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di Giuseppe Savagnone*
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Un
voto che ignora le pressioni internazionali
Le
logiche inesorabili del circo mediatico hanno concesso ben poca visibilità alla
notizia che il 28 ottobre la Knesset, il Parlamento israeliano, ha approvato
con una maggioranza schiacciante – 92 voti favorevoli e 10 contrari – una legge
che mette al bando l’Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi (Unrwa). Eppure,
non si tratta di una decisione di poco conto.
Lo
dimostrano, se non altro, le unanimi pressioni internazionali volte a
scongiurarla. Il portavoce del dipartimento di Stato americano, Matthew Miller,
in un briefing con la stampa, aveva dichiarato: «Abbiamo
chiarito al governo israeliano che siamo profondamente preoccupati per questa
proposta di legge e lo abbiamo invitato a non approvarla», sottolineando «il
fondamentale ruolo svolto dall’agenzia delle Nazioni Unite nella distribuzione
degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza».
Poco
prima, sul profilo X del ministro degli Esteri britannico, David Lammy, era
apparso un appello a Israele affinché garantisse «che l’Unrwa possa continuare
a lavorare per salvare vite umane a Gaza e in Cisgiordania».
E
al governo di Tel Aviv era stata inviata una lettera di Canada, Australia,
Francia, Germania, Giappone, Corea del Sud e Regno Unito (notiamo di passaggio
l’assenza dell’Italia), in cui si chiedeva di non bloccare gli «aiuti umanitari
essenziali e salvavita» garantiti dall’Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi.
Tutto
è stato inutile.
E
questa volta – a sfatare la tesi corrente che il solo responsabile, in questa
guerra, sia il premer Benjamin Netanyahu – i partiti di governo e quelli di
opposizione sono stati compatti nel votare la legge.
La motivazione è l’accusa, nei confronti dell’Agenzia dell’ONU, di essere
complice di Hamas. Un’accusa gravissima, già mossa all’indomani dell’attacco
del 7 ottobre e che – anche se riguardava in realtà solo 9 dipendenti sui
13.000 dell’Unrwa, peraltro subito licenziati, in via precauzionale – , aveva determinato
l’immediata sospensione dei finanziamenti all’Agenzia da parte dei governi
occidentali.
Ma,
in aprile, il rapporto di una Commissione internazionale indipendente aveva
preso atto che Israele non era stato in grado di produrre alcuna prova delle
sue accuse e, uno dopo l’altro, gli Stati che avevano interrotto la loro
collaborazione l’avevano ripresa.
Da parte del governo israeliano invece, è rimasta ed è cresciuta l’ostilità nei
confronti sia dell’Unrwa, sia dell’ONU nel suo insieme – definita da Netanyahu,
nella sua recente visita all’Assemblea delle Nazioni Unite, una «palude
antisemita» -, fino al punto di bollare il suo segretario generale, Guterres,
come «persona non grata», impedendogli così un eventuale ingresso in Israele.
Il
voto della Knesset giunge al culmine di questo esasperato crescendo, che mette
lo Stato ebraico praticamente al di fuori di ogni dialogo ragionevole con
l’organizzazione rappresentativa del resto del mondo. E soprattutto come
abbiamo visto – essa avrà conseguenze devastanti per la popolazione
palestinese.
Un
apparente paradosso
Né
rassicura il fatto che Netanyahu abbia detto, di fronte alle critiche, che il
suo governo è «pronto» a fornire aiuti, visto che è proprio per ordine suo che
da diversi mesi l’esercito israeliano ha effettuato il blocco dei rifornimenti
di generi alimentari e di altri beni essenziali alla popolazione di Gaza.
Un
blocco che anche il segretario di Stato americano Antony Blinken e il ministro
della difesa Lloyd Austin avevano deplorato, in una lettera inviata proprio
pochi giorni fa, il 15 ottobre, alle autorità dello Stato ebraico.
«Ci
sono dei cambiamenti che vogliamo vedere immediatamente» si diceva nella
lettera, «non entro trenta giorni». E per la prima volta si ventilava la
possibilità che, in mancanza di una svolta, venga rimessa in discussione la
fornitura di armi americane a Israele.
Il
cambiamento ora c’è stato, ma in senso opposto alla richiesta. Confermando un
atteggiamento, da parte israeliana, che ha ormai da tempo assunto i toni di una
sfida aperta al suo principale alleato, le cui pressioni sono state finora
sistematicamente deluse e contraddette, senza peraltro mai, finora, a far
vacillare il suo decisivo appoggio militare e politico .
A
spiegare questo paradosso non sembra possa essere l’orientamento dell’opinione
pubblica americana, scossa anch’essa, soprattutto nella fascia giovanile, dalla
violenza della reazione israeliana.
Nel
2023 da un sondaggio Gallup risultava che il 64% dei giovani americani aveva
un’opinione positiva di Israele; nel 2024 lo stesso sondaggio rilevava che
quegli stessi giovani avevano cambiato idea e che solo il 38% lo apprezzava.
Si è ipotizzato un ruolo decisivo delle potenti lobbies ebraiche,
soprattutto alla viglia delle imminenti elezioni presidenziali.
Per
contro, però, la candidata democratica alla Casa Bianca, Kamala Harris, ha
indebolito la sua posizione alcuni Stati-chiave, dove la minoranza di origine
araba si apertamente dissociata, fin dalle primarie, dalla politica di fatto
filo-israeliana della presidenza democratica.
Secondo
la grande maggioranza degli opinionisti, a spiegare l’infinita pazienza del
presidente Biden di fronte ai continui schiaffi ricevuti dal suo omologo di Tel
Aviv è, da un lato, la necessità di sostenere il solo regime democratico del
Medio Oriente, dall’altro l’inconfessato disegno di lasciar fare a Israele il
“lavoro sporco” contro gruppi terroristici, come Hamas ed Hezbollah, che anche
gli Stati Uniti vogliono vedere distrutti, ma che possono essere colpiti solo
con un costo di vite umane innocenti troppo alto per gli standard occidentali.
Da
qui il comportamento oggettivamente ambiguo dell’amministrazione americana,
che, mentre continua a esprimere «preoccupazione» per quanto accade a Gaza, non
ha mai cessato di fornire a Israele le armi che lo rendono possibile.
Da
qui anche l’appoggio della stampa e della maggior parte dei governi occidentali
alla linea dello Stato ebraico, addebitando le numerose manifestazioni di
protesta popolare alla rinascita dell’antisemitismo.
Democrazia
e violenza
In
questo senso va un editoriale pubblicato sul «Corriere della sera» del 31
ottobre e firmato da uno dei suoi più autorevoli opinionisti, lo storico
Ernesto Galli della Loggia.
La
domanda da cui egli parte pone, giustamente, una questione di principio: «Può
un Paese democratico, com’è senza dubbio Israele, e sia pure nel corso di una
guerra, usare la violenza in modi che spesso appaiono smisurati e perciò
crudeli? Un regime democratico non dovrebbe porsi dei limiti per non correre il
rischio di contraddire i suoi stessi principi?».
La
risposta dell’autore è che, «se la storia conta qualcosa, ebbene allora la
storia della democrazia — cioè la democrazia reale, non quella che a noi piace
immaginare — mostra che essa ha spesso e volentieri (per non dire quasi sempre)
praticato la violenza».
E,
in questa violenza, «il maggior numero dei morti non si è verificato tra i
soldati ma tra i civili. Sì, tra i civili: precisamente come oggi sta accadendo
a Gaza e dintorni, se è permesso ricordarlo. Gli Alleati ebbero la meglio sulla
Germania nazista bombardando tutto quello che potevano bombardare,
polverizzando scuole e ospedali senza preoccuparsi in alcun modo di chi ci
stava dentro. Gli ordigni al fosforo piovuti su Amburgo o Dresda ammazzarono
nel modo più atroce donne, vecchi e bambini, non schiere di Waffen SS pronte al
combattimento. E si trattò, come sappiamo, solo di una blanda anticipazione di
quello che sarebbe accaduto a Hiroshima e Nagasaki».
Dunque,
alle folle che in tutto il mondo oggi protestano contro Israele per la
violazione del diritto internazionale bisognerebbe spiegare, secondo Galli, che
«le contese umane, lo scontro dei valori , le emozioni degli individui e dei
popoli — tutto ciò che muove la politica e di cui allo stesso tempo la violenza
si alimenta — non sopportano oltre una certa misura di essere racchiuse nella
definizione formale e astratta delle fattispecie giuridiche» e che «a decidere
è chiamato il nostro convincimento circa quello che in una determinata
situazione l’insieme delle circostanze impone che “si debba” fare.
La
massima espressione della politica sta per l’appunto nell’assumersi questa
responsabilità di decidere e nella consapevolezza della tragicità morale di
certe scelte (…). Affidando il giudizio ultimo su una tale decisione e sulle
sue conseguenze non a un tribunale, ma solo alla storia». Le proteste di piazza
contro lo Stato ebraico non tengono conto di questa problematicità, credono di
«conoscere la risposta giusta e non esitano a gridarla ai quattro venti».
Il
suicidio della democrazia
Il
punto debole di questa raffinata e a prima vista convincente assoluzione della
democrazia di Israele è che essa ha una portata ben più vasta del caso a cui
Galli la applica, perché l’ “etica della situazione”, secondo cui nessuno, se
non la storia, avrebbe il diritto di giudicare le violenze dello Stato ebraico,
potrebbe valere per tutte le scelte politiche ed essere invocata anche dai
responsabili di regimi non democratici. In base a questo criterio, anche Putin
poteva chiedere di essere giudicato dalla storia e non dalla Corte penale
internazionale, che ora è chiamata a emettere la sua sentenza anche su
Netanyahu.
Ma
in questo modo, verrebbe meno anche il motivo per ritenere la democrazia una
formula politica preferibile alle altre, perché più rispettosa della dignità e
dei diritti degli esseri umani.
È
vero, la storia ci impedisce di illuderci. E, agli esempi che l’autore adduce
per il passato – le bombe su Dresda, Hiroshima e Nagasaki – , se ne potrebbero
aggiungere molti altri riguardanti il presente, a cominciare dalle ingiustizie
sociali che le nostre democrazie non riescono ad eliminare.
Ma
essi ne dimostrano solo l’imperfezione e ne spiegano la debolezza, oggi più
evidente che mai. Assumerli come giustificazione di ciò che sta facendo
Israele, per dimostrare che le proteste contro la sua disumanità è solo frutto
di ingenuità, significa adottare come modello della democrazia il suo lato più
oscuro, quello da cui dovrebbe liberarsi, e a cui deve contrapporsi con tutte
le sue forze, se non si vuole suicidare.
*Scrittore ed editorialista
Pastorale della Cultura - Arcidiocesi Palermo
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