo ha voluto chiamare fraternità. Quando l’amicizia civile si spezza, i popoli declinano, e si resta in balìa dei grandi fiumi della finanza e dei poteri forti.
        Anche le istituzioni, nazionali e internazionali, anche l’Unione Europea, sono forme di beni comuni, sottoposti alla possibilità della tragedia, e quindi a essere distrutti, se ciascuno agisce solo per curare quelli che gli appaiono come i propri interessi. Le generazioni passate erano più capaci di vedere le ragioni del “noi” sottostanti a quelle degli “io”, anche per le esperienze ancora molto vive dei grandi dolori generati dall’assolutizzazione degli interessi di parte.
         Noi dobbiamo reimparare, e farlo presto, a vedere il Bene comune e le sue ragioni diverse.

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GIOVANI a SCUOLA, PER MATURARE IN CITTADINANZA

 GLI ITALIANI PIÙ ESIGENTI DEI COETANEI EUROPEI
I nostri ragazzi si mostrano disillusi rispetto a un sistema scolastico che non sembra attrezzarli come chiedono per il futuro professionale e l’impegno civile Una ricerca comparativa con Francia, Germania, Regno Unito e Spagna

di Pier Paolo Triani
Né pessimisti, né catastrofisti, ma neppure completamente soddisfatti; piuttosto attenti valutatori dell’esperienza che hanno vissuto e portatori di istanze di rinnovamento. Così appaiono nei confronti della scuola i 1.000 giovani italiani (dai 18 ai 34 anni di età) intervistati all’interno di una indagine, confluita nel Rapporto Giovani 2018 realizzato dall’Istituto Giuseppe Toniolo, che ha visto coinvolti complessivamente 5.000 giovani di cinque Paesi europei (Italia, Spagna, Francia, Germania, Regno Unito).
Di fronte alla domanda «A che cosa serve la scuola?» i giovani europei intervistati, e tra loro gli italiani, hanno restituito nelle loro risposte quel carattere di polifunzionalità che è uno dei tratti tipici dei sistemi scolastici contemporanei. La maggior parte dei giovani riconosce innanzitutto alla scuola la funzione di accrescere e potenziare il bagaglio delle conoscenze e delle abilità personali, che risulta al primo posto tra i giovani di tutti e cinque i Paesi coinvolti nelle indagini. Sono stati soprattutto quelli del Regno Unito, nell’84,7%, a dichiararsi d’accordo con l’affermazione che la scuola serve ad aumentare le conoscenze e le abilità personali. Seguono poi gli spagnoli (82,4%), i tedeschi (80,6%), i francesi (80,2%) e gli italiani (77,7%), che dunque risultano certamente convinti ma più prudenti dei loro coetanei europei nel riconoscere al sistema scolastico la capacità di istruire. Un’alta percentuale di riscontri ha avuto anche l’affermazione che la scuola serve a imparare a ragionare, che ha visto d’accordo mediamente più del 72% dei giovani, ma con distanze maggiori tra i diversi Paesi. Sono innanzitutto i tedeschi (79,2%) a riconoscere alla scuola questa funzione, seguiti da italiani (75,1%), francesi (73,7%) e spagnoli (73,2%).
Più bassa invece al riguardo è risultata la percentuale dei giovani britannici (63,7%).
L a terza funzione che ha trovato ampia accoglienza nei giovani intervistati è quella socializzante. Che la scuola serva per imparare a stare con gli altri è riconosciuto dal 76,3% dei giovani francesi, dal 74,1% dei britannici, dal 73,4% degli italiani. Meno numerose, anche se sempre oltre il 60%, le risposte positive dei giovani spagnoli (66,8%) e dei tedeschi (63,5%). Minore rilevanza, anche se nella maggior parte dei casi con percentuali di accordo superiore al 60%, è data al fatto che la scuola possa servire a formare cittadini consapevoli e a capire le proprie attitudini. Più debole, anche se riconosciuto da almeno il 50% dei giovani intervistati, il ruolo giocato dalla scuola per accrescere nelle persone la capacità di saper affrontare la vita. Sono soprattutto i giovani del Regno Unito (62,3%) a essere d’accordo con l’affermazione che la scuola serva a saper affrontare la vita, mentre è molto più bassa al riguardo la percentuale degli spagnoli (47,4%) ma anche quella degli italiani (52,2%).
Le differenze più forti si hanno tuttavia in merito al rapporto tra scuola e mondo del lavoro. In questo caso le risposte riflettono la diversa conformazione dei sistemi scolastici. Se infatti secondo il 74,7% dei giovani tedeschi intervistati la scuola serve per trovare più facilmente lavoro, sono d’accordo su questo aspetto il 59,2% dei giovani del Regno Unito, il 58,5% dei francesi, il 49,2% degli spagnoli e solo il 44,5% degli italiani. Pochi sono anche i giovani del nostro Paese (29,7%) che ritengono che il sistema scolastico serva per capire come funziona il mondo del lavoro, leggermente più convinti risultano i francesi (37,4%), più ottimisti al riguardano sono invece gli spagnoli (44,7%), i tedeschi (49,4%) e soprattutto quelli del Regno Unito (54,3%).
I giovani italiani dunque giudicano ancora distanti la scuola e la realtà lavorativa, un risultato che sembra in linea con quanto raccolto dall’indagine svolta per il Rapporto Giovani 2017 che aveva messo chiaramente in luce la richiesta di un legame più stretto tra la scuola secondaria di secondo grado italiana e il mondo del lavoro. Tra gli italiani intervistati, inoltre, il 13,8% si è trovato d’accordo con l’affermazione che la scuola non serva a nulla; solo i giovani del Regno Unito sono risultati al riguardo più numerosi (18,3%), mentre la più bassa percentuale di accordo si è avuta tra i tedeschi (11,9%).
S e alto è il numero dei giovani che riconosce alla scuola di svolgere positivamente una pluralità di funzioni sociali e formative, altrettanto rilevante appare la percentuale di coloro che si dichiarano favorevoli al rinnovamento dei sistemi scolastici su diversi punti. Tra i giovani europei, sono gli italiani e gli spagnoli quelli che presentano maggiori istanze di cambiamento. Per quanto riguarda il nostro Paese il 62% si dichiara favorevole all’aumento attività laboratoriali; il 61,4% è d’accordo con l’aumento dell’uso delle nuove tecnologie; il 58,6 % con la crescita delle ore di lingue straniere, il 58,4% con l’incremento delle ore di stage e tirocinio nelle attività lavorative.
La richiesta che sembra riscontrare maggiori consensi trasversali tra i cinque Paesi coinvolti nell’indagine è quella di dare la possibilità agli studenti di scegliere alcune discipline piuttosto che altre. Sono, anche in questo caso, soprattutto i giovani italiani a chiederlo (62,2%) seguiti dal 58,5% degli spagnoli, il 55,4% dei francesi, il 59,2% dei tedeschi e il 47,8 dei giovani del Regno Unito. I giovani nel loro complesso, ma con una prevalenza di quelli italiani e spagnoli, chiedono una scuola più flessibile e più ricca di proposte formative.
Sembrano avere le idee chiare su cosa vorrebbero ma sono molto meno propensi a riconoscere cosa andrebbe tolto per non caricare il sistema scolastico di troppe attese e richieste. Per fare un esempio: se, come abbiamo visto, oltre il 60% dei giovani italiani è favorevole all’aumento delle ore di attività laboratoriale, il 62,7% ritiene che dovrebbero restare comunque invariate le ore di lezione frontale. Quelli dei giovani sembrano dunque essere auspici, che spetta però al livello delle decisioni politiche ascoltare e raccogliere, nella consapevolezza che occorre dare priorità e operare scelte.
Un rinnovamento i giovani lo chiedono anche ai docenti, verso i quali, come hanno rilevato altre indagini dell’Istituto Toniolo, nutrono un buon tasso di fiducia, nonostante le cronache sembrino dirci il contrario. Secondo la maggioranza dei giovani intervistati, compresi gli italiani, negli insegnanti sono abbastanza o molto diffusi il possesso sicuro dei contenuti che vengono insegnati, le competenze inerenti la conduzione dell’azione didattica e la capacità di sapersi relazionare con la classe. In generale però i giovani italiani sono risultati i più severi nei confronti della valutazione delle competenze presenti nei propri insegnanti rispetto ai coetanei europei. In particolare solo il 37,6% dei nostri giovani (contro il 53% dei francesi) ritiene che gli insegnanti posseggano abbastanza o molta competenza nel motivare allo studio, e solo il 39,9% (contro il 51,9% dei tedeschi) ritiene che gli insegnanti dispongano della competenza per coinvolgere gli studenti con lezioni motivanti. Sotto il 50% (47,3%) il parere positivo dei giovani italiani verso la presenza nei docenti della competenza di relazionarsi con gli alunni in difficoltà.
Anche in questo caso accogliere quanto i giovani esprimono può far nascere piste di lavoro significative.
*Professore associato di Didattica generale e Pedagogia speciale Facoltà di Scienze della Formazione - Università Cattolica
www.Avvenire.it

sabato 26 maggio 2018

LA BELLEZZA ... COS'È'? DOV'È'?

È la verità a rendere sacra la bellezza 

In origine la bellezza era un’esperienza religiosa, non estetica


Professor Givone [docente di Estetica all’Università degli Studi di Firenze], cosa vuol dire parlare della bellezza e di una sua natura in un mondo tanto estetizzato? In che senso si può dire attuale questo tema?
          «Sarei tentato di rispondere con una battuta: questo tema è attuale proprio perché inattuale. Mi spiego. Oggi il concetto di bello appare terribilmente inflazionato. Qualsiasi cosa facciamo, la facciamo in nome del bello. Solo ciò che è bello (non ciò che è utile) è degno di essere comprato, solo chi è bello (non chi è bravo) è degno di essere ammirato: ecco la nuova fede condivisa, ammesso che la si possa chiamare così. Infatti non ci crediamo.
          Eppure continuiamo a lasciarci abbagliare dal bello, come se ci credessimo. Insomma, ci riempiamo gli occhi e la bocca di una parola di cui abbiamo completamente perso di vista il significato. La prima cosa da fare allora è interrogarsi su questo stato di cose. Chiedendosi per esempio: il bello è inganno, seduzione, o non piuttosto qualche cos'altro? Magari qualcosa che un tempo illuminava le nostre vite e oggi invece le oscura?».
  
Sin dalle prime testimonianze della civiltà assistiamo a una tensione umana verso la bellezza. Come la storia del pensiero ha interpretato il significato e le radici del bello?
          «In origine il bello era un’esperienza religiosa, non un’esperienza estetica. Aveva a che fare con la realtà, non con l’apparenza. Si presentava come un’illuminazione, una rivelazione, una vera e propria teofania, tanto che verità e bellezza erano tutt’uno. Noi facciamo fatica a ricuperare quello sguardo alto e quella sensibilità. Ma se siamo pronti a riconoscere che il bello è seducente e ingannevole, non possiamo non ammettere che bellezza e verità sono indissolubilmente legate. Come potrebbe ingannarci, la bellezza, se non fosse in rapporto con la verità a un livello più profondo?».
  
Dall’epoca moderna è stato stravolto il paradigma armonioso di bellezza, in cosa si è caratterizzata questa rivoluzione di pensiero? Quali sono state le conseguenze più importanti anche sulla nostra percezione contemporanea di bellezza?
        «È accaduto in epoca romantica che una nuova categoria facesse irruzione nel mondo del pensiero e ne stravolgesse tutti i paradigmi. Questa nuova categoria è l’infinito. Il bello ha cessato di colpo di essere definito in termini di armonia, proporzione, perfezione - tutti termini che rimandano a qualcosa di compiuto e finito - ed è stato identificato con l’ineffabile, con la dismisura, con il terribile (“Il bello non è che l’inizio del terribile”, dirà Rilke). Tanto che il bello lascerà il campo a forme di esperienza estetica che ne prescindono o lo mettono da parte. Il dibattito sul bello e sul sublime, fra Sette e Ottocento, è il primo passo va verso il superamento del bello. Che è poi dimenticanza di ciò che il bello è veramente».
  
Nella crisi d’identità della società contemporanea e di fronte a espressioni artistiche avanguardistiche si parla spesso di un’impossibilità artistica nell’offrire bellezza al pubblico. È vero? Qual è il significato profondo di questa nuova stagione che stiamo vivendo?
        «Ecco, io non credo a questa supposta impossibilità da parte dell’arte contemporanea di offrirci bellezza. Credo invece che, avendo noi dimenticato che cosa sia il bello, ed essendoci piegati a un uso anzi un abuso del bello per finalità puramente economiche, bene faccia l’arte a ripudiare questa caricatura di bellezza.
        Come per tacito accordo (ma non sarà un patto scellerato?) sembra che a tutti stia bene che il bello serva a vendere meglio le merci di ogni tipo e a consumare il consumabile. È rimasta l’arte a opporsi alla bellezza, questa bellezza maledetta, tanto da metterne al bando perfino il nome. Qui sì io vedo un gesto necessario, ma necessario come lo è il bisogno di purificazione. Non è detto che attraverso questa specie di ascesi l’arte non ritrovi alla fine il senso profondo di ciò da cui si è sentita tradita» [...].

 Gabriele Laffranchi

venerdì 25 maggio 2018

CHIEDI PURE IN GIRO - Vangelo della domenica della SS Trinità

CHIEDI PURE IN GIRO, INFORMATI, 

SPARGI LA VOCE.


di Paolo Curtaz

Tutti hanno un’idea di Dio. per crederci, o per rifiutarlo.
Alcuni fingono di non pensarci, altri lo accusano delle storture che viviamo continuamente.
Altri lo pregano e lo invocano.
Chiedi in giro, però.
Mai si è sentito dire di un Dio che si è scelto un popolo, che lo ha stanato, salvato, seguito, che lo ha fatto uscire dalla schiavitù. Chiedi se sia mai successo che un Dio abbia indicato ad un popolo il segreto della felicità. Che gli abbia consegnato la mappa per cercarla. Chiedi pure.
Così l’autore del Deuteronomio, stupito, ripensa all’esperienza di Israele, il popolo di nomadi che si è visto scegliere fra le nazioni per diventare sentinella, per raccontare ad ogni uomo chi è veramente Dio.
Non un Dio qualunque.
Non una delle proiezioni delle nostre paure, dei nostri bisogni inconsci, non il garante dell’ordine costituito.
Un Dio che parla, che dice, che si racconta.
Il nostro Dio.


Dal Vangelo secondo Matteo  Mt 28,16-20
In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.
Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono.
Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

Leggi il COMMENTO

LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI - Nuovo regolamento da oggi

Dal 25 maggio 2018 acquistano efficacia le disposizioni di diritto europeo sulla protezione dei dati (Regolamento UE 2016/679) ed è abrogato il vigente Codice in materia (decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196).
La nuova disciplina (GDPR – General Data Protection Regulation), a partire da tale data, è rappresentata principalmente dalle disposizioni del Regolamento, immediatamente applicabili e da quelle recate dallo schema di decreto legislativo (in attuazione dell’art. 13 della legge di delegazione europea 2016-2017 – legge 25 ottobre 2017, n. 163), approvato in esame preliminare dal CdM il 21 marzo 2018, volte ad armonizzare l’ordinamento interno al nuovo quadro normativo dell’Unione Europea in tema di tutela della privacy.

giovedì 24 maggio 2018

GIOVANI VOLONTARI, ALTRUISTI E PRONTI A FARSI DONO PER IL PROSSIMO E PER IL BENE COMUNE


L’ALTRUISMO 
DEI «MILLENNIALS» 
OLTRE I PREGIUDIZI

Il volontariato dei giovani liquidi 
ma aperti al dono

Il mondo del volontariato rappresenta ancora oggi uno dei volti più vivi e dinamici della società civile italiana.
La galassia composita di associazioni, cooperative sociali, comitati, fondazioni ed enti religiosi dove ogni giorno centinaia di migliaia di cittadini prestano gratuitamente la loro opera ha fatto da argine all’onda d’urto della crisi dell’ultimo decennio, contribuendo a mantenere la coesione in un contesto di forte crescita dei problemi e delle tensioni sociali. Ma le attuali generazioni di giovani che spazio occupano in questa galassia? Per i Millennials il volontariato è ancora un valore? Se lo è, quanto e in che modo è praticato? Spesso gli adulti liquidano queste domande con discorsi preconfezionati e generalizzati sull’indifferenza dei giovani per le questioni riguardanti il bene comune, la loro superficialità e irresponsabilità, la loro tendenza a isolarsi nei luoghi del consumo, la loro mancanza di determinazione e impegno anche per quanto riguarda la sfera del sociale. In realtà le indagini multiscopo dell’Istat sulla vita quotidiana degli italiani mostrano come i livelli di partecipazione dei giovani under 30 siano aumentati tra il 1995 e il 2015 e non siano particolarmente differenti da quelli delle coorti più anziane.
I dati del Rapporto giovani, l’indagine periodica svolta dall’Istituto Toniolo, confermano che il volontariato è una realtà tenuta in grande considerazione anche dai Millennials. Nel 2017 è tra le uniche istituzioni, insieme alla ricerca scientifica e agli ospedali, ad avere raggiunto la sufficienza nella scala della fiducia. A breve distanza, ma già ampiamente sotto la soglia della sufficienza, si collocano le piccole imprese, le forze dell’ordine, le scuole e l’università, istituzioni percepite come più vicine alla vita quotidiana e ai bisogni delle persone, a differenza di istituzioni politiche, sindacati e banche che sono agli ultimi posti. Passando dall’attribuzione di valore all’impegno sul campo i dati più recenti mostrano un’evoluzione della partecipazione da parte dei 18-30enni ad attività di volontariato tra luci e ombre. La buona notizia è che diminuisce drasticamente la quota di giovani che non hanno mai fatto esperienze di volontariato, dal 64,8% del 2013 al 55,2% del 2017. Cresce anche la percentuale di chi ha avuto esperienze di volontariato in passato (21,6% nella prima rilevazione e 34,6% nell’ultima). C’è quindi una maggiore familiarità e contiguità dei giovani con questo tipo di attività. Tuttavia diminuiscono anche quelli che hanno dichiarato di essere impegnati al momento dell’intervista: erano il 13,6% nel 2013 e sono diventati il 10,2% nel 2017. Di questi ultimi sono più i giovani attivi saltuariamente (5,5%) rispetto a quelli coinvolti in modo continuativo (4 ,8 %).
L e esperienze di volontariato sono dunque più comuni oggi tra i giovani ma, al tempo stesso, si fanno più discontinue e occasionali: una fluidità della partecipazione che, da un lato, risente dell’andamento non lineare dei percorsi scolastico-lavorativi e della maggiore mobilità dei giovani. Dall’altro lato, questi comportamenti riflettono un approccio diverso, più centrato sul valore in sé del dono, sulla dimensione relazionale dello scambio, sul riscontro tangibile e immediato del proprio impegno. L’appartenenza a un’organizzazione e il senso del dovere non sono leve motivazionali sufficienti per mobilitare l’impegno e da sole non ne garantiscono la continuità. Almeno nel volontariato sono i giovani a non ambire a un 'posto fisso' in un’organizzazione ma a seguire e cercare opportunità maggiormente gratificanti, ingaggianti e significative.
I dati raccolti dal «Rapporto giovani» permettono anche di gettare una luce sul modo attraverso il quale famiglia e scuola contribuiscono o meno a indirizzare i giovani verso il volontariato.
In primo luogo mostrano come la famiglia, mediando tra la persona e il contesto socioculturale, gioca un ruolo importante nella formazione di un atteggiamento prosociale e nel favorire il primo ingresso in circuiti sociali di impegno e partecipazione. Al di là dell’appartenenza di classe sociale e del background familiare, è la qualità delle relazioni familiari che può fare la differenza. Là dove la famiglia promuove un clima positivo, connotato da supporto e apertura, si generano più frequentemente tra i suoi membri comportamenti solidali che possono essere trasferiti nel contesto esterno; viceversa, dove prevalgono genitori intrusivi e la famiglia viene percepita come una prigione, o come uno spazio neutro di coabitazione di individui, allora la spinta propulsiva verso il sociale perde di slancio e intensità.
A nche la scuola esercita un’influenza tangibile sulle chance dei giovani di vivere esperienze di volontariato.
Sempre secondo i dati del Toniolo, i giovani tra 18 e 33 anni che nel 2016 non hanno mai svolto volontariato sono il 69% di quelli con licenza media e il 68,3% dei qualificati. La percentuale scende al 58,7% tra coloro che hanno concluso gli studi con il diploma di scuola superiore e al 48,2% nei laureati. Anche tra coloro che attualmente svolgono esperienze di volontariato in modo continuativo sono di più i laureati (5,9%) e i diplomati (5,2%) dei giovani con licenza media (4,2%) e di quelli con qualifiche professionali (2,5%).
Se è un fatto che la famiglia e la scuola rappresentano, insieme al gruppo dei pari, i contesti relazionali primari all’interno dei quali i giovani maturano atteggiamenti prosociali ed entrano in contatto con realtà ed esperienze di volontariato questo non significa che non si possano e non si debbano incentivare altri canali di accesso e di coinvolgimento. Il rischio altrimenti è che si perpetui anche in questo ambito un meccanismo di iniquità che fa sì che abbiano accesso a mondi vitali arricchenti e umanizzanti soprattutto coloro che sono nati in contesti che dispongono di una forte dotazione di capitale sociale e culturale. Diventano allora importanti tutte quelle esperienze e occasioni che, a partire dalle associazioni e dalle realtà del terzo settore, gettano dei ponti e accettano la sfida di attivare e coinvolgere nuovi giovani a prescindere dalle loro esperienze e appartenenze pregresse.
Un esempio virtuoso, da questo punto di vista, è il servizio civile nazionale: un’attività istituzionalmente promossa dallo Stato e dalle Regioni rivolta ai giovani, temporanea, mirante a promuovere in svariati modi l’impegno sociale a favore di cerchie differenti di beneficiari a fronte di un corrispettivo economico. Ogni anno decine di migliaia di giovani, molti dei quali senza esperienze pregresse di volontariato, scelgono di aderire ai progetti proposti da enti pubblici e privati nei più disparati ambiti di servizio: dalla cultura all’assistenza, alla tutela dell’ambiente all’educazione. I n una delle ultime rilevazioni del rapporto è stato chiesto ai giovani cosa ne pensassero del nuovo servizio civile universale, istituto che subentrerà a quello attuale ampliando gli ambiti di intervento e le possibilità di coinvolgimento.
Sebbene sia stato appurato che i giovani conoscono poco il servizio civile universale, ne emerge una rappresentazione coerente con le ricerche sinora condotte riguardanti il servizio civile nazionale: il 95% lo ritiene uno strumento molto o abbastanza importante per esprimere i valori della solidarietà, il 90% ritiene che aiuti a rafforzare il senso di appartenenza alla comunità, una percentuale analoga ritiene che sia utile per arricchire conoscenze e competenze utili per la vita sociale e lavorativa. L’esempio positivo del servizio civile consente di mettere in luce alcune caratteristiche vincenti per qualsiasi iniziativa volta a coinvolgere i giovani in attività prosociali: l’esistenza di una progettualità mirata all’inserimento dei nuovi arrivati nel contesto preesistente, la presenza di figure di riferimento che dedicano tempo all’accompagnamento dei giovani, la durata temporanea, l’attivazione di dispositivi e metodologie di formazione mirati. La presenza di giovani volontari in determinate associazioni, cooperative, parrocchie non è frutto del caso ma della capacità e dell’impegno profuso dalle stesse nel fare spazio al proprio interno ai giovani, ed è un’importante cartina al tornasole della capacità di queste organizzazioni di essere attori generativi.
*Professore di Sociologia della Famiglia e dell’Infanzia Università Cattolica, Brescia
da www.Avvenire.it

IL SERVICE LEARNING? UNA RISORSA PER TUTTI, DALLA SCUOLA DELL'INFANZIA ALL'UNIVERSITÀ'


Esperienze di Service Learning

Il Service Learning è una proposta pedagogica che unisce il Service (la cittadinanza, le azioni solidali e il volontariato per la comunità) e il Learning (l’acquisizione di competenze professionali, metodologiche, sociali e soprattutto didattiche), affinché gli allievi possano sviluppare le proprie conoscenze e competenze attraverso un servizio solidale alla comunità.  
L’elemento innovativo di questa proposta sta nel collegare strettamente il servizio all’apprendimento in una sola attività educativa articolata e coerente. La sua implementazione consente simultaneamente di imparare e di agire e, in questo senso, si presenta come una pedagogia capace di migliorare l’apprendimento e, al tempo stesso, potenziare i valori della cittadinanza attiva.  
Di seguito alcune esperienze di Service Learning, selezionate fra quelle condotte dalla Scuola di Alta Formazione. Per facilitarne la diffusione, ogni scheda è corredata da indicazioni pratiche.
 ESPERIENZE DI SERVICE LEARNING NELLA SCUOLA DELL' INFANZIA
 ESPERIENZE DI SERVICE LEARNING NELLA SCUOLA PRIMARIA
 ESPERIENZE DI SERVICE LEARNING NELLA SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO GRADO
 ESPERIENZE DI SERVICE LEARNING NELLA SCUOLA SECONDARIA DI SECONDO GRADO
 ESPERIENZE DI SERVICE LEARNING NELL'UNIVERSITÀ


ORADEA - Romania - FORMAZIONE INSEGNANTI

 L'AIMC PARTECIPA
 ALLE INIZIATIVE 
DI FORMAZIONE INSEGNANTI DI ORADEA
ORGANIZZATE 
DALLA DIOCESI DI ORADEA
 IN COLLABORAZIONE CON L'UMEC-WUCT

Si inizia un percorso comune di interazione tra l'AIMC e le scuole di Oradea

    Dal 3 al 5 maggio 2018 si è tenuto ad Oradea, in Romania, un Simposio – organizzato insieme all’Unione Mondiale degli Insegnanti Cattolici (UMEC-WUCT) - cui abbiamo partecipato come rappresentanti dell’AIMC e in qualità di relatori sul tema: “Educazione, spiritualità, tradizione e modernità per l’Alternativa Educazionale Step by Step nella scuola elementare”.
L’evento è stato inserito nel contesto di tre ricorrenze: il Centenario dell’Unione della Romania, il Venticinquesimo della fondazione della scuola elementare e il Ventesimo dell’adozione del sistema alternativo passo-passo nelle classi primarie.
     Il 2 maggio il Vicario Episcopale, padre Paul Popa, ci ha accolto all’aeroporto di Budapest e ci ha accompagnato in macchina a Oradea, curando la nostra logistica e l’organizzazione per tutto il periodo di permanenza.

    Il 3 maggio nella splendida piazza dell’Unità di Oradea, in stile liberty, definita la più bella piazza della Romania, gli alunni della Scuola Primaria hanno realizzato un flash mob che ha rappresentato in rosso i numeri 100, 25 e 20 per esaltare l’importanza dei tre eventi da ricordare, in una festosa cornice di pubblico. Nell’occasione abbiamo conosciuto Monica Nica, la Direttrice del Liceo greco-cattolico “Iuliu Maniu”, responsabile della gestione di sezioni e classi di scuola materna, primaria e secondaria, dislocate  in quattro sedi, finalizzate  alla formazione intellettuale e spirituale degli studenti.


martedì 22 maggio 2018

23 MAGGIO - INSIEME PER NON DIMENTICARE. L'ESEMPIO DEL CORAGGIO, IL VALORE DELLA MEMORIA

Il 23 maggio si celebra l’anniversario della morte di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, del giudice Francesca Morvillo, moglie di Falcone, e degli uomini delle loro scorte Rocco Dicillo, Vito Schifani, Antonio Montinaro, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Agostino Catalano.


Il XXVI anniversario delle stragi di Capaci e via D’Amelio dedicato agli uomini e donne delle scorte “angeli” di Falcone e Borsellino
È nel nome degli ‘angeli’ del passato e del presente, degli uomini e delle donne delle scorte che hanno rischiato e rischiano quotidianamente la vita per proteggere servitori dello Stato come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che quest’anno si commemora il XXVI anniversario delle stragi di Capaci e di via D’Amelio in cui persero la vita i giudici Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti delle loro scorte Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Rocco Dicillo, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Antonio Montinaro, Vito Schifani, Claudio Traina. La manifestazione si svolge sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica e con il Patrocinio del Senato della Repubblica.

Oltre 70.000 ragazze e ragazzi saranno coinvolti il prossimo 23 maggio in tutta Italia nelle iniziative di #PalermoChiamaItalia promosse dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e dalla Fondazione Falcone. Iniziative che nel corso degli anni, a partire dal 2002, si sono arricchite di importanti contributi grazie agli accordi firmati con l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), la Procura Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), l’Associazione Nazionale Magistrati (ANM), consentendo di portare nelle scuole esperti e attività didattiche mirate alla diffusione della cultura del rispetto e della legalità.
Anche quest’anno il cammino verso la consapevolezza dell’importanza di una cittadinanza attiva e responsabile culminerà il 23 maggio a Palermo. Nel giorno dell’anniversario della strage di Capaci migliaia di studentesse e studenti delle scuole e delle università ricorderanno il sacrificio dei servitori dello Stato morti per mano criminale. Le celebrazioni istituzionali si terranno nell’Aula Bunker dell’Ucciardone, luogo simbolo del Maxiprocesso a Cosa Nostra. Sono previste, poi, attività nelle piazze e nelle scuole della città. A Palermo ci saranno le studentesse e gli studenti siciliani, ma anche gli oltre mille ragazze e ragazzi che arriveranno, la mattina del 23 maggio, con la Nave della Legalità che salperà il pomeriggio del giorno prima dal porto di Civitavecchia, alla presenza del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. 
A bordo della Nave studentesse e studenti troveranno anche un “equipaggio” speciale composto da 50 giovani dell’Università degli Studi di Milano accompagnati dal loro docente, il professore Nando Dalla Chiesa, che parteciperanno a momenti di riflessione e attività sul tema della lotta alla criminalità organizzata. Il Prefetto Filippo Dispenza, vertice della struttura che assiste i familiari delle vittime di mafia e terrorismo della Polizia di Stato, illustrerà alle studentesse e agli studenti progetti sul tema della legalità. Sulla nave dibatterà con le ragazze e i ragazzi anche Claudia Loi, sorella di Emanuela Loi, agente della scorta di Borsellino. Il viaggio è reso possibile grazie alla collaborazione con Grandi Navi Veloci (GNV), società del Gruppo MSC, che mette a disposizione una delle sue navi.
Il “no” alle mafie verrà rilanciato il 23 maggio in 10 Regioni (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Lombardia, Puglia, Toscana e Umbria) da migliaia di studentesse e studenti in una sorta di “staffetta” a distanza. A coordinare le attività nelle città coinvolte saranno gli Uffici Scolastici Regionali.
“Il 23 maggio e il 19 luglio, date delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, sono anniversari importanti del nostro calendario civile – dichiara la Ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Valeria Fedeli – in cui ricordiamo donne e uomini che hanno perso la vita a causa del potere mafioso, mentre con profondo senso del dovere servivano lo Stato. Celebrare queste date è importante per rammentare a tutte e tutti noi come sia cambiata la vita civile e democratica del Paese dopo quella primavera e quell’estate del 1992. Farlo con le nuove generazioni è imprescindibile: ogni anno migliaia di studentesse e studenti, pur non avendo avuto esperienza diretta di quei terribili anni che hanno insanguinato l’Italia, mostrano apertura, curiosità, interesse, protagonismo e responsabilità e raccolgono la chiamata di Palermo a mostrare la loro opposizione alle mafie – a tutte le mafie – e alla criminalità organizzata. Queste giovani e questi giovani che, attraverso la scuola, diventano cittadine e cittadini attivi e consapevoli sono il miglior modo per onorare la memoria di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e dei loro ‘angeli’, le loro scorte, per non disperdere i loro insegnamenti e il valore del loro impegno, per proseguire la loro battaglia per la legalità, la democrazia e la libertà”.
“Quest’anno dedichiamo la ricorrenza del 23 maggio agli agenti di scorta caduti negli attentati di Capaci e via D’Amelio – spiega la presidente della Fondazione Falcone, Maria Falcone -. Giovanissimi, spesso poco più che ragazzi, hanno questo in comune: erano uomini e donne dello Stato morti per aver fatto con coscienza il loro lavoro, così duro e pericoloso, fondamentale nella lotta alla mafia. Rocco Dicillo, Vito Schifani, Antonio Montinaro, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli e Agostino Catalano – gli ‘angeli delle scorte’, come amiamo chiamarli – sono da tutti noi ricordati per quel grande senso del dovere che li accomuna a Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino. È questo l’insegnamento che viene dal loro sacrificio: l’antimafia, quella vera, esige che ciascuno agisca, quotidianamente, con onestà e onore. Il loro esempio è un monito per tutti noi, adulti e giovani, perché nessuno può considerarsi esente da questo imperativo morale”.
La commemorazione onorerà tutte le donne e tutti gli uomini delle Forze dell’Ordine che hanno sacrificato la vita nella lotta alle mafie. Questo anche attraverso la speciale collaborazione fra il MIUR, la Fondazione Falcone e la Polizia di Stato che nei mesi scorsi hanno bandito due concorsi dedicati agli “Angeli custodi: l’esempio del coraggio, il valore della memoria” per le scuole d’Italia e quelle di Palermo e provincia.
“La vera battaglia contro la Mafia non è solo combattere contro un’organizzazione criminale particolarmente pervasiva. È la battaglia per riaffermare i nostri diritti e le nostre libertà – afferma Franco Gabrielli, capo della Polizia – perché a volte pensiamo che i diritti e le libertà possano essere limitati soltanto da un oppressore straniero o da un’occupazione armata, ma ci sono forme di dipendenza e di soggezione molto più subdole e molto più invasive ma non per questo meno preoccupanti per la democrazia. Credo che il modo migliore per ricordare chi è morto nel nome di questi ideali e per questi valori, perché erano dei grandi giudici e dei grandi poliziotti, sia quello di avere coscienza di tutto questo”.

venerdì 18 maggio 2018

L'AUTONOMIA SCOLASTICA, FONDAMENTO PER IL SUCCESSO FORMATIVO DI OGNI ALUNNO

  

MIUR 


        L'educazione e l'istruzione sono diritti fondamentali dell'uomo e presupposti indispensabili per la realizzazione personale di ciascuno. Essi rappresentano lo strumento prioritario per superare l'ineguaglianza sostanziale e assicurare l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione. È evidente che in questo periodo storico, colmo di criticità, contraddizioni ma anche di grandi opportunità, convivono enormi differenze culturali, sociali ed economiche per ciò che concerne le possibilità di benessere e di qualità della vita. ln tale contesto, il sistema educativo e di istruzione rappresenta il fulcro dello sviluppo sia della persona che della comunità; il suo compito è quello di consentire a ciascuno di sviluppare pienamente il proprio talento e di realizzare le proprie potenzialità.
Per questo la scuola è il luogo dove il diritto all'educazione e all'istruzione diventano dovere e responsabilità per la cittadinanza attiva. La scuola del nuovo millennio tiene conto di due dimensioni equamente importanti: da una parte, la cura e il dovere di riconoscere l'unicità delle persone e rispettarne l'originalità e, dall'altra, la capacità di progettare percorsi educativi e d'istruzione personalizzati nell'ambito del contesto classe, in un delicato equilibrio fra persona e gruppo, in una dinamica che si arricchisce dei rapporti reciproci e della capacità di convivenza e rispetto civile, Laddove l'istituzione scolastica perde di vista la persona per il sistema, o viceversa, rischia di divenire uno "(...) strumento di differenziazione sempre più irrimediabile "
Il Regolamento dell'Autonomia scolastica, D.P.R. 8 marzo 1999, n. 275, all'articolo 4 descrive le scuote come le istituzioni che concretizzano gli obiettivi nazionali in percorsi formativi funzionali alla realizzazione del diritto ad apprendere e alla crescita educativa di tutti gli alunni, riconoscono e valorizzano le diversità, promuovono le potenzialità di ciascuno adottando tutte le iniziative utili al raggiungimento del successo formativo".
            Anche la Legge 13 luglio 2015, n. 107 e i successivi decreti legislativi rafforzano ulteriormente l'autonomia scolastica "(...) per garantire il diritto allo studio, le pari opportunità di successo formativo" 3 nonché il riconoscimento e la valorizzazione dei talenti di ognuno. Tale finalità costituisce l'obiettivo principale del sistema scuola del nostro Paese. Nello svolgimento di questa funzione, te istituzioni scolastiche ......