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di Eleonora
Alberti
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Prima
dei manuali e dei social, le immagini spiegavano come vivere in società
Per
molti secoli l’arte non è stata soltanto un medium tecnico e/o
estetico da ammirare, bensì un mezzo di comunicazione essenziale,
quale strumento educativo e un linguaggio condiviso.
In un mondo in cui la maggior parte delle persone era analfabeta e dunque non
sapeva leggere, le immagini avevano il compito di spiegare come ci si doveva
comportare, cosa era giusto desiderare e cosa evitare.
Guardare
un’opera non significava imparare in modo astratto, ma piuttosto attraverso
esempi visivi, emozioni riconoscibili e storie facili da ricordare. L’arte
funzionava come un manuale di morale aperto a tutti i ceti
sociali.
Già Giotto (1267-1337)
lo aveva capito con straordinaria lucidità. Nella Cappella degli
Scrovegni (1303-1305) a Padova i suoi affreschi non si
limitano a raccontare episodi della vita di Cristo e di Maria, ma mostrano
reazioni umane: il dolore composto, il tradimento, la compassione. Le figure
piangono, si abbracciano, si voltano. Lo spettatore non osserva da lontano, ma
si riconosce in quelle emozioni. L’insegnamento passa attraverso l’empatia:
capire cosa è giusto significa anche sentire cosa si prova.
Poco
più tardi, Ambrogio Lorenzetti (1290-1348) realizza nel
Palazzo Pubblico di Siena il ciclo del Buon Governo e del
Cattivo Governo (1338-1339). Qui l’arte entra direttamente
nella vita civile. Le immagini mostrano una città ordinata,
prospera e sicura quando la giustizia guida il potere, e una città in rovina
quando domina la corruzione. Non servono testi complessi: l’immagine spiega
tutto. È un’educazione politica visiva, pensata per chi governa ma anche
per chi è governato.
Nel
Rinascimento, l’arte sviluppa un altro potente strumento educativo: l’allegoria.
Concetti astratti diventano figure riconoscibili. Nella Primavera (1480)
di Botticelli (1445-1510), la Grazia, la Castità e l’Armonia non sono
idee vaghe, ma corpi, gesti, movimenti. L’opera suggerisce un modello di
equilibrio morale e sociale, un’idea di bellezza legata alla misura e alla
convivenza ordinata. Anche senza comprenderne ogni riferimento filosofico, lo
spettatore coglie un messaggio chiaro: esiste un modo “giusto” di stare
al mondo.
Con
il tempo, questa funzione educativa non scompare ma si trasforma. Nei secoli
successivi, opere come I proverbi fiamminghi (1559) di
Pieter Bruegel il Vecchio (1525-1569) mostrano comportamenti umani
attraverso scene quotidiane e spesso ironiche. L’osservatore riconosce vizi,
errori e assurdità della vita comune. L’arte non impone più solo un
modello ideale, ma invita a riflettere su sé stessi attraverso il riconoscimento.
Dalle
immagini del passato a quelle di oggi
Se
ci fermiamo a guardare, il meccanismo non è poi così distante da quello che
viviamo oggi. Anche nel presente impariamo molto senza rendercene conto,
attraverso immagini che scorrono davanti ai nostri occhi ogni giorno. Video
brevi, post, storie, contenuti educativi o motivazionali
costruiscono modelli di comportamento, di successo, di accettabilità sociale.
Come
gli affreschi medievali o le allegorie rinascimentali, anche queste immagini
non spiegano con regole scritte. Mostrano esempi, ripetono schemi, premiano
atteggiamenti. Cambia il mezzo, ma non il potere formativo
dell’immagine.
Capire
che l’arte del passato insegnava come comportarsi ci aiuta a leggere con più
consapevolezza il presente. Le immagini non sono mai neutre.
Educano, influenzano, modellano.
Forse la differenza più grande non è tra ieri e oggi, ma nel nostro livello di attenzione. Un tempo sapevamo che quelle immagini servivano a educare. Oggi spesso dimentichiamo di chiederci cosa ci stanno insegnando e, per questo, le immagini stesse vengono depauperate del loro valore educativo.
Ogni immagine educa. La vera domanda è: a cosa?
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