dell’incertezza,
un sapere
che non consola
In
un’epoca di risposte rapide e manuali di benessere, una riflessione sulla
perdita di valore della domanda come spazio del pensiero. Un invito a
riscoprire un’intelligenza di attesa e complessità
- di Giovanni Scarafile
Entrare oggi in una libreria, anche solo per ripararsi dalla pioggia o per ingannare l’attesa di un appuntamento, significa imbattersi in scaffali sempre più affollati di volumi che promettono benessere, equilibrio, chiarezza: manuali di crescita personale, ricettari dell’anima, guide rapide alla realizzazione di sé occupano ormai intere sezioni, come se l’esperienza dell’umano si lasciasse distillare in protocolli replicabili e in formule precostituite. Non si tratta più, in effetti, di orientare una vita nella sua singolarità irriducibile, ma di proporre percorsi di efficientamento psicologico, in cui le emozioni devono trovare una direzione, le fragilità una correzione, le domande una rapida archiviazione.
Questo
stesso paradigma, se lo si osserva negli spazi digitali, assume tratti ancora
più accentuati e talora grotteschi, moltiplicando contenuti motivazionali,
tecniche di automiglioramento, percorsi di crescita rapida che si contendono
l’attenzione di un pubblico sempre più dipendente dalla promessa — tanto
rassicurante quanto illusoria — che tutto sia affrontabile e, soprattutto,
superabile. Ma sotto questa superficie di immediatezza e chiarezza, che sembra
offrire risposte pronte a ogni possibile incertezza, si avverte con crescente
evidenza una tensione silenziosa, una stanchezza non detta, un’inquietudine che
nessuna strategia sembra davvero dissipare: come se la sovrabbondanza di
soluzioni producesse, paradossalmente, un nuovo tipo di solitudine, quella di
chi ha perso familiarità con il tempo lungo dell’attesa.
Siamo
divenuti — senza quasi rendercene conto — collezionisti di risposte, e intanto
smarriamo, con una certa indifferenza, il gesto più originario e fecondo: il
domandare. Ogni esitazione viene trattata come un ritardo da colmare, ogni
incertezza come un’anomalia da correggere, ogni interrogazione come un momento
transitorio da oltrepassare nel più breve tempo possibile. Eppure, non tutte le
domande sono fatte per ricevere risposta; alcune esistono per restare aperte,
per accompagnarci nel tempo e attraverso i mutamenti, per trasformarci nel modo
in cui ci trasformano le attese più vere. Ma il nostro tempo, così intimamente
legato al culto della prestazione, fatica a riconoscere che l’intelligenza non
si misura solo nella rapidità della soluzione, bensì nella capacità di restare
dentro una domanda senza cedere all’impazienza di chiudere.
Tuttavia,
la resistenza a questo tipo di postura non è soltanto culturale o legata
all’egemonia del paradigma tecnico-scientifico: essa affonda le radici in una
forma più sottile di disagio, che rende sempre più difficile tollerare ciò che
non produce immediatamente un risultato tangibile. Chi sceglie di non
rispondere in fretta, chi si sottrae alla coazione a concludere, rischia oggi
di essere percepito come indeciso, inefficiente, persino colpevole. Il
pensatore stesso — colui che abita le domande — viene talvolta ridotto alla
figura di un titubante cronico, di un soggetto incapace di azione, inchiodato a
un’attitudine sterile. Così, si finisce per screditare non soltanto chi non ha
ancora trovato una risposta, ma anche chi ritiene che non tutto debba essere
immediatamente risolto.
In
questa deriva, l’imperativo silenzioso ma pervasivo secondo cui ogni problema —
sia esso esistenziale, relazionale o professionale — dovrebbe poter essere
trattato come una disfunzione da correggere, trova la sua massima espressione
nella colonizzazione tecnico-scientifica della soggettività. Anche le
dimensioni più intime dell’esistenza, come la sofferenza, il desiderio, la
perdita, vengono affrontate mediante strumenti di codifica e ottimizzazione,
con l’effetto collaterale, tutt’altro che secondario, di ridurre la complessità
dell’umano a un insieme di funzioni da regolare. Ma l’esistenza non è un
software difettoso da aggiornare; essa si dà nell’opacità, nella discontinuità,
nella possibilità di non coincidere mai pienamente con se stessi.
In
questo scenario, è forse opportuno riconoscere che una certa responsabilità
appartiene anche a chi fa ricerca e produce sapere: non è del tutto infondata
l’impressione, largamente diffusa nell’immaginario collettivo, che gli studiosi
parlino una lingua separata, spesso impenetrabile, come se la distanza dal
vissuto fosse una garanzia di autorevolezza. È accaduto, talvolta, che il
pensiero si chiudesse in forme di autoreferenzialità che hanno finito per
rafforzare il sospetto che la riflessione sia una pratica astrusa, riservata a
pochi iniziati. Anche per questo, forse, si è aperto lo spazio pubblico dei
divulgatori-sanitari dell’anima, che si propongono come antidoto accessibile a
ciò che viene percepito come un pensiero impraticabile. Ma la semplificazione,
quando si fa sistematica, diventa impoverimento.
Abitare
una domanda non equivale, perciò, a indulgere in un culto dell’indecisione o a
glorificare l’inerzia, quanto piuttosto a riconoscere che alcune forme di
sapere maturano nel tempo, che non tutto è traducibile in metodo, che la verità
stessa non si manifesta se non nella forma dell’attesa, della parola esitante,
della sospensione feconda. Difendere la possibilità della domanda significa
allora anche difendere una temporalità altra, non scandita dal successo o dalla
prestazione, ma da una misura interiore in cui le trasformazioni avvengono
secondo un ritmo che non si lascia pianificare.
In
questo senso, forse, ciò che occorre oggi non è tanto un nuovo sapere, quanto
un nuovo modo di restare: un umanesimo dell’incertezza, che accolga il dubbio
non come un vuoto da riempire, ma come un invito a pensare diversamente, a
sentire diversamente, a lasciarsi attraversare da ciò che non si domina.
Qualche
giorno fa, in una piccola libreria di provincia, ho visto una ragazza sui
vent’anni restare ferma a lungo davanti a uno scaffale. Aveva i capelli
tagliati corti e asimmetrici, un piercing sottile al naso. Teneva in mano un
libro voluminoso, privo di titolo accattivante, senza promesse evidenti né
copertina seduttiva. Non sembrava in cerca di una formula risolutiva, né
appariva preoccupata di trovare conferme o consigli. Leggeva assorta, con
un’espressione quasi di riconoscimento, come se quel libro stesse parlando una
lingua che non sentiva da tempo. Mi sono avvicinato, con discrezione, mosso da
una curiosità che non saprei spiegare: volevo capire cosa la tenesse lì, così
immobile. Non era un manuale, non era un prontuario: era un saggio filosofico.
Dopo qualche minuto, con un gesto quieto e quasi affettuoso, lo ha rimesso al
suo posto, poi è uscita. Forse quella ragazza non cercava una soluzione: stava
solo accompagnando una domanda, in silenzio, per non perderla del tutto.
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