Le apprensioni
per le sue condizioni precarie di salute di queste ultime settimane rendono la
persona di papa Francesco particolarmente vicina alla coscienza
dell’umanità e non solo a quella parte di essa che si professa cattolica. Il
modo di esercitare la sua funzione come papa ha reso Francesco una voce irrinunciabile nel narrare la
storia che viviamo: esso ha dato al suo massaggio e al suo stile quel valore da
tutti riconosciuto di leadership morale per capire e fronteggiare quello che
egli stesso, mutuando il termine dal sociologo e filosofo francese Edgar Morin,
definisce «policrisi».
In questi
dodici anni di papato Francesco ci ha educati a guardare con occhio
disincantato l’intreccio drammatico in cui convergono temi di portata globale,
come le guerre, i cambiamenti climatici, l’esaurirsi delle risorse energetiche,
le epidemie, il fenomeno migratorio, l’emergere di innovazioni
tecnologiche.
Senza cadere
nella retorica della catastrofe, Francesco ha presentato al mondo un messaggio aperto
di speranza, di fiducia nelle capacità dell’uomo di sottrarsi alla spinta del
male e di abbracciare la via del bene. Ma per fare questo, egli ce lo insegna,
l’uomo deve potenziare le risorse di empatia, prendendo spunto dall’immagine di
un Dio che si lascia coinvolgere, un Dio vulnerabile che si curva sul destino
del mondo e offre spazi di redenzione e di salvezza. Le encicliche di papa Francesco (Laudato sì, Fratelli tutti, Laudate
Deum) hanno allargato le dimensioni dell’insegnamento e della dottrina; hanno
fatto capire che religione e destino dell’umano non sono realtà disgiunte. Per
lui l’attesa della salvezza non distrae dalla responsabilità di impegnarsi qui
e ora nella costruzione di un’umanità più giusta, più accogliente, più
inclusiva. Coltivare uno sguardo globale che parte dalla fede religiosa e
arriva all’impegno politico e civile è l’elemento distintivo e decisivo dello
stare al mondo da donne e uomini che amano la vita, la rispettano e se ne
prendono cura.
Eppure, questo
dodicesimo anniversario dell’elezione di Francesco a pontefice suona con toni particolari,
quasi come di un tempo di fine papato. Da molte parti si tratteggiano quadri
riassuntivi del suo pontificato, bilanci di un cammino intenso e complesso. Si
cercano fattori specifici per capire quello che è stato e quello che resterà
del pontificato del papa argentino, venuto da molto lontano.
Chiesa
sinodale
Proprio in
questi giorni esce in Germania un libro sul pontificato di Francesco. Il titolo suggestivo – Der Unvollendete
(L’incompiuto) – dice una grande verità sull’eredità di Francesco e, come l’autore, il giornalista italiano
Marco Politi insinua, anche della lotta per la sua successione.
Numerose volte
in questi dodici anni Francesco ha sorpreso il mondo e la Chiesa
(particolarmente quella cattolica) con immagini a cui, in un certo senso, non
eravamo abituati. Il suo modo di pensare alla Chiesa come a un «ospedale da
campo» ha fatto da telaio per definire in modo nuovo la missione ecclesiale:
non è la conquista di nuovi adepti, ma la compagnia con l’umanità dolente; non
è la patria dei benestanti dell’anima, ma il luogo di accoglienza per prendersi
cura delle ferite della vita.
Su questo
sfondo papa Francesco ha intessuto un programma di
rinnovamento e di riforma della Chiesa. Intuitivamente, egli ha visto lungo sul
binario della storia; ha espresso giudizi severi sulle istituzioni
sclerotizzate dell’apparato burocratico-curiale, esigendo inversioni di marcia
per esprimere più lucidamente la benevolenza di Dio e l’appello del Vangelo
alla fraternità e all’amore.
Muovendo dalla
visione del Concilio Vaticano II, Francesco ha aperto varchi importanti
nell’ecclesiologia, potenziando l’immagine della Chiesa sinodale. Certamente
questa visione teologica resterà come un punto rilevante del pontificato
di Francesco. Essa, infatti, tocca le dimensioni fondamentali
dell’essere Chiesa e traduce in esperienza concreta il superamento da
un’ecclesiologia piramidale, strettamente gerarchica a un’ecclesiologia
partecipativa, comunionale. In modo particolare il recente sinodo sulla
sinodalità è entrato nel tessuto vivo della Chiesa e ha mostrato il bisogno di
una riforma che è solo appena iniziata.
Nell’orizzonte
della Chiesa sinodale trovano la loro specifica consistenza le altre
espressioni di riforma a cui Francesco ha inteso dare vita. In modo particolare si
deve menzionare tutta una serie di provvedimenti con i quali egli ha esteso lo
spazio di partecipazione delle donne nella vita e nella leadership della
Chiesa.
L’incompiuto
Eppure, la
figura di «Unvollendet»–incompiuto che forma il titolo del libro di Marco
Politi non può essere spazzata via frettolosamente. Essa contiene una chiave di
interpretazione e un punto di equilibrio e di compensazione. L’incompiutezza è
una figura retorica complessa. Essa non dice solo il deficit rispetto a quello
che non c’è, ma fa appello anche a valorizzare ciò che è stato avviato e già
c’è, pur sapendo che non è tutto.
L’incompiutezza
può essere un sinonimo di incoerenza, di inconsistenza, ma può esprimere anche
quella forma di faticosa e paziente elaborazione di un processo che viene
avviato e al quale non si vuole più rinunciare.
Nella
definizione di Francesco come papa incompiuto, la seconda parte del
termine, quella costruttiva e processuale, deve essere particolarmente
sottolineata. Questa non è l’opzione per un giudizio banalmente benevolente, ma
è la risorsa per prendersi cura responsabilmente della parte di cammino che
resta da fare, riconoscendo la verità dell’impresa avviata. E questo serve
anche a capire che la parte non realizzata del processo di rinnovamento e di
riforma alla fin fine rimanda a una visione di insieme, di carattere teologico
ed ecclesiologico, ancora legata a residui preconciliari, dove l’indole
giuridico-gerarchica della Chiesa aveva la sua predominanza.
Anche sul
versante teologico-dottrinale la sua visione resta ancorata a nessi e
presupposizioni che impediscono o rallentano l’elaborazione di una dottrina
sinceramente rinnovata. Il luogo in cui questo massimamente diventa evidente è
in una certa disgiunzione tra teoria e prassi, tra impianto dottrinale non
messo in discussione e prassi pastorale resa più morbida e accogliente. Dal
canale di questa disgiunzione – o meglio, attraverso il superamento di essa –
passa la vera energia di riforma e di rinnovamento della Chiesa.
Sì: Der
Unvollendete – l’incompiuto ha visto lungo per certi processi di cambiamento e
si è fatto “apripista” di essi, anche a costo di attirare incomprensioni e
contrasti interni ed esterni alla Chiesa. Ma, alla fine, ogni pontificato è
unvollendet – incompiuto, perché ogni papa è un punto sulla linea della storia
della Chiesa che non nasce e non finisce con il papa, con ogni papa
concreto.
Allora è anche
plausibile e onesto aprire il discorso sull’eredità di un pontificato e
soprattutto sulla sua successione. Non per stabilire chi deve essere il
prossimo, ma per riconoscere che, chiunque esso sia, deve sapere di essere un
papa unvollendet – incompiuto e per questo non gli è consentito ignorare il
cammino avviato da chi lo ha preceduto. Semmai gli è richiesto di analizzare i
motivi per cui tale cammino è rimasto a metà strada e lavorare per rimuovere
gli ostacoli e incrementare le condizioni, affinché esso possa fare ancora passi
in avanti.
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