DEL VALORE UNICO DELL'ALTRO
Nella
ricerca di Mancini storia ed escatologia si incrociano e i bisogni concreti
degli uomini non sono mai messi in ombra rispetto all’indagine teoretica e alla
riflessione teologica .
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di ELIO CAPPUCCIO
Italo
Mancini (Schieti, 4 marzo 1925 - Urbino, 7 gennaio 1993), di cui ricorre il
centenario della nascita, diceva di sé di essere un filosofo dei “doppi
pensieri”. Nella sua ricerca, infatti, storia ed escatologia si incrociano e i
bisogni concreti degli uomini non sono mai messi in ombra rispetto all’indagine
teoretica e alla riflessione teologica. Ecco perché, in molte sue pagine,
rivive quel passo dei Prolegomeni ad ogni futura metafisica in
cui Immanuel Kant ammetteva di sentirsi a suo agio nella “fertile bassura”
dell’esperienza piuttosto che fra le alte torri della metafisica, circondate da
forti venti.
Nella
primavera del 1985 Mancini curò una rubrica radiofonica, I Giorni, e
introdusse il primo incontro citando un brano di Karl Barth, in cui il teologo
sosteneva che il nutrimento del cristiano deve essere rappresentato non solo
dalla Bibbia, ma anche dai giornali. Se la Bibbia offre una visione globale, i
giornali ci presentano «la concretezza delle opere e dei giorni », e in questo
scambio di esperienze e di linguaggi, scriveva Barth, «fedeltà a Dio e fedeltà
alla terra» si integrano.
Mancini
pensava che per costruire il futuro fosse necessario prendere in esame la
relazione che intercorre tra il senso e il significato. Se il primo si ferma al
dato, il secondo indica, invece, «ciò per cui si decide», aprendo alla
progettualità. Queste considerazioni rinviavano, a suo avviso, al rapporto tra
sogno diurno e sogno notturno, affrontato da Ernst Bloch. La dimensione onirica
si volge ai dati del passato e, come dimostra la psicoanalisi freudiana,
richiede un’ermeneutica archeologica, ma può anche, come nel sogno diurno
blochiano, assumere una “coscienza anticipante”, schiudendo uno spazio utopico
che annuncia profeticamente il futuro.
In
questo scarto, tra ciò che è, il dato, e ciò verso cui tendiamo, che non è
ancora, emergono la speranza e il tempo escatologico. L’utopia, ha scritto in
proposito Jürgen Moltmann, può essere superata dalla speranza cristiana,
«andando nella direzione in cui la promessa di Dio orienta l’uomo nei confronti
della miseria del creato». Moltmann ritiene che tra l’escatologia cristiana e
il principio-speranza di Bloch possa instaurarsi un dialogo fecondo, in cui
emergerà, però, l’impossibilità di compiere, con l’intelletto umano, quel che
Dio ha promesso. La sintesi dialettica teorizzata sui libri e nei programmi
rivoluzionari non è stata realizzata , scrive Mancini, perché «il sudore della
gente, il sangue degli innocenti e l’olocausto delle comunità crocifisse, la
questione operaia e la nascita della pace sono rimasti fuori da questo
cristallo purissimo dell’idea».
Heller
abbiano dimostrato che allo “stato di fusione” rivoluzionario segue
inevitabilmente una fase burocratica e poliziesca. La dialettica dei gruppi
che, secondo l’ultimo Sartre, avrebbe portato con sé quella riconciliazione
negata nei socialismi reali, non si è dimostrata una via percorribile,
lasciando la questione irrisolta. Tutto ciò non può, secondo Mancini, far venir
meno le ragioni di una cultura della riconciliazione, che dovrà prender
corpo attraverso le “convergenze etiche”. Il fine totalizzante della dialettica
nasconde in sé una volontà di dominio che deve essere spezzata, scrive Mancini,
per porre in primo piano «l’irriducibilità
sovrana dell’altro, espressa dal volto».
Se
nel mondo classico prevaleva l’ontologia e nell’età moderna la soggettività,
nell’età futura l’elemento centrale «dovrà diventare l’altro e il suo volto,
biblicamente il prossimo», sostiene Mancini, dimostrando la sua vicinanza al
pensiero di Emmanuel Lévinas. Mette dunque in guardia da quelle filosofie che
tematizzano l’ineffabilità dell’altro, alimentando una logica della
disgregazione, come dimostrerebbero alcuni esiti del pensiero francese: il
“disormeggio” di Emil Cioran o il “rizoma” di Gilles Deleuze e di Félix
Guattari.
Nessuna
fuga dal mondo, allora, ma una doppia fedeltà, che, come in Dietrich
Bonhoeffer, cui Mancini ha dedicato una fondamentale monografia, guarda al
cielo senza dimenticare la terra: « Non penso in alcun modo alla fede che fugge
dal mondo -scriveva Bonhoeffer alla fidanzata Maria Wiedemayer nell’agosto del
1944- ma a quella che lo sperimenta, che l’ama e che gli resta fedele, a
dispetto di tutte le sofferenze che ci presenta […]. Temo che i cristiani che
stanno con un solo piede sulla terra, stiano anche con un solo piede in cielo».
La
Lettera a Diogneto (II sec. d.C.) dimostra che questo sentire non era estraneo
allo spirito dei primi cristiani, descritti infatti come uomini che
testimoniano la loro straordinarietà pur uniformandosi ai costumi dei luoghi in
cui si trovano a vivere. In questa scelta Italo Mancini riconosce una doppia
fedeltà, alla coscienza religiosa e alla vita della polis, «perché il
cristianesimo paradossale non solo non viola, ma esalta la libera profanità del
mondano».
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