Non più padri, ma solo fratelli;
Non solo fratelli, ma anche sorelle;
Non solo i Dodici, ma una pluralità di apostoli;
Non solo uomini, ma anche donne, senza contrapposizione tra maschile
e femminile;
Non più i grandi alla maniera del mondo, ma prima di tutto i
piccoli, gli umili e i poveri;
Non più leader, con ambizioni manageriali, ma pastori semplici e
vicini alla gente che, alla maniera di Gesù, si prendono cura di ogni persona
di: Andrea
Lebra
Portare
alla luce i numerosi passi del Nuovo Testamento che, se tradotti in coraggiose
scelte operative e in innovative prassi pastorali, potrebbero assestare un duro
colpo al clericalismo, «uno dei mali più seri nella Chiesa» (Francesco,
discorso del 17 giugno 2016 ai partecipanti all’Assemblea plenaria del
Pontificio Consiglio per i laici). È l’obiettivo che si propone di raggiungere
Yves-Marie Blanchard – presbitero di Poitiers, già docente di esegesi biblica
all’Istituto cattolico di Parigi, autore di numerose pubblicazioni di carattere
biblico-teologico soprattutto riguardanti l’opera giovannea – con il
libro Contre le cléricalisme retour à l’Évangile» (Éditions
Salvator, Paris 2023). Un saggio, dall’autore considerato «modesto» (p. 124),
di facile lettura, ma altamente stimolante, che in Francia ha ricevuto il
«premio 2023 dei lettori» della Conférence Catholique des Baptisé-e-s
Francophones.
Il
titolo dell’opera ne fa sostanzialmente intuire i contenuti. Se – come afferma
papa Francesco (discorso del 6 ottobre 2018 ai pellegrini della Chiesa
greco-cattolica slovacca) – il clericalismo è «un modo non evangelico di
intendere il proprio ruolo ecclesiale» da parte dei ministri ordinati come dei
laici e delle laiche, è con le «armi» del Vangelo che esso può e deve essere
combattuto in modo efficace.
È
da ritenere, infatti, che sia giunto il momento di mettere in luce la radicale
incompatibilità tra Vangelo e clericalismo (p. 10), definibile come «ogni forma
di governo fondata sulla concentrazione dell’autorità nelle mani di una
minoranza ed esercitata senza un vero dialogo e senza ricerca del consenso,
emarginando, sotto il profilo sia teorico che pratico, persone e associazioni
considerate insignificanti, dannose e non in grado di prendere parte al
dibattito» (p. 10, nota).
Finalità
e struttura del libro
Il
libro non vuole essere un ennesimo atto d’accusa per gli abusi sessuali, di
potere e di coscienza commessi da un impressionante numero di chierici e
persone consacrate: abusi che sono diretta conseguenza di una cultura e di uno
stile di vita clericale.
Esso
vuole, piuttosto, offrire un contributo costruttivo e decisivo per una
testimonianza cristiana che sia il più possibile conforme al messaggio di
Cristo.
E
lo fa, segnalando passi dei Vangeli, delle lettere di Paolo e di altri scritti
neotestamentari che, ancorché noti, richiedono di essere presi più sul serio
nel riferirli a problematiche di grande attualità – tutte aventi a che fare
direttamente o indirettamente con il clericalismo – come l’esercizio
dell’autorità nella Chiesa, lo stile fraterno e sororale richiesto a chi si
mette alla sequela del Signore Gesù, l’articolazione nella Chiesa tra uomini e
donne, la concezione dei ministeri, il clima di comunione e di
corresponsabilità differenziata che dovrebbe sempre caratterizzare la vita
delle comunità cristiane.
Il
saggio è strutturato in sette agili capitoli, ognuno dei quali offre una
meticolosa esegesi di un versetto o di un brano del Nuovo Testamento che, più
che di approfondimenti teorici, ha bisogno di essere attuato:
§ «non
chiamate padre nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro,
quello celeste» (Mt 23,9) per il primo capitolo;
§ «Paolo
[…] a quanti sono in Colosse santi e fratelli credenti in Cristo» (Col 1,2) per
il secondo capitolo;
§ «Chiamò
a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di
apostoli» (Lc 6,13) per il terzo capitolo;
§ «Non
c’è giudeo né greco, non c’è schiavo né libero, non c’è maschile e femminile,
perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28) per il quarto capitolo;
§ «Chi
è più piccolo fra tutti voi, questi è grande» (Lc 9,48) per il quinto capitolo;
§ «Conduci
al pascolo il mio gregge formato da agnelli e pecore madri» (Gv 21,16-18) per
il sesto capitolo.
Il
contenuto in forma sintetica
Nel
capitolo settimo. dedicato, a mo’ di conclusione, alla sinodalità quale
«rimedio alle malattie che colpiscono il corpo ecclesiale, tra cui in primo
luogo i misfatti del clericalismo» (p. 114), è riassunto il contenuto del
libro:
§ Non
più padri, ma solo fratelli;
§ Non
solo fratelli, ma anche sorelle;
§ Non
solo i Dodici, ma una pluralità di apostoli;
§ Non
solo uomini, ma anche donne, senza contrapposizione tra maschile e femminile;
§ Non
più i grandi alla maniera del mondo, ma prima di tutto i piccoli, gli umili e i
poveri;
§ Non
più leader, con ambizioni manageriali, ma pastori semplici e vicini alla gente
che, alla maniera di Gesù, si prendono cura di ogni persona (p.
113).
Al
biblista Yves-Marie Blanchard sta a cuore dimostrare come le Scritture siano
non un insieme di storie folcloristiche che lasciano il tempo che trovano, ma,
per chi crede che in esse sia presente una Parola di Dio, una
singolare provocazione ad acquisire, anche in termini di organizzazione della
comunità ecclesiale, quella saggezza che è l’arte di condurre la propria vita
nella sequela di Gesù di Nazaret e nell’impegno al servizio della sua missione,
imitando il saggio del Vangelo che, diventato discepolo del Regno dei cieli, si
comporta – come leggiamo in Mt 13,52 – «alla stregua del padrone di casa che sa
estrarre dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (p. 124).
Di
padre ce n’è uno solo, quello celeste
Un
noto passo del Vangelo di Matteo (23,9-11) ci invita a non chiamare
nessuno padre sulla terra, perché uno solo è il Padre nostro,
quello celeste; a non chiamare nessuno con il nome di maestro perché
uno solo è il nostro Maestro e noi siamo tutti fratelli e sorelle; e non
chiamare nessuno guida, perché uno solo è la nostra Guida, il
Cristo; e il più grande tra i noi è chi si mette a nostro servizio.
Perché,
in presenza di tante forme di clericalismo derivanti da malintesi paternalismi
ecclesiastici (p. 15) o da discutibili modalità di esercizio del governo della
Chiesa, dovremmo ritenerci autorizzati a relativizzare o, addirittura, ignorare
questa energica raccomandazione di Gesù, continuando a considerare qualcuno
come padre, maestro e guida,
dimenticando che tutti siamo figli e figlie del Padre celeste e, quindi,
fratelli e sorelle?
Perché,
allora, non sostituire con un semplice ed evangelico fratello titoli
altisonanti come eminenza, eccellenza, monsignore o reverendo che significano
grandezza e potere e che non hanno nulla a che vedere con la «raccomandazione
energica di Gesù» (p. 16) di Mt 23,9?
Una
Chiesa di fratelli e sorelle
Se
c’è un elemento che caratterizza i rapporti intercorrenti tra l’apostolo Paolo
e le comunità legate alla sua missione, questo è senza dubbio la fraternità (p.
38).
Con
riferimento alle sole sette lettere considerate autentiche, i termini
«fratello/fratelli» tornano sedici volte nella prima lettera ai Corinti, sei
volte nella lettera ai Galati, sei volte nella prima lettera ai Tessalonicesi,
cinque volte nella lettera ai Romani, tre volte nella lettera ai Filemone, due
volte nella seconda lettera ai Corinti, una volta nella lettera ai Filippesi.
Poiché
– fa notare l’autore – la lingua greca comporta che il termine «fratello»
implichi anche il termine «sorella», mentre nella lingua francese (come in
quella italiana) la parola «fratello» non può ricomprendere le componenti
maschile e femminile dell’unica famiglia di Dio (p. 27), la fedeltà all’epoca
apostolica giustificherebbe incontrovertibilmente che ci si preoccupi, nella
proclamazione liturgica dei testi paolini, di rivolgerci ai fratelli e alle
sorelle e non, come si è soliti fare, solo ai fratelli (p. 41). Questo sarebbe
innegabilmente un progresso nello sforzo di declericalizzare anche il
linguaggio liturgico, a beneficio di comunità caratterizzate da pieno e mutuo
riconoscimento di tutti i membri riuniti a prescindere da ogni differenza di genere
(p. 42).
L’invito
a riconoscerci come fratelli e sorelle, proponendolo come vero e proprio stile
di vita, significa contribuire a che la Chiesa non si burocratizzi ma diventi
essenzialmente casa e famiglia di Dio (pp. 24 e 27).
I
discepoli, i Dodici e gli apostoli
Illuminante
il capitolo intitolato «Dodici, che egli chiamò anche apostoli» (Lc 6,13).
Per
il nostro autore, infatti, il clericalismo sembra avere le sue radici anche
nella confusione che spesso si fa tra i discepoli, i Dodici e
gli apostoli.
La
confusione tra i Dodici e gli apostoli, ad esempio, determina una forma di
clericalizzazione dei ministri ordinati, vescovi e presbiteri, considerati in
primo luogo i successori dei Dodici, con diritti e prerogative proprie, come
l’esclusività del genere maschile che induce a ritenere unici detentori di un
certo numero di poteri solo i maschi (p. 43).
Stando
al dato neotestamentario, si possono distinguere al riguardo tre livelli:
dapprima un significativo numero di discepoli radunati da Gesù; in secondo
luogo, i Dodici istituiti da Gesù per accompagnarlo nel suo ministero
itinerante; infine, un rilevante numero di apostoli, di cui sicuramente fanno
parte i Dodici, destinati alla missione in tutto il mondo. Si può dire che i
Dodici facciano da cerniera tra i discepoli, di cui fanno parte, e gli
apostoli, di cui sono i primi ma non i soli (p. 49).
Un’attenta
analisi dei testi scritturistici dovrebbe indurci ad essere maggiormente
prudenti nel fare riferimento ai Dodici quando si tratta di
definire la natura e le modalità di esercizio dell’autorità nella Chiesa.
Troppo spesso, infatti, la figura dei Dodici è ritenuta paradigmatica della
struttura gerarchica della Chiesa cattolica, con la conseguenza di considerare
impossibile l’accesso delle donne al ministero ordinato, stante il fatto che
Gesù e i Dodici erano degli uomini, nel senso di persone di genere maschile (p.
54).
Se
è vero che la Chiesa è apostolica in quanto fondata sugli apostoli, va preso
atto che non poche testimonianze neotestamentarie dicono che nella Chiesa dei
primi secoli vi erano anche donne apostole: basti citare Maria di Magdala,
giustamente considerata dalla tradizione apostola apostolorum (p.
66) o l’apostola Giunia o ancora la diacona Febe con compiti dirigenziali:
nominate, queste ultime due, nel capitolo 16 della lettera di Paolo ai Romani
(p. 55).
Dare
un riconoscimento pieno ai carismi, alla vocazione e al ruolo delle donne in
tutti gli ambiti della vita della Chiesa significherebbe mettere in discussione
un modello ecclesiale ancora troppo spesso venato di clericalismo (p.
56).
Nessuna
contrapposizione tra maschile e femminile
A
consolidare e a rafforzare oggi il clericalismo nella Chiesa cattolica sono
certamente le evidenti discriminazioni operate nei confronti delle donne (p.
57).
Al
riguardo, l’autore invita a confrontarsi con la sensazionale dichiarazione di
Paolo contenuta nella lettera ai Galati: «Tutti voi siete figli di Dio a causa
delle fede in Cristo Gesù. Dal momento che voi tutti siete stati battezzati in
Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è giudeo né greco; non c’è schiavo
né libero; non c’è maschile e femminile» (Gal 3,26-28).
Quanto
alla diade maschile-femminile, si tratta ovviamente non di negare
la differenza tra uomo e donna, ma di rifiutare ogni forma di contrapposizione,
rivalità o conflitto tra il genere maschile e il genere femminile. Vivere
all’interno della Chiesa una reale e dinamica reciprocità relazionale tra
uomini e donne significherebbe consolidare sensibilmente una prassi non
clericale (p. 62).
Numerose,
d’altra parte, risultano essere le testimonianze neotestamentarie comprovanti
che le donne prendono parte normalmente al ministero di Gesù come discepole e
sono molto attive nell’ambito delle comunità paoline (p. 65), fino ad
esercitare il ministero della preghiera e della profezia, come ci viene
attestato da Paolo in 1Cor 11,4-5 (p. 67). Il che, quanto meno, induce a
ritenere che oggi la questione di una più ampia partecipazione delle donne non
solo ai processi di discernimento ecclesiale e a tutte le fasi dei processi
decisionali, ma anche all’azione liturgica, lungi dall’essere secondaria o
aneddotica, merita di essere considerata un elemento essenziale per contrastare
il clericalismo (p. 65).
I
veri «grandi» sono i piccoli e gli umili
A
sconfiggere il clericalismo sarà soprattutto il popolo delle Beatitudini, a
partire dal semplice fedele fino ad arrivare a chi ricopre ruoli di autorità
nella Chiesa (p. 76).
Così
come agli antipodi del clericalismo non può non collocarsi chi, assumendo la
logica del Regno di Dio, ritiene che i veri grandi siano i piccoli e gli umili,
in quanto persone più vicine a Gesù (p. 79). Principio da applicare anche
quando si tratta di affidare a qualcuno delle responsabilità in ordine del
governo della Chiesa (p. 79).
Nessun
diritto a dominare, se si vuol entrare nel Regno di Dio. L’unico potere è la
capacità di metterci a servizio degli altri, senza la pretesa di essere
considerati e chiamati benefattori, ma accontentandoci di essere solo ed
esclusivamente servi di tutti.
Mt
20,26-27 potrebbe essere tradotto così: «Chi vuol essere grande si comporti
da diacono. E chi vuol essere primo faccia sua la condizione
sociale simile a quella dello schiavo». Una regola di governo
assolutamente originale e rivoluzionaria.
È
“grande” non chi esercita un potere e fa pesare la sua autorità sulle persone
che governa, ma chi si mette umilmente a loro servizio, fugando in tal modo
ogni autoritarismo, abuso di potere e disprezzo dei più deboli (p. 92). A
immagine di Gesù Cristo che – come si legge nella lettera di Paolo ai Filippesi
(2,6-7) – «spogliò sé stesso e prese la condizione di schiavo» (p. 93),
indossando un grembiule per lavare i piedi ai suoi discepoli e chiedendo loro
di fare altrettanto gli uni nei confronti degli altri (p. 88).
Pastori
che si prendono cura del gregge
Bello
quanto l’autore scrive commentando il capito 10 del Vangelo di Giovanni nel
quale Gesù è presentato come pastore e porta attraverso
la quale passa il gregge da lui custodito: capitolo ricco di insegnamenti per
chi nella Chiesa deve governare (p. 105).
Il
pastore guida il gregge senza essere costretto a far valere la sua autorità e
senza ricorrere a forme di minaccia o violenza. La sua autorevolezza si fonda
certamente sulla sua competenza, ma soprattutto sulla qualità dei legami che
intrattiene con ogni singola pecora (p. 100).
Il
pastore è disponibile a prendersi cura anche di pecore che non fanno parte del
suo ovile, uscendo dai recinti da lui solitamente frequentati (p. 107).
Altra
caratteristica del vero pastore – proprietario di 100 pecore – rinvenibile nei
Vangeli di Matteo (18,12-14) e Luca (15,4-6): prendersi particolarmente cura
delle pecore più deboli ed essere pronto a lasciare temporaneamente incustodite
le 99 per mettersi alla ricerca dell’unica dispersa e, trovatala, riportarsela
a casa sulle spalle invitando amici e vicini a festeggiarne con lui il
ritrovamento (p. 109).
Come
dire che contrastare il clericalismo significa anche cercare di intercettare i
molti assenti, di relazionarsi con i non credenti e i non praticanti, di
promuovere spazi di dialogo con i critici e i perplessi, di confrontarsi con
gli agnostici e gli indifferenti, di accogliere chi, per ragioni diverse,
fatica a trovare all’interno della comunità ecclesiale un pieno riconoscimento
della sua dignità, di tornare a percorrere tratti di strada con chi sta sulla
soglia della comunità cristiana o l’ha abbandonata in punta di piedi, di
ascoltare il grido dei poveri e di solidarizzare con chi non conta nulla sulla
scena sociale.
Yves-Marie Blanchard, Contro il clericalismo, ritorno al Vangelo - Ed Qiquajon
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