Analisi del ritorno del potere antico della parola
che crea mondi e sfida la democrazia
-
di ANTONIO SPADARO
-
Il Il suo linguaggio non argomenta: risuona. Non spiega: vibra.
La
sua efficacia risiede in frasi brevi, ripetizioni, stile diretto. Questa
apparente puerilità nasconde invece una sofisticata musicalità ritmica: punchline calibrate,
sintassi sincopata, allitterazioni usate come percussioni verbali. Rob Sears,
nel suo The Beautiful Poetry of Donald Trump, ha dimostrato
come riorganizzando tweet e dichiarazioni emergano versi liberi inconsapevoli,
capaci di costruire una grammatica poetica involontaria, fatta di ritmo,
anafora e iperbole. E quella di Sears è solo una delle raccolte poetiche
trumpiane disponibili sul mercato. Avevo previsto che le azioni Apple
sarebbero scese / Costruirò un grande, grande muro / Costruisco edifici alti
94 piani / Le mie mani, sono piccole?
La
forza retorica del testo sta proprio nella sua semplicità assertiva: ogni frase
è una dichiarazione assoluta, che pretende adesione. Un lettore distratto
potrebbe sentirci dentro Allen Ginsberg, per l’intonazione visionaria e la
critica sociale. Ma anche gli echi della poesia concettuale contemporanea, da
Kenneth Goldsmith a Vanessa Place, dove il ready-made linguistico diventa gesto
artistico. Se la forma è poesia, il contenuto è mito. La sua retorica attinge a
simboli religiosi e immagini apocalittiche. Trump si presenta come il salvatore
di un’America decadente, come colui che ristabilirà un’età dell’oro. È una
retorica messianica, potente ma fragile: se la promessa non si realizza, il
profeta può trasformarsi in impostore. Nel suo discorso, Trump non cita Dio per
sottomettersi a lui ma per sostituirsi a Lui. In questa teologia secolare, il
leader diventa il verbo incarnato di una salvezza immediata e concreta. È il
linguaggio della sua personalissima «teologia della prosperità».
Trump
agisce su due livelli: la forma orale e la sacralità rituale. Il suo lessico è
ridotto, tagliato con l’accetta, ma nel suo minimalismo costruisce visioni
totali. Parole come always, never, total disaster non sono
descrittive: sono sacrali. Sono dogmi gridati su un altare mediatico. Il nemico
è demonizzato, l’alleato divinizzato, e ogni evento è tradotto in chiave epica.
È una poetica binaria e performativa, che non mira alla comprensione ma alla mobilitazione.
E
infatti la politica di Trump è performance. Susan Glasser lo ha descritto come
colui che ha realizzato il sogno inespresso di diventare produttore di
Broadway: ogni sua mossa è un atto di scena. Ogni ambientazione della sua
presidenza — dallo Studio Ovale rivestito d’oro alle cerimonie trasformate in
reality — conferma che siamo davanti a una drammaturgia permanente.
La
diplomazia, sotto la sua regia, diventa teatro. L’incontro con Volodymyr
Zelensky alla Casa Bianca è stato emblematico. Le vecchie regole delle
relazioni internazionali svaniscono per lasciar spazio alla costruzione di un
racconto potente. Che sia vero o falso non importa: conta che funzioni. Non è
un caso che al suo fianco sieda oggi J.D. Vance, autore di Hillbilly
Elegy, romanzo di successo che è diventato un film di cassetta. Vance
non è un tecnico: è un narratore. Con lui, la Casa Bianca rafforza l’estetica
trumpiana: non una sede di governo, ma una centrale narrativa.
Lo stesso schema si è ripetuto con la crisi iraniana. Prima l’attacco, poi il ringraziamento al nemico, poi ancora il dietrofront trasformato in vittoria. Il colpo più micidiale è quello di scena. “MIGA!” — Make Iran Great Again — è slogan, risata e copione futurista dell’orrore.
La guerra si
trasforma in un episodio della serie Trump! The Musical.
Il
conflitto reale, con le sue vittime, viene marginalizzato. Il dolore si
dissolve dietro le luci della ribalta. Il sangue e la strage diventano
irrilevanti in questo spettacolo. Mentre lo show si svolge, la realtà
resta fuori campo: a Gaza, bambini muoiono in fila per il pane; a Beer Sheva,
famiglie israeliane si rifugiano nei bunker. È qui che si manifesta il volto
più inquietante del potere come narrazione: il dolore viene escluso dal
montaggio. La tragedia è spezzata, resa invisibile. In fondo, l’obiettivo della
narrazione dominante è di essere così travolgente da paralizzarti. Ti lascia
catatonico, incapace di reagire. Oppure reagisci con indignazione, certo, ma
anche quella viene inglobata e neutralizzata. Diventa parte dello stesso
sistema narrativo. Per questo dobbiamo trovare nuove narrazioni.
L’unica
salvezza possibile sarebbe un atto poetico che si opponga alla finzione, una
contronarrazione fondata non sull’effetto ma sulla verità dei fatti. Donald
Trump ci mostra, con brutale chiarezza, che la politica contemporanea non può
più essere interpretata soltanto attraverso le categorie della razionalità
illuminista, della competenza amministrativa o della prassi istituzionale. Il
suo successo — che ha resistito a scandali, accuse, processi e sconfitte —
dimostra che oggi il potere si esercita innanzitutto sul piano
dell’immaginario. E che chi sa dominarlo, chi sa narrarlo con forza mitica e
con un’estetica seducente, conquista consensi più duraturi e profondi di chi si
limita ad “avere ragione”.
Trump
ha portato al parossismo una forma politica che non si rivolge più alla ragione
degli elettori, ma al loro inconscio simbolico: paure arcaiche, desideri
compressi, bisogni di appartenenza. Ha capito che l’identità non è un dato, ma
una narrazione. E ha scelto di scriverla con gli strumenti del teatro, della
poesia ritmica, del linguaggio religioso. Ha ridato al discorso politico una
funzione sacrale e rituale, facendo di ogni comizio un’esibizione di fede, di
ogni gesto un atto liturgico, di ogni nemico un capro espiatorio.
In questo senso, la sua estetica del potere è profondamente regressiva, ma straordinariamente efficace: recupera gli strumenti arcaici della costruzione del mito in un’epoca dominata dai media istantanei. Non importa se ciò che dice sia vero: importa che sembri vero, risuoni come vero, agisca Trump non è tanto un bugiardo, quanto un creatore di realtà narrative, secondo la logica postmoderna in cui la verità è subordinata all’effetto. Il suo linguaggio è un dispositivo performativo, che non descrive il mondo, ma lo costruisce a propria immagine e somiglianza.
La
sfida politica del XXI secolo è allora tutta qui: non si tratta solo di
combattere con dati, fatti o leggi, ma con forme, visioni, parole che siano
capaci di ricostruire un immaginario condiviso. Se la politica è diventata un
campo estetico, serve un’estetica alternativa: non quella dell’effetto
immediato, ma quella della profondità; non quella della divisione, ma quella
della relazione; non quella della semplificazione, ma quella della complessità
narrata con chiarezza. Lo aveva capito profeticamente papa Francesco quando
scrisse: «in questo tempo di crisi dell’ordine mondia-le, di guerra e grandi
polarizzazioni, di paradigmi rigidi, di gravi sfide a livello climatico ed
economico abbiamo bisogno della genialità di un linguaggio
nuovo, di storie e immagini potenti, di scrittori, poeti, artisti». Serve una
contro-narrazione, una nuova poetica della responsabilità. Perché oggi, nel
teatro del mondo, chi non sa raccontare è destinato al silenzio. Al tempo di
Donald Trump e degli strongman, la poesia può tornare a essere uno strumento di
discernimento politico. Per questo, la grande questione del nostro tempo non è
solo “chi governa”, ma “chi racconta”. Chi ha la voce per dire il mondo, e con quali
parole. E, soprattutto, quale immaginario sarà in grado di sostenere, nelle
coscienze, una democrazia futura. Trump ci ha mostrato – e le conseguenze le
avvertiamo – che la politica può diventare opera totale.
Nessun commento:
Posta un commento