Chi ha inventato il libro ha inventato il silenzio della lettura e i salotti letterari, l’avventura della conoscenza e la libertà di espressione.
Ricordo che a Parigi, sull’entrata di un negozio di libri usati dalle parti di Notre-Dame, vidi riprodotto l’attacco della poesia che Walt Whitman dedicò «a uno sconosciuto».
E il primo verso diceva così: «Sconosciuto che passi! Non sai con quanto desiderio io ti guardo».
Gli
sconosciuti siamo noi, i lettori, i possibili lettori o quelli che non arrivano
a esserlo, perché tante volte noi passiamo ignorando tutto quello che i libri
ci riservano e la lunga attesa, anche se a vuoto, che essi costruiscono per
noi.
Parlare
di industria a proposito dei libri è sicuramente importante, ma è
insufficiente, e non è mai il primo passo da fare.
Chiaramente
i libri hanno una materialità che va tenuta in considerazione, e una delle
ragioni che legano i lettori di ogni epoca all’oggetto libro è che questo
permette, come canta il brasiliano Caetano Veloso, una sorta di «amore
tattile».
Ma
l’esperienza del libro è più della sua materialità, essa si ricollega alla
preistoria di una relazione che possiede, come di recente ha ricordato papa
Francesco, un impatto spirituale generativo: «Poi non mancano i momenti di
stanchezza, di rabbia, di delusione, di fallimento, e quando nemmeno nella
preghiera riusciamo a trovare ancora la quiete dell’anima, un buon libro ci
aiuta almeno a superare la tempesta», aprendoci alla possibilità di altri
viaggi. Illuminanti e precise sono le parole di Franz Kafka: «Un libro deve
essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi».
Un
libro è un laboratorio interiore portatile, uno strumento minuzioso per
ampliare la visione, un intercomunicatore tra silenzi, un tessitore di
comunità, un rifugio nella foresta o un sentiero che porta oltre.
Penso
al bellissimo saggio di Marcel Proust sulla lettura, in cui ci dice che essa «è
per noi l’iniziatrice le cui magiche chiavi ci aprono al fondo di noi stessi
quelle porte che noi non avremmo mai saputo aprire».
È
vero.
Chi
ha inventato il libro ha inventato il silenzio della lettura; ha inventato
quella forma intima di temporalità che rende l’incontro con il libro
indissociabile dall’incontro con noi stessi; ha inventato l’attenzione,
l’avventura della conoscenza elaborata a partire da certe premesse, e la
curiosità; ha inventato un regime sociale in cui l’attività intellettuale era
ammessa e, non dobbiamo dimenticarlo, quel regime ha liberato l’uomo,
rivelandogli la sua dignità; ha inventato il diritto universale all’alfabetizzazione
e moltiplicato le comunità di lettori; ha inventato l’individuo e la vita
privata; ha inventato la fiducia nella consistenza del linguaggio e le
biblioteche; ha inventato i salotti letterari, i caffè e le piazze come luoghi
di dibattito; ha inventato i sistemi critici ed ermeneutici che garantiscono
non solo la leggibilità dei libri ma anche la comprensione dei mondi possibili;
ha inventato le scuole monastiche e l’idea moderna di università; ha inventato
l’umanesimo e la libertà di espressione, che è sempre inseparabile dalla
libertà di essere.
E,
dal momento che è una verità così necessaria, dobbiamo chiederci: noi sappiamo
davvero che cos’è un libro?
T.S.
Eliot è stato per otto anni impiegato alla Lloyd’s Bank di Londra.
Passava
le sue giornate nell’ufficio sotterraneo che gli era stato assegnato, e durante
tutto l’orario di lavoro sentiva i passi di chi gli camminava sopra la testa.
Il
suo stipendio: due sterline e dieci scellini.
Lavorava
dalle 9.15 alle 17.00 e, in una delle prime lettere che di là scrisse alla
madre, si diceva felice di potersi dedicare alla poesia nel tempo restante.
Con
il passare degli anni, però, era come se gli venisse a mancare l’aria.
Prendeva
il treno per la City, vestito di scuro, con l’ombrello appeso al braccio, i
capelli impeccabili, con la riga in mezzo, irreggimentato in una folla tutta
vestita allo stesso modo.
Nel
suo libro La terra desolata lascerà questo resoconto: «Città irreale, / sotto
la nebbia marrone di un’alba invernale, / una folla scorreva sul London Bridge,
così tanta / ch’io non avrei creduto che morte tanta n’avesse disfatta».
Il
poeta Philip Larkin lavorò come bibliotecario praticamente per tutta la vita,
essendosi reso conto che non sarebbe riuscito, per quanto lo agognasse, a
vivere solo di scrittura.
Dopo
la giornata di lavoro si chiudeva in casa, evitando uscite che lo distraessero.
Cenava,
lavava i piatti e si metteva a scrivere.
Alla
vigilia dello scoppio della Seconda guerra mondiale, Graham Greene viveva in
uno stato di disperazione.
Aveva
bisogno di tempo per completare quello che riteneva il suo miglior romanzo, Il
potere e la gloria.
Allo
stesso tempo temeva però di morire e di lasciare la sua famiglia sguarnita dal
punto di vista economico.
Si
risolse allora a scrivere uno di quei thriller veloci che garantivano una buona
remunerazione.
Si
chiudeva tutta la mattina in una stanza presa in affitto per lavorare al giallo
e il pomeriggio rincasava per scrivere Il potere e la gloria.
Nel
1951, quando i medici le pronosticarono non più di quattro anni di vita,
Flannery O’Connor tornò con sua madre nella terra natale, nella vecchia
fattoria di famiglia chiamata "Andalusia". Sapeva che il pomeriggio
si sarebbe ritrovata esausta e febbricitante, come in uno stato influenzale, e
che la sera avrebbe avuto la mente bianca e vuota come un piatto.
Le
restavano, per quei quattro anni, soltanto le mattinate.
Si
svegliava alle sei, prendeva un caffè con la madre mentre ascoltavano le
previsioni del tempo alla radio, andava alla messa delle sette nella chiesa più
vicina e poi, fino a mezzogiorno, scriveva solitaria nella sua stanza.
Ricordo
lo scrittore Thomas Mann che, partendo in esilio per gli Stati Uniti, volle
leggere e commentare, durante la lunga traversata oceanica, il Don Chisciotte
di Cervantes.
Ricordo
l’ebrea olandese Etty Hillesum che, nell’essenziale zaino con cui entrò in un
campo di concentramento, scelse di non mettere oggetti ma due libri: la Bibbia
e il volume di poesie di Rainer Maria Rilke.
Oppure
quella storia testimoniata dal teologo Romano Guardini, che racconta come, in
una delle grandi battaglie dell’ultima guerra, un distaccamento si vide a un
certo punto in situazione disperata.
«Il
cappellano militare, sentendo che non aveva nulla da dire di accettabile in
quell’ora, tolse di tasca il proprio Nuovo Testamento, ne strappò le pagine e
ne diede una a ogni soldato».
La strofa finale della poesia di Walt Whitman mi è sempre sembrata il preciso ritratto della responsabilità che gli scrittori sentono nei riguardi dei lettori, questi sconosciuti cui dedicano il meglio della loro vita:
«Devo pensare a te quando siedo in disparte o mi sveglio di notte, tutto solo,
Devo aspettare, perché t’incontrerò di nuovo, non ho dubbi,
Devo vedere come non
perderti più».
* Cardinale Prefetto del Dicastero per la Cultura e l'Educazione
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