è la caricatura
della pace
Tutto
è bene quel che finisce bene
È
quasi scomparsa dalle prime pagine dei giornali e dai notiziari televisivi
italiani la tragedia della Palestina. E anche l’opinione pubblica – che aveva
espresso la sua indignazione con manifestazioni di un’imponenza mai vista da
molti anni – sembra essersela ormai lasciata alle spalle.
Effetto
dell’entrata in vigore del piano di pace con cui Donald Trump ha mancato per un
pelo il premio Nobel e ha comunque ricevuto un incondizionato plauso
internazionale, fino ad essere paragonato a Ciro il Grande, “strumento di Dio”
nella liberazione degli ebrei.
Le
scene trionfali della firma del trattato, a Sharm el-Sheikh, al cospetto
di più di venti presidenti e primi ministri di tutta l’Europa e dei paesi
arabi, hanno assunto agli occhi del mondo il significato di una felice
conclusione del dramma umanitario che aveva sempre più inquietato le
coscienze e messo in difficoltà i governi.
Anche
la grande maggioranza degli opinionisti, che aveva tenacemente difeso il
diritto di Israele di difendersi, cominciava ad essere a disagio, di fronte
agli scenari di massacri e devastazioni trasmessi ogni giorno in diretta (a
costo spesso della loro vita) dai giornalisti palestinesi. Anche loro perciò
hanno potuto tirare un sospiro di sollievo, inneggiando al piano di pace come
alla giusta soluzione che chiudeva finalmente la questione, dando a ciascuno
ciò che gli spettava.
A
confermare questa percezione è venuta l’approvazione, da parte del Consiglio di
Sicurezza dell’ONU, il 17 novembre scorso, della risoluzione che, sulla linea
del piano Trump, affida per due anni al presidente americano il controllo
della Striscia attraverso un organismo, il “Consiglio di pace”, i cui membri
saranno scelti direttamente dallo stesso presidente.
Il
merito che è stato unanimemente attribuito al presidente degli Stati Uniti è
stato quello di aver finalmente messo fine a uno spargimento di sangue che
durava da due anni. Molti hanno parlato di un miracolo, di cui Trump sarebbe
stato l’autore con la sua proposta di pace che nessuno fino ad allora
aveva provato a fare.
Qualche
perplessità controcorrente
In
questo clima di beatificazione del Tychoon, quasi nessuno si è azzardato a far
notare che questo primato dipendeva dal fatto che il massacro in corso a Gaza
era sostenuto, politicamente e militarmente, dagli Stati Uniti e che
perciò solo il presidente americano era in grado di
fermare Netanyahu. Cosicché sarebbe stato legittimo, se mai,
chiedersi perché lo avesse fatto solo ora, a prezzo della vita di migliaia di
innocenti.
Così
come nessuno o quasi si è posto il problema della consistenza di una pace
siglata sulla testa di un popolo rigorosamente escluso dalle trattative, anche
nella sua rappresentanza legittima, quell’Autorità Nazionale Palestinese
che da tempo riconosce lo Stato ebraico (senza esserne ricambiata).
Perché
– come ci si è ricordati invece davanti all’analogo piano di pace americano per
l’Ucraina – non basta, per una vera pace, che essa faccia cessare la guerra, ma
è necessario che sia giusta.
Per
questo motivo gli stessi governi e gli stessi giornalisti che avevano salutato
con entusiasmo la fine delle stragi a Gaza senza porsi altre domande,
hanno invece ritenuto irricevibile l’ultima proposta di Trump, sia perché non
rispettosa del popolo ucraino, sia perché non concordata con i suoi legittimi
rappresentanti. Confermando ancora una volta il doppio standard della
diplomazia occidentale, e in particolare di quella europea, nei confronti di
questi due conflitti.
Un’illusione
ottica
Resta
il fatto che la crisi di Gaza è data ormai per risolta, anche se resta
qualche pendenza da risolvere nella cosiddetta “fase due”, e l’attenzione del
mondo si concentra adesso esclusivamente su quella ucraina.
In
realtà, siamo davanti a una di quelle illusioni ottiche che l’apparato
mediatico, al servizio di precisi interessi politici, è capace di generare
a livello pubblico. Anche se alcune voci isolate si sono levate per
smascherarla. Come quella Lorenzo Kamel, professore di Storia
Internazionale all’Università di Torino e adjunct professor alla Luiss School
of Government che, dopo la risoluzione dell’ONU, ha parlato di «un grande
giorno per Netanyahu, Hamas e Trump», e di «un brutto giorno per la sicurezza a
lungo termine dello Stato di Israele, per l’autodeterminazione palestinese e
più in generale anche per le tante persone perbene che ci sono nel nostro
mondo».
Perché
è vero che con questa pretesa pace i morti innocenti sono molto diminuiti. Ma
questo è stato pagato con la discesa del sipario sulle condizioni disastrose di
un popolo di più di due milioni di gazawi le cui case, i cui ospedali, le cui
moschee sono stati sistematicamente rasi al suolo dall’esercito israeliano e
che continua a dipendere dall’arbitrio mutevole dei suoi oppressori per quanto
riguarda l’apertura o meno dei valichi attraverso cui dovrebbero arrivare
i rifornimenti di viveri.
Per
due anni sono stati trattati come un gregge di bestie da Israele, che li ha
deportati da un luogo all’altro a suo piacimento, sradicandoli dai luoghi
dove vivevano e privandoli di ogni punto di riferimento. Ora sono abbandonati,
ancora come bestie, nello spaventoso non-luogo a cui Gaza è stata ridotta.
La
tragedia è ora ulteriormente accentuata dalle condizioni atmosferiche e dalle
alluvioni. Uomini, donne, bambini guazzano nel fango, sotto tendoni
improvvisati, alla ricerca di qualcosa da mangiare, nella speranza che
Netanyahu decida di riaprire i valichi. E l’inverno si avvicina sempre di più.
Di
tutto questo nessuno risponde. Un giornalista italiano che si è azzardato a
chiedere in una conferenza stampa se Israele non debba risarcire i danni
causati in questi due anni è stato licenziato dall’agenzia di stampa per cui
lavorava. Ciò che è accaduto in questi due anni e, di cui il disastro attuale è
il risultato, viene ormai cancellato, rimosso. Il radioso futuro aperto con la
pace maschera il disastro del presente
Ma
in realtà anche il futuro è estremamente incerto. Per colpa di Hamas, che
rifiuta di consegnare le armi, ma anche perché la prospettiva del famoso Stato
palestinese, a cui sia il piano Trump che la risoluzione dell’ONU accennano in
modo molto vago e ipotetico, è irremovibilmente esclusa dal governo israeliano,
che precisa di non essere disposto, su questo punto, a cedere a nessuna
pressione. Come ha chiarito recentemente Netanyahu: «La nostra opposizione a
uno Stato palestinese in qualsiasi territorio non è cambiata. Gaza verrà
smobilitata e Hamas disarmata, nel modo più facile o nel modo più difficile.
Non ho bisogno di rinforzi, tweet o prediche da nessuno».
E
il comportamento dell’esercito israeliano, in queste settimane di “pace”,
rimane quello di un’occupazione militare e conferma uno stile di violenza
sistematica verso un popolo che non viene trattato come un possibile partner,
ma come un vinto, a cui non è riconosciuta alcuna dignità umana.
Il
silenzio sulla Cisgiordania
A
rendere ulteriormente problematico il miraggio del futuro Stato palestinese è
la situazione nella West Bank, quella Cisgiordania che secondo la
risoluzione dell’ONU del 1947 dovrebbe costituire insieme a Gaza il territorio
di quello Stato.
Risale
a poche settimane fa l’approvazione da parte del ministro delle Finanze
israeliano Bezalel Smotrich, che è anche responsabile della gestione
civile in Cisgiordania, di un nuovo piano di insediamento – l’ennesimo,
dopo la svolta in questo senso a seguito della guerra dei sei giorni (1967) –
che prevede la costruzione di 3.400 unità abitative per i coloni. La sua
realizzazione, ha spiegato con soddisfazione Smotrich, «seppellirà l’idea
di uno Stato palestinese».
E,
coerentemente con questa logica, si sono sempre più moltiplicate in queste
settimane le violenze dei coloni, che tagliano gli ulivi dei palestinesi, ne
bruciano i raccolti, ne demoliscono le fattorie. Con l’appoggio dell’esercito
israeliano, che ottempera così alla Legge Fondamentale del 2018, che in un suo
articolo dice: «Lo Stato considera lo sviluppo dell’insediamento ebraico come
un valore nazionale, e agirà per incoraggiare e promuovere il suo sviluppo e
consolidamento».
Non
è un caso che il piano di pace di Trump non faccia parola del destino della
Cisgiordania. Con l’evidente intenzione di lasciarlo agli attuali rapporti di
forza, assolutamente sbilanciati a favore degli israeliani. Anche se, per
decenza, la Casa Bianca ha pressato perché venisse annullata la decisione con
cui la Knesset, alla fine di luglio, ha votato a grande maggioranza una mozione
che sancisce l’annessione della Cisgiordania mozione avversata anche dal
premier Netanyahu – che quella annessione la vuole – perché inopportuna in
questo delicato momento. Ma è chiaro a tutti che è solo questione di
tempo.
Ma
è questo il bene di Israele?
Davanti
al quadro che abbiamo delineato non mancherà, ancora una volta, chi griderà
all’antisemitismo. Un’accusa resa ridicola dal fatto che, oltre a un’autorevole
commissione indipendente d’inchiesta dell’ONU, molte personalità ebraiche,
come Anna Foa, e anche israeliane, come David Grossman, hanno denunciato con
forza i crimini di Israele bollandoli chiaramente come genocidio. Essere contro
la politica di Netanyahu e del suo governo non significa avversare gli
ebrei, anzi testimonia la stima e il rispetto nei loro confronti.
E
del resto sono gli stessi ebrei israeliani a manifestare la loro delusione per
quella politica, che alla fine sta danneggiano prima di tutto lo Stato
ebraico.. Sul portale dell’ebraismo italiano «Pagine ebraiche», del 27
novembre scorso, c’è un articolo dal titolo «Un quarto degli
israeliani pensa di lasciare il paese».
«L’indagine,
condotta ad aprile di quest’anno», dice l’articolo, «mostra che il 26% degli
ebrei e il 30% degli arabi israeliani valuta la possibilità di emigrare». E
continua: «Il dato emerge dal rapporto annuale dell’Israel Democracy Institute,
che fotografa uno stato d’animo diffuso (…). Le ragioni del malessere sono:
l’aumento del costo della vita (…) seguito dal timore per il futuro dei figli e
dalla prolungata instabilità della sicurezza nazionale». Il fenomeno riguarda
soprattutto i giovani
La
verità è che questa guerra, scatenata in nome di un messianismo fondamentalista
che vuole rendere più sicuro Israele, ha determinato un clima di violenza e di
odio senza precedenti, creando le premesse per uno strascico di vendette di cui
non si può prevedere la fine. Soprattutto ne ha sfigurato il volto.
A livello internazionale, ma anche agli occhi di molti ebrei della
diaspora e dei suoi stessi cittadini.
E
questa pace, che copre le ferite ma non vuole riconoscerle e meno che mai
curarle, non ne è il superamento, ma il prolungamento permanente, a cui chi ama
la pace vera non può rassegnarsi. Perché, come ha recentemente detto papa
Leone in un suo discorso, «la pace ci chiede, soprattutto, di prendere
posizione. Davanti alle ingiustizie, alle diseguaglianze, dove la dignità umana
è calpestata, dove ai fragili è tolta la parola: prendere posizione».
Se c’è in questo momento una situazione di ingiustizia e di disuguaglianza, in cui la dignità umana è calpestata e ai fragili è tolta la parola, è quella dei palestinesi.
Chiudere gli occhi su tutto questo non promuove la pace, ma
la caricatura della pace.
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