È la verità a rendere sacra la bellezzaIn origine la bellezza era un’esperienza religiosa, non estetica
Professor Givone
[docente di Estetica all’Università degli Studi di Firenze], cosa vuol
dire parlare della bellezza e di una sua natura in un mondo tanto
estetizzato? In che senso si può dire attuale questo tema?
«Sarei tentato di
rispondere con una battuta: questo tema è attuale proprio perché
inattuale. Mi spiego. Oggi il concetto di bello appare terribilmente
inflazionato. Qualsiasi cosa facciamo, la facciamo in nome del bello.
Solo ciò che è bello (non ciò che è utile) è degno di essere comprato,
solo chi è bello (non chi è bravo) è degno di essere ammirato: ecco la
nuova fede condivisa, ammesso che la si possa chiamare così. Infatti non
ci crediamo.
Eppure continuiamo a
lasciarci abbagliare dal bello, come se ci credessimo. Insomma, ci
riempiamo gli occhi e la bocca di una parola di cui abbiamo
completamente perso di vista il significato. La prima cosa da fare
allora è interrogarsi su questo stato di cose. Chiedendosi per esempio:
il bello è inganno, seduzione, o non piuttosto qualche cos'altro? Magari
qualcosa che un tempo illuminava le nostre vite e oggi invece le
oscura?».
Sin dalle prime
testimonianze della civiltà assistiamo a una tensione umana verso la
bellezza. Come la storia del pensiero ha interpretato il significato e
le radici del bello?
«In origine il bello era
un’esperienza religiosa, non un’esperienza estetica. Aveva a che fare
con la realtà, non con l’apparenza. Si presentava come un’illuminazione,
una rivelazione, una vera e propria teofania, tanto che verità e
bellezza erano tutt’uno. Noi facciamo fatica a ricuperare quello sguardo
alto e quella sensibilità. Ma se siamo pronti a riconoscere che il
bello è seducente e ingannevole, non possiamo non ammettere che bellezza
e verità sono indissolubilmente legate. Come potrebbe ingannarci, la
bellezza, se non fosse in rapporto con la verità a un livello più
profondo?».
Dall’epoca moderna è
stato stravolto il paradigma armonioso di bellezza, in cosa si è
caratterizzata questa rivoluzione di pensiero? Quali sono state le
conseguenze più importanti anche sulla nostra percezione contemporanea
di bellezza?
«È accaduto in epoca
romantica che una nuova categoria facesse irruzione nel mondo del
pensiero e ne stravolgesse tutti i paradigmi. Questa nuova categoria è
l’infinito. Il bello ha cessato di colpo di essere definito in termini
di armonia, proporzione, perfezione - tutti termini che rimandano a
qualcosa di compiuto e finito - ed è stato identificato con
l’ineffabile, con la dismisura, con il terribile (“Il bello non è che
l’inizio del terribile”, dirà Rilke). Tanto che il bello lascerà il
campo a forme di esperienza estetica che ne prescindono o lo mettono da
parte. Il dibattito sul bello e sul sublime, fra Sette e Ottocento, è il
primo passo va verso il superamento del bello. Che è poi
dimenticanza di ciò che il bello è veramente».
Nella crisi
d’identità della società contemporanea e di fronte a espressioni
artistiche avanguardistiche si parla spesso di un’impossibilità
artistica nell’offrire bellezza al pubblico. È vero? Qual è il
significato profondo di questa nuova stagione che stiamo vivendo?
«Ecco, io non credo a
questa supposta impossibilità da parte dell’arte contemporanea di
offrirci bellezza. Credo invece che, avendo noi dimenticato che cosa sia
il bello, ed essendoci piegati a un uso anzi un abuso del bello per
finalità puramente economiche, bene faccia l’arte a ripudiare questa
caricatura di bellezza.
Come per tacito accordo (ma
non sarà un patto scellerato?) sembra che a tutti stia bene che il
bello serva a vendere meglio le merci di ogni tipo e a consumare il
consumabile. È rimasta l’arte a opporsi alla bellezza, questa bellezza
maledetta, tanto da metterne al bando perfino il nome. Qui sì io vedo un
gesto necessario, ma necessario come lo è il bisogno di purificazione.
Non è detto che attraverso questa specie di ascesi l’arte non ritrovi
alla fine il senso profondo di ciò da cui si è sentita tradita» [...].
Gabriele Laffranchi |
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