XXVII
Domenica
del Tempo Ordinario
Vangelo: Mc
10,2-16
Commento di S.B. Pierbattista Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme
Nel
brano di Vangelo di oggi (Mc 10,2-16) vediamo che Gesù, ormai arrivato in
Giudea (Mc 10,1), viene interrogato da alcuni farisei circa la possibilità per
un uomo di ripudiare la propria moglie.
Una
porta che ci permette di entrare questa Parola la troviamo all’inizio del
dialogo, quando i farisei chiedono se il ripudio è lecito (Mc 10,2). Poco più
avanti, gli stessi farisei affermano che Mosè ha permesso di scrivere un atto
di ripudio con cui separarsi dalla moglie (Mc 10,4).
A
questi farisei interessa dunque sapere cosa si può fare e cosa non si può fare,
cosa è permesso dalla Legge e cosa non lo è. Non pensano di poter decidere da
soli, con la propria coscienza, davanti a Dio. Non pensano neppure che è
nell’intimo del cuore che è dato di conoscere l’unica legge che Dio ha dato
all’uomo, quella dell’amore.
Dietro
a queste domande c’è dunque un modo diverso di concepire la vita di fede, la
relazione con Dio e con gli altri, la vita stessa. La vita di fede per quei
farisei consiste nell’osservare alcune norme, nello stare dentro alcuni
limiti. Fatto questo, si è autorizzati a sentirsi a posto, con Dio e con tutti.
Non
illudiamoci che questo modo di pensare appartenga solo ad alcuni, a gente un
po’ fanatica della legge: dietro la domanda di Pietro su quante volte bisogna
perdonare c’è, in fondo, la stessa logica (Mt 18,21).
Ed
è anche, questo, un modo comodo di vivere la vita, perché la legge ci è
necessaria, e Gesù non parla contro la legge. La legge serve per garantire il
minimo necessario. Mette un limite al nostro dovere, non ci chiede nessuno
spazio di gratuità, non ci porta oltre ciò che è giusto. La legge, in fondo,
giustifica il nostro egoismo, il nostro cuore duro (“Per la durezza del vostro
cuore egli scrisse per voi questa norma” - Mc 10,5).
Gesù
sposta completamente l’asse del discorso: il riferimento per la nostra vita di
fede e per il nostro agire etico non è più esclusivamente la legge, ma ciò per
cui la nostra vita è creata, la vocazione a cui ciascuno è chiamato,
l’altissima dignità insita nel disegno con cui Dio ha voluto creare l’uomo. Non
la legge è il criterio di discernimento, ma la vocazione di ciascuno. Non
qualcosa di esterno, che dal di fuori ci dice cosa fare. Ma qualcosa di
interno, che da dentro ci dice chi siamo.
Per sapere cosa dobbiamo fare, bisogna guardare a ciò che possiamo fare: possiamo
avere compassione, possiamo accogliere, possiamo fare attenzione, possiamo
perdonare…; possiamo vivere a somiglianza della vita di Dio.
Richiamando
il principio della creazione (“Ma dall’inizio della creazione li fece maschio e
femmina” – Mc 10,6) Gesù ricorda ai suoi interlocutori proprio questo. E lo fa
per dire che la “misura” della nostra vita non potrà essere definita da una
norma a cui obbedire, ma dalla realizzazione di questo progetto originario, che
chiama l’uomo ad un esodo continuo verso un di più di vita, che non sarà mai
pienamente raggiunto.
Il
disegno originario è quello di essere capaci di amare nella fedeltà, ovvero di
tenere aperto il proprio cuore all’altro, avendo cura dei propri legami e delle
proprie relazioni, prima di ogni altra cosa.
Non
si tratta quindi di obbedire ad una legge, ma ad una persona, alle persone che
amiamo, e di farlo anche quando questa obbedienza ci chiede di donare la vita.
Se
la legge, dunque, tende a definire il minimo da fare per potersi considerare
giusti, un argine sotto il quale non scendere, la legge dell’amore, al
contrario, offre un cammino di crescita graduale, apre la vita alla possibilità
di crescere in umanità.
Non
solo la protezione di una soglia minima, perché la legge dell’amore non può
fissare un limite, e non è mai uguale per tutti.
L’importante
è non accontentarsi di avere la coscienza a posto, ma mettersi continuamente in
cammino verso l’altro, ricominciando sempre a conoscerlo e ad amarlo.
+
Pierbattista
Patriarcato di Gerusalemme
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