fra visibilità e rappresentanza
Non è semplice distinguere tra chi usa la propria visibilità per sensibilizzare e costruire un cambiamento e chi, magari inconsapevolmente, finisce per trasformare la propria disabilità in uno strumento per ottenere consenso, follower, inviti in talk show o sponsorizzazioni.
Tuttavia,
in questo nuovo scenario, si apre anche una domanda scomoda, ma necessaria:
quante delle voci che oggi parlano di disabilità sui social lo fanno per
difendere diritti e denunciare ingiustizie, e quante invece lo fanno per
visibilità, per popolarità, per coltivare un personaggio?
La
linea sottile tra attivismo e personal branding
Non
è semplice distinguere tra chi usa la propria visibilità per sensibilizzare e
costruire un cambiamento e chi, magari inconsapevolmente, finisce per
trasformare la propria disabilità in uno strumento per ottenere consenso,
follower, inviti in talk show o sponsorizzazioni. Da attivisti a influencer: il
passaggio può essere rapido, e non sempre evidente.
In
alcuni casi, si rischia che la disabilità venga spettacolarizzata: la
quotidianità diventa contenuto da consumare, la battaglia si trasforma in
storytelling, il disagio in engagement. Il sistema dei social premia ciò che
emoziona, sorprende, commuove. E così, anche il dolore o la denuncia rischiano
di essere modellati per piacere al pubblico.
Proprio
per affermare il valore dell’attivismo competente e responsabile, all’interno
del Premio Giornalistico Paolo Osiride Ferrero (le
candidature per partecipare al premio – con elaborati di carta stampata, video
o contenuti digitali – sono aperte fino a settembre) è stato istituito un nuovo
riconoscimento: quello dedicato all’Attivista dell’anno. Un modo concreto per
premiare chi, attraverso la comunicazione digitale, contribuisce in modo
autorevole al cambiamento culturale e sociale in tema di disabilità.
Politici
e aziende a caccia di volti noti
C’è
poi un altro effetto collaterale da non sottovalutare: il politico o l’azienda
che rincorre l’influencer con disabilità per parlare di disabilità. Si tratta
spesso di operazioni di visibilità, ben lontane da un confronto autentico sui
diritti. Il rischio è che si finisca per personalizzare un tema collettivo,
dando credito e centralità a chi ha più visibilità, ma non è detto che sia
rappresentativo, competente o preparato.
Negli
anni ’90 lo slogan internazionale era chiaro: “Niente su di noi senza di noi”.
Ma quel “noi” non era riferito al singolo, per quanto carismatico, bensì alle
organizzazioni delle persone con disabilità, nate per rappresentare in modo
strutturato e democratico una pluralità di esperienze. Oggi, con la presenza
crescente di influencer chiamati a parlare in aziende, tenere speech motivazionali,
partecipare a lunch&learn o diventare consulenti di
diversity, si rischia di legittimare inconsapevolmente il disability
washing: un’adesione di facciata all’inclusione, svuotata di contenuti e
competenze reali.
Per
questo, oggi più che mai, lo slogan andrebbe aggiornato: “Niente su di noi
senza di noi se professionisti”. Perché la disabilità non è un tema da
spettacolarizzare, ma da affrontare con responsabilità, esperienza, formazione
e senso collettivo.
Paradossalmente,
i social che sembravano offrire libertà di parola rischiano di generare nuove
forme di intermediazione: l’algoritmo, il bisogno di like, il consenso del
pubblico. Chi parla finisce per adattarsi a ciò che “funziona”, lasciando da
parte i contenuti più scomodi, più politici, meno virali. Si creano nuove
narrazioni dominanti, in cui la persona con disabilità è spesso rappresentata
come “inspirational”, resiliente, positiva. Ma le disuguaglianze sistemiche, le
barriere reali, le battaglie collettive rischiano di sparire sullo sfondo.
Il
ritorno necessario delle associazioni
In
questo scenario confuso, in cui non si capisce più chi è influencer e chi
attivista, ritorna con forza il ruolo insostituibile delle associazioni.
Organismi che, per natura e missione, non cercano follower, ma risposte. Non
inseguono popolarità, ma lavorano ogni giorno per i diritti, per i servizi, per
l’inclusione concreta. Le associazioni non devono “funzionare” per l’algoritmo,
ma per i loro associati. Non sono al servizio della visibilità personale, ma di
una rappresentanza collettiva. Ed è forse proprio da qui che bisogna ripartire.
Non per negare il valore delle voci individuali, ma per ricordare che la
disabilità è una questione politica e sociale, e come tale ha bisogno di
strumenti organizzati, credibili, capaci di agire nei territori, nelle istituzioni,
nei tavoli di confronto.
La
popolarità di alcune persone con disabilità sui social non è di per sé un
problema. Può essere una risorsa, un canale di sensibilizzazione, uno stimolo
utile. Ma non può sostituire il ruolo delle associazioni. Perché solo lì,
dove si ascoltano i bisogni reali di chi non ha voce, si costruiscono risposte
condivise. Solo lì si fa davvero la differenza tra rappresentare sé stessi e
rappresentare una causa.
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