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sabato 28 giugno 2025

TRUMP E IL TEATRO DEL MONDO

 

La diplomazia 
diventa narrazione, 
la politica 
si fa performance
e il discorso pubblico spettacolo


Analisi del ritorno del potere antico della parola 

che crea mondi e sfida la democrazia

 

-         di ANTONIO SPADARO

-          Il mondo vive una situazione caotica che sembra lasciare sempre meno spazio all’analisi e sempre più spazio alle reazioni emotive, specialmente di indignazione. Forse proprio per questo le analisi si moltiplicano. Papa Leone ha spronato a valutare le cause dei conflitti, distinguendo quelle vere e a cercare di superarle, ma anche a rigettare «quelle spurie, frutto di simulazioni emotive e di retorica, smascherandole con decisione». E così ha toccato il punto nodale dei nostri tempi: sulla scena politica internazionale i confini tra politica, spettacolo e narrazione si sono fatti col tempo sempre più labili. Su questo set Donald Trump rifulge quale regista della scena globale, un producer-in-chief che ha trasformato la comunicazione pubblica e la diplomazia internazionale in un vasto palcoscenico. Trump non governa: dirige. Non persuade: performa. Non negozia: racconta. E lo fa con una lingua che, per quanto semplice e immediata, possiede un’indole poetica sorprendente. Trump è «poeta»? Non secondo i canoni accademici, certo, ma nella dimensione primordiale del linguaggio, quella che precede la razionalità e agisce direttamente sull’immaginario collettivo. Un esempio lampante è il suo particolare idiolect — un marchio linguistico personale — polarizzante e immediatamente riconoscibile. Non è tanto ciò che dice, ma come lo dice a renderlo efficace. 

Il Il suo linguaggio non argomenta: risuona. Non spiega: vibra.

La sua efficacia risiede in frasi brevi, ripetizioni, stile diretto. Questa apparente puerilità nasconde invece una sofisticata musicalità ritmica: punchline calibrate, sintassi sincopata, allitterazioni usate come percussioni verbali. Rob Sears, nel suo The Beautiful Poetry of Donald Trump, ha dimostrato come riorganizzando tweet e dichiarazioni emergano versi liberi inconsapevoli, capaci di costruire una grammatica poetica involontaria, fatta di ritmo, anafora e iperbole. E quella di Sears è solo una delle raccolte poetiche trumpiane disponibili sul mercato. Avevo previsto che le azioni Apple sarebbero scese / Costruirò un grande, grande muro / Costruisco edifici alti 94 piani / Le mie mani, sono piccole?

La forza retorica del testo sta proprio nella sua semplicità assertiva: ogni frase è una dichiarazione assoluta, che pretende adesione. Un lettore distratto potrebbe sentirci dentro Allen Ginsberg, per l’intonazione visionaria e la critica sociale. Ma anche gli echi della poesia concettuale contemporanea, da Kenneth Goldsmith a Vanessa Place, dove il ready-made linguistico diventa gesto artistico. Se la forma è poesia, il contenuto è mito. La sua retorica attinge a simboli religiosi e immagini apocalittiche. Trump si presenta come il salvatore di un’America decadente, come colui che ristabilirà un’età dell’oro. È una retorica messianica, potente ma fragile: se la promessa non si realizza, il profeta può trasformarsi in impostore. Nel suo discorso, Trump non cita Dio per sottomettersi a lui ma per sostituirsi a Lui. In questa teologia secolare, il leader diventa il verbo incarnato di una salvezza immediata e concreta. È il linguaggio della sua personalissima «teologia della prosperità».

Trump agisce su due livelli: la forma orale e la sacralità rituale. Il suo lessico è ridotto, tagliato con l’accetta, ma nel suo minimalismo costruisce visioni totali. Parole come always, never, total disaster non sono descrittive: sono sacrali. Sono dogmi gridati su un altare mediatico. Il nemico è demonizzato, l’alleato divinizzato, e ogni evento è tradotto in chiave epica. È una poetica binaria e performativa, che non mira alla comprensione ma alla mobilitazione.

E infatti la politica di Trump è performance. Susan Glasser lo ha descritto come colui che ha realizzato il sogno inespresso di diventare produttore di Broadway: ogni sua mossa è un atto di scena. Ogni ambientazione della sua presidenza — dallo Studio Ovale rivestito d’oro alle cerimonie trasformate in reality — conferma che siamo davanti a una drammaturgia permanente.

La diplomazia, sotto la sua regia, diventa teatro. L’incontro con Volodymyr Zelensky alla Casa Bianca è stato emblematico. Le vecchie regole delle relazioni internazionali svaniscono per lasciar spazio alla costruzione di un racconto potente. Che sia vero o falso non importa: conta che funzioni. Non è un caso che al suo fianco sieda oggi J.D. Vance, autore di Hillbilly Elegy, romanzo di successo che è diventato un film di cassetta. Vance non è un tecnico: è un narratore. Con lui, la Casa Bianca rafforza l’estetica trumpiana: non una sede di governo, ma una centrale narrativa.

Lo stesso schema si è ripetuto con la crisi iraniana. Prima l’attacco, poi il ringraziamento al nemico, poi ancora il dietrofront trasformato in vittoria. Il colpo più micidiale è quello di scena. “MIGA!” — Make Iran Great Again — è slogan, risata e copione futurista dell’orrore.

La guerra si trasforma in un episodio della serie Trump! The Musical.

Il conflitto reale, con le sue vittime, viene marginalizzato. Il dolore si dissolve dietro le luci della ribalta. Il sangue e la strage diventano irrilevanti in questo spettacolo. Mentre lo show si svolge, la realtà resta fuori campo: a Gaza, bambini muoiono in fila per il pane; a Beer Sheva, famiglie israeliane si rifugiano nei bunker. È qui che si manifesta il volto più inquietante del potere come narrazione: il dolore viene escluso dal montaggio. La tragedia è spezzata, resa invisibile. In fondo, l’obiettivo della narrazione dominante è di essere così travolgente da paralizzarti. Ti lascia catatonico, incapace di reagire. Oppure reagisci con indignazione, certo, ma anche quella viene inglobata e neutralizzata. Diventa parte dello stesso sistema narrativo. Per questo dobbiamo trovare nuove narrazioni.

L’unica salvezza possibile sarebbe un atto poetico che si opponga alla finzione, una contronarrazione fondata non sull’effetto ma sulla verità dei fatti. Donald Trump ci mostra, con brutale chiarezza, che la politica contemporanea non può più essere interpretata soltanto attraverso le categorie della razionalità illuminista, della competenza amministrativa o della prassi istituzionale. Il suo successo — che ha resistito a scandali, accuse, processi e sconfitte — dimostra che oggi il potere si esercita innanzitutto sul piano dell’immaginario. E che chi sa dominarlo, chi sa narrarlo con forza mitica e con un’estetica seducente, conquista consensi più duraturi e profondi di chi si limita ad “avere ragione”.

Trump ha portato al parossismo una forma politica che non si rivolge più alla ragione degli elettori, ma al loro inconscio simbolico: paure arcaiche, desideri compressi, bisogni di appartenenza. Ha capito che l’identità non è un dato, ma una narrazione. E ha scelto di scriverla con gli strumenti del teatro, della poesia ritmica, del linguaggio religioso. Ha ridato al discorso politico una funzione sacrale e rituale, facendo di ogni comizio un’esibizione di fede, di ogni gesto un atto liturgico, di ogni nemico un capro espiatorio.

In questo senso, la sua estetica del potere è profondamente regressiva, ma straordinariamente efficace: recupera gli strumenti arcaici della costruzione del mito in un’epoca dominata dai media istantanei. Non importa se ciò che dice sia vero: importa che sembri vero, risuoni come vero, agisca Trump non è tanto un bugiardo, quanto un creatore di realtà narrative, secondo la logica postmoderna in cui la verità è subordinata all’effetto. Il suo linguaggio è un dispositivo performativo, che non descrive il mondo, ma lo costruisce a propria immagine e somiglianza.

La sfida politica del XXI secolo è allora tutta qui: non si tratta solo di combattere con dati, fatti o leggi, ma con forme, visioni, parole che siano capaci di ricostruire un immaginario condiviso. Se la politica è diventata un campo estetico, serve un’estetica alternativa: non quella dell’effetto immediato, ma quella della profondità; non quella della divisione, ma quella della relazione; non quella della semplificazione, ma quella della complessità narrata con chiarezza. Lo aveva capito profeticamente papa Francesco quando scrisse: «in questo tempo di crisi dell’ordine mondia-le, di guerra e grandi polarizzazioni, di paradigmi rigidi, di gravi sfide a livello climatico ed economico abbiamo bisogno della genialità di un linguaggio nuovo, di storie e immagini potenti, di scrittori, poeti, artisti». Serve una contro-narrazione, una nuova poetica della responsabilità. Perché oggi, nel teatro del mondo, chi non sa raccontare è destinato al silenzio. Al tempo di Donald Trump e degli strongman, la poesia può tornare a essere uno strumento di discernimento politico. Per questo, la grande questione del nostro tempo non è solo “chi governa”, ma “chi racconta”. Chi ha la voce per dire il mondo, e con quali parole. E, soprattutto, quale immaginario sarà in grado di sostenere, nelle coscienze, una democrazia futura. Trump ci ha mostrato – e le conseguenze le avvertiamo – che la politica può diventare opera totale.

 www.avvenire.it

 

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