Delle
quattro virtù cardinali, la prudenza è la virtù regina, perché permette a
un’azione di essere perfetta, raggiungendo un fine buono, con mezzi buoni.
I
vizi opposti alla prudenza: imprudenza, negligenza, falsa prudenza.
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di Luisella Scrosati
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Ricordo
che quando parliamo di virtù cardinali intendiamo un duplice aspetto, cioè la
virtù acquisita – dunque, il versante umano, naturale della virtù – ma anche la
virtù infusa, cioè un dono soprannaturale che ci viene dato con l’infusione
della carità e che serve all’uomo per poter vivere le virtù all’altezza della
sua chiamata, all’altezza della dimensione della fede e della vita
soprannaturale.
La
prudenza viene classicamente definita come recta ratio agibilium. Cosa
vuol dire? Si intende la retta ragione non tanto delle cose che si fanno
(perché sennò potremmo entrare nel campo delle discipline produttive), quanto
invece delle azioni umane. In pratica la prudenza è la virtù regina. Perché?
Perché è quella che permette a un’azione umana di essere perfetta, di una
perfezione sempre relativa, ma perfetta in quanto atto proprio dell’uomo e in
quanto atto proprio del cristiano. Il che è come dire che tutte le altre virtù
hanno bisogno in qualche modo della prudenza. Supponiamo, un atto di
temperanza: perché sia veramente un atto virtuoso, richiede l’intervento della
prudenza: quindi, un atto veramente temperante è anche un atto prudente. Un
atto di coraggio, relativo alla fortezza, è sempre anche un atto prudente. Cioè
un atto non prudente, un atto imprudente non è mai un atto virtuoso, questo è
l’altro lato della medaglia di quello che stiamo affermando.
La
regina delle virtù
Ma
perché la prudenza è la regina delle virtù? E perché in fondo nessun atto può
essere ritenuto virtuoso senza la prudenza? Appunto perché la prudenza è questa
recta ratio agibilium. Che cosa significa questa espressione? Quando noi
pensiamo a un’azione umana, percepiamo subito che un’azione umana non è la
stessa cosa della conoscenza di princìpi. Cioè, i princìpi hanno due
caratteristiche: anzitutto, io posso anche scrivere un libro su un principio e
non attuarlo mai, dunque facendo mancare la dimensione attuativa. E proprio
perché manca questa dimensione attuativa, mancano quegli elementi che rendono
singolare ogni azione dell’uomo. Che cosa significa? Molto semplicemente, ogni
azione dell’uomo è sempre declinata in una concretezza che è pressoché irripetibile,
perché c’è un tempo, c’è un luogo, ci sono delle circostanze, delle qualità e
capacità di una persona, ci sono diversi fattori che entrano in gioco.
In
questa complessità, il principio generale non riesce a entrare: non che non
abbia nulla a che vedere con l’azione, ma comprendiamo che la circostanza
precisa nella quale mi viene chiesto di agire ha sempre tante variabili che non
sono prevedibili in senso astratto, evidentemente. E dunque la prudenza è
quella virtù che mi permette di trovare, nella situazione concreta e unica
nella quale sono chiamato ad agire, i mezzi per raggiungere il fine buono della
mia azione, gli strumenti per raggiungere il fine buono, la strada che mi porta
alla meta buona.
Che
cosa si comprende già qui? Che la prudenza è sempre legata al fine, ma non si
esaurisce nel porre il fine, perché essa si rivolge principalmente ai mezzi,
alla via, agli strumenti, alle modalità per raggiungere quel fine. L’uomo è
prudente, dunque, quando evidentemente pone un fine buono e quando è capace di
scegliere e di attuare, di porre realmente in atto quei mezzi adeguati a
raggiungere questo fine. Quindi, ci sono due versanti che vanno sempre tenuti
insieme. Perché? Perché io potrei avere dei fini non buoni e prendere dei mezzi
ottimi per raggiungere un fine non buono. E questa è la “prudenza” che potremmo
chiamare una “prudenza mondana”, una “prudenza della carne”, cioè quella
“prudenza” che non guarda alla bontà del fine, ma semplicemente a trovare quei
mezzi per raggiungere un fine che di per sé può anche essere cattivo. Questa è
una corruzione della prudenza, non è vera prudenza. La prudenza del mondo,
potremmo dire, è una falsa prudenza perché, pur arrivando esattamente dove
vuole arrivare – c’è una grande abilità, astuzia nel far girare le cose per
raggiungere uno scopo –, persegue uno scopo negativo, lo scopo è sbagliato, non
è buono.
Oppure,
l’altro difetto della prudenza qual è? Pur intendendo un fine buono, nella
situazione concreta i mezzi scelti o non sono adeguati o, peggio ancora, sono
mezzi cattivi. E dunque anche in questo caso non abbiamo un’azione prudente.
C’è
un altro aspetto importante: la prudenza non si ferma sul lato della
riflessione, su quali sono in una precisa circostanza i mezzi adeguati per
raggiungere il fine, ma implica anche una determinazione, cioè un passaggio
all’atto. Se rimane solo a un punto di vista teorico-riflessivo, la prudenza,
come virtù, resta incompiuta, resta monca, perché in realtà la prudenza ha a
che fare precisamente con l’azione e con l’imperativo di agire. Io posso avere
una fase riflessiva, un fine buono, dei mezzi perfetti, ma non li attuo: la mia
“azione” in questo caso è un’omissione, non è prudente evidentemente.
Fatto
questo quadro generale, vediamo tre considerazioni che a mio avviso aiutano a
inquadrare meglio questa regina delle virtù.
La
prudenza non crea il bene, non crea il vero, ma li riconosce, li recepisce.
Cioè, una prudenza che mi porta a sovvertire la legge divina, la legge morale,
la legge naturale è per sé stessa una falsa prudenza. Ripeto, la prudenza non
crea il bene. Attenzione, perché c’è un’espressione importantissima e vera che,
se intesa male, diventa fuorviante, cioè: la prudenza è la norma prossima di
un’azione. È assolutamente vero, perché l’azione è determinata, dettata
precisamente dall’atto prudente. E tuttavia, questo è il punto chiave, una
norma prossima non è una norma remota, il che è un modo per dire quello che ho
comunicato in precedenza: non è la prudenza che crea il bene, il fine buono. Il
fine buono è il presupposto, in quanto buono. E dunque la prudenza ha sullo
sfondo, per così dire, un atteggiamento recettivo, riconosce. E poiché
riconosce, pone in atto delle azioni adeguate a portarmi a quel fine nella
circostanza concreta in cui devo porle in atto.
La
prudenza non coincide con la coscienza: sono un po’ parenti,
chiaramente, non sono del tutto estranei, però che differenza c’è? Intanto,
dobbiamo intendere la coscienza in termini classici. Invece, la coscienza
intesa in senso moderno è quasi un rovesciamento della virtù della prudenza,
perché la coscienza in senso moderno è in qualche modo creatrice del valore di
qualcosa, mentre invece la coscienza e la prudenza nel senso classico sono
recettive; la coscienza fa risuonare la voce del bene e del vero, non la produce.
Ma anche dal punto di vista della concezione classica, la coscienza si ferma
sull’aspetto riflessivo; invece abbiamo visto che la prudenza si compie
precisamente nel governare un’azione, dunque nell’agire concreto.
La
prudenza coincide con la bontà di un’azione. L’uomo prudente
è l’uomo buono. Non c’è differenza. Ripeto: la prudenza coincide con la bontà,
un atto prudente è un atto buono. E così l’uomo prudente, l’uomo che ha
acquisito la virtù della prudenza è l’uomo buono. Perché? Di nuovo, lo si può
comprendere mettendo in fila le considerazioni che abbiamo fatto fino adesso.
Se la prudenza è ciò che porta a perfezione un’azione, se la prudenza è ciò che
abbraccia il fine buono e i mezzi buoni per raggiungere quel fine e li pone in
atto, comprendete che un’azione così caratterizzata è un’azione buona, e un
uomo che così agisce è un uomo buono. Dunque, prudenza e bontà coincidono.
Diventa
importante recuperare la virtù della prudenza, che è indispensabile. È
impossibile la vita buona nell’uomo – nella sua dimensione naturale e in quella
soprannaturale – senza questa virtù. Non è una virtù accessoria, qualcosa che
uno può avere e l’altro può non avere; è chiaro che più una persona è chiamata
a gestire non solo i propri atti, ma ad avere anche un’autorità su altri, sulla
famiglia, sulla comunità sociale, eccetera, maggiormente ha bisogno di una
prudenza che abbracci queste dimensioni. Ma si comprende che l’uomo in quanto
uomo, anche l’uomo che vive da solo in un’isola deserta, in quanto tale, in
quanto deve agire, in quanto persona che agisce, o è prudente o i suoi atti non
sono perfetti e dunque non sono buoni, sotto uno degli aspetti che abbiamo
visto, dal punto di vista del fine, dal punto di vista dei mezzi o di entrambe
le cose.
Questa
sovrapposizione tra la prudenza e la bontà è dunque un punto importante.
La
nostra modalità conoscitiva ci permette spesso di cogliere maggiormente una
verità vedendola in chiaroscuro. E dunque proviamo a vedere “lo scuro” – dopo
aver visto il chiaro – per far emergere meglio il chiaro. Che cosa è “lo
scuro”? Sono i vizi opposti alla prudenza. È molto importante perché, come
accennavamo all’inizio, c’è una concezione della prudenza veramente deviata,
falsata, per cui in qualche modo l’uomo prudente viene associato all’uomo
furbo, all’uomo astuto, all’uomo che scansa sempre il pericolo, le situazioni
difficili: questa è proprio la caricatura peggiore che si possa fare di questa
virtù.
Vediamo
come san Tommaso presenta le tre grandi categorie dei vizi opposti alla
prudenza, cioè: l’imprudenza, la negligenza e la falsa prudenza. Se la prudenza
indica la rettitudine dell’azione, dell’azione buona, l’imprudenza, come dice
la parola, indica l’allontanamento dalla rettitudine dell’azione. La prudenza
abbraccia tre aspetti, cioè: il consiglio, il giudizio e l’azione. E
l’imprudenza può colpire questi tre aspetti, il perché è intuitivo.
Il
consiglio è la fase di raccolta di input e può essere il
consiglio concreto di una persona, il consiglio che viene dalla memoria di
un’esperienza compiuta, il consiglio che viene da altre persone magari non
viventi, dagli studi, dalle letture, insomma tutto questo bagaglio che fa parte
della fase del consiglio per cercare i mezzi giusti.
Il
giudizio
Qual
è il difetto sul lato del consiglio? Chiaramente è la precipitazione, cioè la
persona che agisce per impulso, agisce spinta dalle passioni. E le passioni più
violente sono quelle che riguardano la sfera del concupiscibile.
Tutte
le virtù si legano fra di loro. Noi distinguiamo perché è il modo umano di
conoscere e poi di trasmettere la conoscenza, ma in realtà le virtù sono legate
e c’è un unico atto della persona. Dunque, capite che la temperanza entra
fortemente a sostegno della prudenza. Perché, se non c’è la temperanza, la
persona agisce per esempio sotto l’impulso della lussuria o della gola o anche
dell’avarizia. Infatti, per san Tommaso le due grandi passioni deleterie che in
qualche modo impediscono l’azione prudente, e quindi l’azione buona, sono la
lussuria e l’avarizia, i due vizi che erodono la prudenza.
La
precipitazione è proprio questo agire su impulso della passione, agire non per
aver fatto un’adeguata fase di consiglio, di consultazione, ma perché si è
spinti da altro. è chiaro che nella fase del consiglio entrano in modo
importante le leggi. Se andate a rivedere la lezione relativa alla legge,
vedete come diventa importantissima la funzione della legge in questa fase del
consiglio, per cui ci può essere, in una persona impulsiva, la temerarietà di
disprezzare la legge. Quando parlo di legge, non intendo qualsiasi legge: vi
rimando all’approfondimento.
L’inconsiderazione
e l’imprudenza
Oppure,
sull’atto del giudizio, che cosa può succedere? Si può avere
l’inconsiderazione. Che cos’è l’inconsiderazione? Si trascurano aspetti,
situazioni necessari per arrivare a un retto giudizio, cioè si tralascia quello
che si poteva fare per arrivare a un retto giudizio. Dunque, l’inconsiderazione
indica che non si è preso in considerazione ciò che si doveva. È chiaro che non
si tratta di prendere in considerazione tutto lo scibile umano, però la persona
è tenuta a valutare tutti gli aspetti che entrano in un’azione, almeno tutti
gli aspetti che si comprende possano entrare in una certa azione. Qui c’è una
dimensione molto delicata, dove molto spesso quelli che noi chiamiamo “peccati
di ignoranza” sono in realtà inconsiderazioni, cioè quando una persona non ha
tenuto in considerazione, ha tralasciato quello che poteva e doveva fare per
avere un giudizio più chiaro. Lo ha fatto con una certa colpevolezza, con una
certa malizia, una trascuratezza colpevole.
Il
terzo lato è quello dell’azione. Il vizio che erode l’azione della prudenza è
l’incostanza. L’incostanza è il difetto non del consiglio, non del giudizio, ma
dell’atto. Dunque, io mi ritrovo a dare un comando non sufficientemente
determinato, un comando flebile, che non ha una tenuta, e così la persona
facilmente recede, indietreggia dall’atto prudente. È un difetto quindi
dell’azione.Questo per quanto riguarda l’imprudenza.
La
negligenza
Poi
abbiamo la negligenza. La negligenza è un difetto della prontezza della
volontà. Ricordate quello che dicevo all’inizio e poi ho ripetuto: la prudenza
non termina con il giudizio, frutto del consiglio e della riflessione: termina
nell’atto. Ora, la persona negligente è la persona che non ha la prontezza
della volontà, è la persona che in qualche modo lascia che le situazioni
accadano e non si determina all’atto prudente. È un po’ diverso
dall’incostanza. L’incostanza indica un comando debole, che fa recedere. Qui
abbiamo invece una mancanza della prontezza dell’atto, cioè una persona non è
prudente per il fatto che non comanda l’atto, ma lascia in qualche modo passare
le situazioni. È interessante, perché anche non decidere può essere un atto
moralmente cattivo, non determinarsi a qualcosa rende un atto imperfetto o
addirittura colpevole, a seconda delle situazioni.
La
falsa prudenza
Poi
abbiamo l’ultima categoria, che è quella della falsa prudenza. Dunque, abbiamo
visto l’imprudenza con le sue tre determinazioni: la precipitazione, che
riguarda la fase del consiglio; l’inconsiderazione, che riguarda la fase del
giudizio; l’incostanza, che riguarda l’azione vera e propria. Poi abbiamo visto
la negligenza.
E
ora vediamo il gruppo della falsa prudenza, cioè quelle forme di “prudenza” che
assomigliano alla prudenza, ma sono in realtà la sua contraffazione, la sua
perversione. La prima di tutte è quella che viene chiamata prudenza della carne
o prudenza del mondo. In sostanza, viene sbagliato, viene mancato il fine. Il
fine ultimo verso cui la persona si muove, nella sua deliberazione, nella sua
azione, è un fine sbagliato, disordinato. Cioè, i beni della carne, i beni del
mondo sono considerati e diventano il fine di un atto che va in una direzione
che non è la direzione del bene. C’è un disordine, questi fini vengono
assolutizzati. Dunque, qui abbiamo la prudenza della carne, la prudenza del
mondo, che è molto diffusa. Quando Nostro Signore dice: «i figli di questo
mondo (…) sono più scaltri dei figli della luce» (Lc 16,8), che cosa sta
denunciando? Sta denunciando la falsa prudenza, la prudenza della carne, la
prudenza del mondo, cioè un gran lavorio nella riflessione, nel giudizio,
nell’azione, ma per dei fini sbagliati, disordinati.
L’astuzia
Poi
abbiamo un’altra contraffazione molto diffusa che è l’astuzia. Che cosa fa
l’astuzia? A differenza della prudenza del mondo, l’astuzia mi può dare un fine
buono, un fine ordinato. Ma ciò che non è ordinato, ciò che non è buono, ciò
che non corrisponde al vero sono le vie scelte, i mezzi scelti: puoi avere un
fine buono ma mezzi cattivi, da cui il famoso “il fine giustifica i mezzi”.
Dunque, si ricorre all’astuzia in pratica in che modo? Con la frode, l’inganno,
la simulazione, cioè tutti mezzi non buoni, con l’idea che si debba raggiungere
un fine buono. Ora, anche questa, per san Tommaso, è chiaramente una falsa
prudenza. La prudenza della carne lo è quanto ai fini, l’astuzia quanto ai
mezzi scelti, che sono appunto mezzi non buoni, ingannevoli.
Terza
e ultima categoria della falsa prudenza è la sollecitudine per le cose
temporali, che può somigliare alla prudenza della carne, ma ha una sfumatura
diversa. In pratica, esse non diventano propriamente, come nel caso della
prudenza della carne, il fine ultimo della vita: permane una proporzione e
l’ordine tra fine ultimo e fine intermedio. Tuttavia, dedichiamo a questi fini,
alle cose temporali in sostanza, talmente tanto impegno, talmente tanto tempo,
talmente tanta enfasi, da metterli in primo piano. È in pratica, sottolinea san
Tommaso, la mancanza di fiducia nella divina Provvidenza, cioè l’eccessivo
affannarsi per le cose di quaggiù, anche se non c’è ancora un’inversione del
fine. Tuttavia, c’è questo affanno e c’è questo eccessivo timore di perderle
queste cose.
Dunque,
qui abbiamo una forma di falsa prudenza: non siamo mai abbastanza sicuri di
avere custodito il nostro tesoro temporale, che può essere di beni materiali,
di beni intellettuali; siamo sempre in apprensione per il timore di perderli. E
quindi ogni volta perdiamo tempo, forza, risorse per essere ancora più sicuri
di averli al sicuro: questa è la logica che sta dietro a questo tipo di falsa
prudenza. Pensiamo per esempio alla sollecitudine per il futuro, che non
significa non essere previdenti, ma è un eccesso della previdenza. Cioè, la
previdenza è: “faccio quello che devo oggi per dispormi per quanto posso il
domani”. Qui invece è proprio andare oltre a quello che debbo fare, al mio
dovere e, quindi, non avere fiducia nella Provvidenza divina, in Dio stesso che
guida la vita, la storia. Questa è una forma di falsa prudenza.
La
Bussola
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