Pagine

martedì 30 aprile 2024

GIOCARSI LA VITA


 Siamo fatti per giocarci la vita, eroi di una squadra in cui siamo chiamati a trasformare il destino, regole e limiti, in destinazione, azioni da goal.

 

-        - di Alessandro D’Avenia

-          

Amo il calcio da quando sono bambino. L'ho praticato ovunque, dal corridoio al campetto, sull'erba o sulla sabbia, in strada o in un parcheggio. Da dilettante, chi si diletta, cioè gode.

Amo altrettanto guardarlo, ancor più da quando ho smesso di giocare per la terza frattura al polso sinistro («La prossima volta non lo recuperiamo», mi ha detto il chirurgo), cicatrici che non cancellerei in cambio di una vita senza calcio. Pasolini giocava come ala e faceva un tifo sfrenato per il Bologna: per lui il calcio conservava il sacro popolare più delle messe (allo stadio la gente si stringe con più verità che al segno della pace). Saba, conquistato dall'atmosfera del tifo, ne scrisse in poesia. Luzi ne dedicò una struggente al grande Torino scomparso nel disastro aereo di Superga. La leva calcistica del '68 di De Gregori mi fa ancora sognare. Le ragioni di questo amore per il calcio mi si sono chiarite una volta di più nel finale del recente derby tra Milan e Inter, che ha attribuito lo scudetto alla squadra supportata da mio padre, mentre io, «guidato» dai miei fratelli all'età di 5 anni, mi schierai dal lato opposto. A dieci minuti dal termine della partita, che l'Inter conduceva per 2 a 0, il Milan ha segnato. Il commentatore ha urlato: «Si riapre la partita» e a me si è riaperto il cuore, come se si trattasse della vita stessa. Qual è il segreto del giocare e in particolare al calcio?

Come tutti i giochi anche il calcio mostra ciò che è umano nell'uomo. Giocare ci rende felici perché imita la vita come nient'altro, tanto che al verbo ludico diamo la massima estensione umana possibile: «giocarsi la vita».

Gli studiosi spiegano che in tutte le culture il godimento del gioco dipende dalle regole. Sembra strano per noi che cerchiamo la felicità nella libertà, nell'assenza di condizionamenti. Invece il gioco ci ricorda che siamo veramente liberi solo nei e non dai legami.

L'uomo gode a trovare la propria via, originalissima e creativa, in mezzo ai limiti: giocare è la rappresentazione della vita come destino e destinazione. Il destino è ciò che non scegli, la destinazione che cosa fai con le carte (altra immagine ludica) che ti capitano.

Nel calcio, come in molti giochi, i limiti sono spaziali e temporali: rettangoli le cui linee sanciscono zone più o meno sacre, da custodire o conquistare, e porzioni di tempo con recuperi commisurati al «non gioco» (non vita). Gli attori agiscono dentro questo spazio-tempo: il destino. Non ci si potrebbe divertire senza confini (la prima cosa che si faceva da ragazzi, improvvisando una partita, era piazzare due zaini come pali e ci si scannava per immaginare l'altezza della traversa nei tiri alti...), né senza orologi (il fatidico «chi segna vince» delle «infinite» partite interrotte solo dal buio).

 Ma il calcio, ai limiti di spazio-tempo che ha in comune con tanti giochi, aggiunge un azzardo. È un gioco contro-evolutivo: preferisce il piede, meno sensibile e duttile, alla mano, da cui è invece cominciata l'evoluzione. Dentro questi «legami», garantiti da un giudice (l'arbitro vituperato proprio perché rappresenta e custodisce «il limite»), i giocatori si esaltano, cercando di trasformare il destino in destinazione, il limite in gioia.

Non è forse questa la vita: un perimetro di spazio e di tempo dato una volta sola a ciascuno di noi? Non è la vita un'azione che siamo chiamati a fare entro limiti che non scegliamo?

La passione per il calcio lo è per la vita così com'è: cercare, nei legami, la propria originalità. Anche sulla lapide ci sono scritte le regole del gioco della vita: luogo e data di nascita/morte. Le regole grazie alle quali siamo come tutti ma anche come nessuno. Ce la dobbiamo giocare in questo limite spazio-temporale, e quindi la chiave è nel trattino tra quelle scritte del nascere e del morire: agire, nel calcio l'azione, nella partita, cioè la parte che ci è data, sia come «porzione» di storia umana, sia come «ruolo» da interpretare in quella storia. Come me la gioco?

Agire entro dei limiti, nel proprio ruolo, con altri, non assomiglia alla vita?

Essere convocati, rimanere in panchina, scendere in campo non sono tutte metafore dell'esistenza? E oltre ai limiti previsti e fissi, ci sono gli avversari (le «avversità» della vita), limiti imprevisti e mutevoli. Non sono nemici, ma occasioni e resistenze: e chi non ne incontra nel mondo? E poi il risultato a volte non corrisponde all'essere stati superiori e non sempre vince il più forte, perché, nella vita come in questo gioco, c'è sempre la sorpresa di una grazia inattesa.

Chi gioca o guarda confida sino all'ultimo in un guizzo, anche in partite noiose e bloccate, perché il goal non è come il punto, è raro e non garantito. Il risultato può anche essere un pareggio, e come era bello, in origine, affidare non ai rigori ma al caso, una monetina, la vittoria, perché sul campo si è pari.

Siamo fatti per giocarci la vita, eroi di una squadra in cui siamo chiamati a trasformare il destino, regole e limiti, in destinazione, azioni da goal.

Il calcio mima ed esorcizza anche la guerra con il suo lessico: strategie e tattiche, attacco e difesa, ali e centro, incursioni e assedi, barriere e cannonate, infortunati e sostituti... ma della guerra non ha la violenza mortifera, tranne quando i giocatori e le tribù di supporto dimenticano stupidamente che è solo un gioco, una rappresentazione, come a teatro (to play dicono gli inglesi per l'agire in scena e per il giocare).

E in tempi così ottusamente bellici, capisco meglio perché amo il calcio, perché, come ogni gioco, è un sogno: un giorno saremo così evoluti da abbandonare gli scontri armati per dedicarci solo a quelli sportivi. Sapremo mai giocarci così umanamente e gioiosamente la vita?

 

Alzogliocchiversoilcielo

 

 

 

LA MESSA E' SBIADITA

RIPARTIRE 
DALLE PARROCCHIE

DALLE  ASSOCIAZIONI

 "Occorre approfondire la fede e non spettacolarizzarla”

 

-        -  di Luca Diotallievi

"L'errore è stato ritenere che fosse possibile recuperare la pratica religiosa non attraverso un puntuale lavoro sulle coscienze, ma puntando su un approccio sicuramente attraente ma forse superficiale. La fede non ha bisogno di essere spettacolarizzata ma seguita e alimentata". Luca Diotallevi, docente di sociologia all’Università di Roma Tre, presenta il suo ultimo libro "La Messa è sbiadita"

Sempre più anziani a partecipare alla messa, con le donne che tendono ad allontanarsi dalla chiesa e un calo del riavvicinamento alla pratica religiosa dopo l’età adulta. È un quadro preoccupante quello che esce da “La Messa è sbiadita. La partecipazione ai riti religiosi in Italia dal 1993 al 2019” (Rubbettino) a firma di Luca Diotallevi, docente di sociologia all’Università di Roma Tre.

 Il calo delle persone che partecipano alla messa è drastico: dal 1993 al 2019, almeno un terzo di praticanti è sparito. Cosa sta succedendo?

I processi religiosi, a differenza di quelli finanziari, hanno una forte inerzia: se cresce l’inflazione ce ne accorgiamo il giorno dopo, se cala la partecipazione alla messa occorrono decine di anni per osservare gli effetti. Il punto di rottura sono gli anni Sessanta, ma il calo lo abbiamo iniziato a vedere quando le generazioni di allora e quelle successive hanno iniziato a prendere la scena. Non è un caso, poi, che all’inizio degli anni Ottanta inizi a crescere anche l’età media del primo figlio e dell’ordinazione presbiterale. Tutti elementi che certificano il classico esempio di ritardo del passaggio all’età adulta da parte di coloro che hanno “fatto” il Sessantotto.

 Con quali conseguenze?

La secolarizzazione, ovvero la crescente inadeguatezza e mancanza di partecipazione rispetto alla formazione religiosa e a quella dei riti. Negli anni Sessanta venivamo dal Concilio Vaticano Secondo e dal pontificato di Paolo VI, entrambi avevano perfettamente compreso il fenomeno Sessantotto.

  La modernità è un momento provvidenziale che richiede però una fede più profonda. Non audience, ma fede vera, che non si recupera con interventi improvvisati.

 L’errore è stato ritenere che fosse possibile recuperare la pratica religiosa non attraverso l’approfondimento e un puntuale lavoro sulle coscienze, ma puntando su un approccio sicuramente attraente ma forse superficiale. La fede non ha bisogno di essere spettacolarizzata ma seguita, alimentata. Le Giornate mondiali della gioventù ad esempio, ci dicono di milioni di giovani infervorati da Cristo, presenti a un evento importante. Se guardiamo alla partecipazione alla messa, dove sono finiti i due milioni di ragazzi presenti a Tor Vergata per il Giubileo del 2000? Una cosa è assistere a un concerto per ascoltare il nostro cantante preferito, altra cosa è imparare a suonare. E per imparare a suonare non devi andare solo al concerto, ma al conservatorio. Dove si studia con fatica dieci anni e non basta pagare il biglietto.

 Dalla metà dei primi anni Duemila si assiste a una ulteriore accelerazione dell’allontanamento dalla messa…

I fenomeni di interazione, che richiedono la presenza fisica delle persone, si riducono. Cerchiamo di capirci, non è che la gente non va più a messa perché frequenta la sezione del partito o altri luoghi di aggregazione: non va a messa perché resta a casa. Questa erosione della componente corporea ha avuto un’immediata ripercussione sulla celebrazione eucaristica. Non basta spettacolarizzare la liturgia o proporre celebrazioni televisive con milioni di persone. Al di là degli impedimenti personali, c’è chi ormai segue la messa in casa mentre fa altre cose oppure la vede registrata appena ha un attimo di tempo.

  Insomma, la messa non è più un rito sacro, che necessita un adeguato approccio prima e durante il suo svolgimento, ma un appuntamento come tanti altri. Il rischio è trasformare il sacramento in immagine.

 È definitivamente in crisi la pratica religiosa confessionale?

È certamente in crisi la forma religiosa dominante nell’Europa continentale dal XVI al XX secolo. Alcuni si rifugiano nel neo-confessionalismo, cercando uno spazio dietro all’uomo forte di turno, che sia di destra o di sinistra. Poi c’è chi si affida alla commercializzazione, alla commodification of religion, ma la Chiesa su quel terreno è in difficoltà, perché si porta dietro venti secoli di tradizione. Infine, c’è l’intuizione di Paolo VI che nella Evangelii Nuntiandi parlava già allora della complessità dell’azione evangelizzatrice. E in più tracciava la strada da seguire. A volte mi sembra, invece, che il generoso impegno profuso oggi dalla Chiesa vada in altre direzioni col rischio di disperdersi. Non stiamo buttando via una cosa andata a male, ma una ricchezza inestimabile.

 La diminuzione della pratica religiosa ha conseguenze anche a livello sociale?

Negli anni Settanta andare o non andare a messa faceva la differenza in tante cose, dalla partecipazione politica alla cultura. Tutte queste correlazioni oggi sono venute meno. Il cristianesimo sta diventando un fenomeno ad altissima compatibilità, va bene con tutto e non è contraddistinto da niente.

 Dunque, è un’Italia che perde l’identità?

Se alla società italiana togli il contributo del cattolicesimo, il cambiamento è davvero epocale. L’acqua che esce dal rubinetto dei cattolici ha irrigato e continua ad irrigare il Paese. Si sta impoverendo la vita sociale, la partecipazione alla messa non ha più relazione neanche con le reti amicali.

 Nel libro evidenzia che il calo dei laici è di gran lunga superiore alla crisi vocazionale dei sacerdoti…

Il carico di lavoro del prete è calato, i sacerdoti ordinati sono il 62% di quelli ordinati negli anni Novanta ma non c’è paragone con i laici che si recano in chiesa scesi al 23,7%. Dunque, magari bisogna riorganizzare le strutture e ottimizzare le parrocchie in base al numero di abitanti ma i preti ancora ci sono, di meno ma ci sono. Ciò invece cui andiamo incontro è una forte riduzione della platea dei praticanti, soprattutto perché una parte significativa di quelli attuali è costituita da persone anziane.

  Le classi dei 40enni e dei 50enni di oggi che partecipano sono molto meno numerose. Nel giro di qualche anno assisteremo non tanto a un progressivo diminuire, ma a un vero e proprio tracollo. È un fatto fisiologico.

 Inoltre, non avremo più una comunità prevalentemente femminile. Tra 10 o 15 anni, se la tendenza non cambia, le comunità saranno piccole e meno sbilanciate. Magari si potranno fare cose oggi impossibili.

 L’unica relazione che regge è quella con il volontariato: chi va a messa, risulta essere più coinvolto nelle attività solidali…

Il nesso fra partecipazione alla messa e disponibilità alle azioni di carità è l’unica relazione che perdura. Ma spesso è un’azione di carità cieca e fine a se stessa perché, se non si sta dentro un’istituzione, non si percepisce la finalità di certe azioni. Tuttavia si è certamente più disponibili a compiere gesti di solidarietà personale.

 Da dove ripartire?

Si può ripartire soltanto dalle parrocchie e dalle associazioni, che vivono nella parrocchia. Più attenzione all’operatore pastorale, il cosiddetto volontario che in parrocchia fa un po’ di tutto. Lì dove è stato adottato, come in Germania ad esempio, è risultato essere il killer dell’apostolato. Diventa l’unico laico di cui ti puoi fidare. Ma un laico che vive in pieno la sua laicità è un laico che di fatto non ha tempo, perché è impegnato nella professione, nella famiglia, nel sociale. Mi domando: se un laico ha tanto tempo, che laico è? Quando lavora, quando sta con il coniuge, quando fa politica, quando sta con gli amici? Se porti il laico dietro l’altare e gli metti la tunica, magari lo fai contento ma rischia di diventare l’impiegato di un ufficio postale di un paesino dove nessuno spedisce più lettere.

Fonte: Agensir

AVA, PER MIGLIORARE LE UNIVERSITA'


Lo scopo dei sistemi come Ava è garantire la conformità nelle università. 

Ma davvero da quando si applica questo metodo la qualità degli atenei è migliorata?

 

-di Stefano De Luca

Non so quanti lettori sappiano che cos’è Ava. Quelli più giovani potrebbero pensare che sia il nome dell’ultimo androide femminile creato dalla Hanson Robotics. Per quelli nati negli anni Sessanta, come me, è invece indelebilmente legato alla pubblicità televisiva di un noto detersivo, il cui protagonista era il pulcino Calimero e il cui slogan era “Ava come lava!”. Ma per chi ha la ventura di conoscerlo nel suo significato “accademico”, questo nome – anzi, questo acronimo – evoca ben altri scenari.

Anzitutto, una selva di altri acronimi (il più temuto è Cev, ma non vanno sottovalutati né Opis, né Nuv o Pqa o Cpds, per non parlare di Sma e Sua). In secondo luogo, un complesso labirinto di procedure, ciascuna delle quali deve lasciare dietro di sé uno o più verbali o documenti, che rimandano ad altri documenti in un sistema complicato, circolare e spesso ripetitivo, per non dire copiativo. In terzo luogo, una montagna di adempimenti, alla sommità della quale si colloca la Visita di accreditamento, con esame a distanza e in loco da parte di una Commissione di esperti valutatori (ecco la famosa Cev!), evento finalizzato a verificare se l’ateneo soddisfa i requisiti di qualità e base per l’emissione di un giudizio di accreditamento o meno da parte dell’Anvur.

Si potrebbe quindi sostenere, non andando tanto lontano dal vero, che Ava è la costituzione materiale (e, in parte, anche formale) delle università italiane. Contiene, per così dire, i principi fondamentali (la qualità, il miglioramento continuo), la separazione delle funzioni (didattica, ricerca, terza missione), la previsione formale dettagliata di ciò che i vari soggetti istituzionali (gli attori, nel suo linguaggio) devono fare nello svolgimento delle loro funzioni, al fine di garantire i principi fondamentali. In questo quadro, l’Anvur – che del sistema è artefice (sia pure sotto il “velo” del ministero), manutentore e applicatore – è una sorta di legislatore costituzionale e, al tempo stesso, di giudice.

Ma di quale qualità stiamo parlando? Non certo di quella ascrivibile alla tradizione filosofica (se fosse quella, la preferenza andrebbe senz’altro alle galilieiane o lockeane qualità primarie, ossia quantificabili e misurabili). In realtà si tratta della qualità nata in ambito manifatturiero e definita nelle teorie del management. Lo scopo di questi sistemi è controllare e garantire la conformità non solo del prodotto finito, ma dell’intero processo produttivo. In ambito universitario il quadro di riferimento è lo standard Iso 9000:2015, che descrive i fondamenti della gestione della qualità. Chi ha un minimo di familiarità con Ava, il sistema di Assicurazione della qualità (Aq) degli atenei italiani, riconoscerà molti di questi principi e un intero lessico: approccio per processi, “portatori di interesse”, miglioramento continuo, decisioni prese sulla base di evidenze (documentali), soddisfazione.

È ormai il momento di guardare più da vicino Ava, ma per farlo è opportuno soffermarsi brevemente sulla sua genesi. Uno dei primi documenti in cui si parla di “qualità” e di “sistemi di Aq” è il Decreto ministeriale 386/2007 (ministro Mussi), che si colloca a valle del processo di Bologna, con tutto quel che ne è seguito (modello 3+2, ridefinizione degli ordinamenti didattici ecc.). Un paragrafo di questo Dm si intitola Spostare la competizione dalla quantità alla qualità e dà avvio, per una serie di ragioni (anche valide), a quel paradossale processo per cui l’autonomia acquisita dieci anni prima dagli atenei si trasforma lentamente in una condizione di eteronomia (un’eteronomia molto più stringente di quella vigente ai tempi del Superiore ministero). Nel documento possiamo leggere che “l’autonomia implica una competizione regolata fra le Università”, ma che questa non può essere “mirata principalmente ad attrarre numeri maggiori di iscritti in modo sostanzialmente indipendente dalla qualità dell’offerta o, addirittura, abbassandone il livello”. Il baricentro della competizione, continua il Dm, va dunque “spostato sulla qualità dell’offerta formativa, oltre che sulla produttività scientifica delle strutture, verificandole e misurandole, in entrambi i casi, mediante l’autovalutazione degli Atenei e la valutazione esterna dell’Anvur, non appena costituita [l’Anvur era stata istituita nel 2006, ma è diventata, per così dire, operativa solo nel 2010]”.

Successivi Dm definiranno poi in modo sempre più stringente i requisiti per i corsi di laurea. E infine si arriva alla legge 240/2010, con la quale è stato introdotto in Italia un sistema di accreditamento degli atenei e la creazione, nelle università, di sistemi di Aq. Ma è l’Anvur il soggetto chiamato a definire le procedure, i criteri e gli indicatori per lo svolgimento dell’attività di valutazione periodica e a proporli al ministero, che li adotta per decreto. L’Anvur definisce dunque le modalità con cui gli atenei devono strutturare i propri sistemi di Aq e sovrintende all’esercizio attuativo della norma: dunque, come ho già detto, è legislatore – sia pure sotto il velo del ministero – e giudice, in questo caso senza veli.

Il baricentro della competizione va “spostato sulla qualità dell’offerta formativa, oltre che sulla produttività scientifica delle strutture”

E veniamo finalmente ad Ava. L’acronimo significa Autovalutazione Valutazione Accreditamento. L’Anvur ne ha messo a punto una prima versione nel 2014 (Ava1), che è stata rivista nel 2017 (Ava2) e ulteriormente rivista nel 2022 (Ava3). I suoi obiettivi principali sono tre: 1) assicurare che le università eroghino uniformemente un servizio di qualità; 2) assicurare un esercizio responsabile e affidabile dell’autonomia universitaria nell’uso delle risorse pubbliche e nei comportamenti collettivi e individuali; 3) migliorare la qualità delle attività formative e di ricerca. Ava si rifà alle Linee guida europee per l’Aq del 2015 (Standards and Guidelines for Quality Assurance in the European Higher Education Area), secondo le quali la qualità è un concetto non facile da definire, ma sostanzialmente riconducibile al “prodotto dell’interazione tra i docenti, gli studenti e il contesto di apprendimento dell’Istituzione. In pratica, l’assicurazione della qualità garantisce un contesto di apprendimento nel quale il contenuto dei corsi di studio, le opportunità di apprendimento e le strutture didattiche siano adatte allo scopo”. Una definizione, come si vede, piuttosto circolare. Le Linee guida europee fissano anche una serie di principi (preparare gli studenti non solo al loro futuro professionale, ma a una cittadinanza attiva; creare conoscenze avanzate; stimolare la ricerca e l’innovazione) e prevedono che tutti i portatori di interesse debbano essere coinvolti nell’Aq.

Alcuni di questi principi generali, passati in Ava, sono generalmente condivisibili. A fronte di tali premesse, però, Ava è apparso sin dall’inizio viziato da una caratteristica di fondo, cioè da un’ambizione che mi ha fatto pensare, si parva licet, al celeberrimo progetto del seminario estivo tenutosi a Dartmouth nel New Hampshire nel 1956. Si tratta del seminario che segna la data di nascita del campo di ricerca (e dello stesso nome) dell’Intelligenza artificiale. Quale era l’idea di fondo di quel seminario?

“Lo studio procederà sulla base della congettura che ogni aspetto dell'apprendimento o di qualsiasi altra caratteristica dell'intelligenza possa essere descritto in linea di principio in modo così preciso da poter essere simulata da una macchina”.

Proviamo ora a sostituire qualche parola, adattandola al nostro tema:

“Il sistema sarà definito sulla base della congettura che ogni aspetto dell’apprendimento o di qualsiasi altra caratteristica dell’attività universitaria possa essere descritto in linea di principio in modo così preciso da poter essere implementato come una macchina”.

Come è noto, l’approccio di Dartmouth (detto logico-simbolico) funzionava solo nei mondi chiusi della logica o dei giochi, mentre ha fallito ogni volta che lo si è applicato al mondo reale, vista la varietà, le ambiguità e l’imprevedibilità dello stesso. Analogamente, i sistemi di Aq hanno un difetto di fondo, perché l’ingegnerizzazione dei processi universitari non solo è incapace di contenerne la complessità e la variabilità, ma finisce per costringerle in una gabbia d’acciaio che, a differenza di quella immaginata da Weber, non è nemmeno così efficiente. È perlopiù costrittiva e faticosa. E questa caratteristica si è andata accentuando col tempo.

 Le attività di preparazione degli atenei alla verifica dei propri sistemi di Aq sono divenute sempre più complicate e onerose, poiché si è verificata una continua crescita di dettami formali

Le attività di preparazione degli atenei alla verifica dei propri sistemi di Aq sono divenute sempre più complicate e onerose, poiché si è verificata una continua crescita di dettami formali. Il che è inevitabile, se la logica è quella di voler descrivere ogni processo in dettaglio, per poterlo poi “misurare”. Con questo tipo di approccio si verifica il fenomeno dell’esplosione combinatoria. Di qui il paradosso per cui ogni nuova versione di Ava è più complicata, anche se l’Anvur afferma (excusatio non petita…) che il sistema è stato semplificato. Si prendano i seguenti passi tratti, rispettivamente, dalle Linee guida ad Ava2 e ad Ava3:

“Innanzitutto, si è proceduto a una revisione dei Requisiti e degli Indicatori di qualità e a un ripensamento complessivo della loro articolazione al fine di recepire i principi enunciati dagli Esg 2015 e a realizzare una struttura più snella e compatta […]”

“Come prima attività, l’Anvur ha proceduto a una riorganizzazione e revisione dei Requisiti e degli aspetti da considerare e a un ripensamento complessivo della loro articolazione, al fine di realizzare una struttura più snella e compatta […]”.

In realtà, senza scendere nei dettagli, mi limito a osservare quanto segue: in Ava2 avevamo quattro Requisiti, articolati a loro volta in 11 Indicatori e in 34 Punti di attenzione. In Ava3 i Requisiti vengono ridenominati Ambiti di valutazione e passano da 4 a 5; gli Indicatori sono sostituiti dai Punti di attenzione, che sono 39; e i Punti di attenzione si articolano in 84 Aspetti da considerare. Al di là della terminologia (qui la fantasia burocratica dà il meglio di sé) si passa da uno schema 4-11-34 a uno 5-39-84. Come questo possa essere più snello e compatto è un mistero ineffabile. Né va dimenticato che, nel modello finale, gli Indicatori ricompaiono a sinistra degli Aspetti da considerare e sono talvolta affiancati da “Altri indicatori”. Quindi abbiamo una sorta di movimento a fisarmonica, che parte dai 5 Ambiti di valutazione, si allarga in 39 Pda e si espande in ulteriori 84 Adc, per poi contrarsi in 37 Indicatori e chiudersi in 9 Altri indicatori.

Rispondere ai quesiti (poco importa che manchi il punto interrogativo) e ai molteplici aspetti in cui si articolano implica una enorme sequenza di operazioni di cui spesso sfugge il senso, e che devono essere illustrate in un amplissimo numero di documenti, che la stessa Cev non può leggere in modo accurato, finendo per svolgere un vaglio solo formale. Dal canto loro, gli atenei cercano di superare con il miglior risultato, o il minor danno, una procedura di cui si sente il notevole peso senza vederne consistenti vantaggi. E per raggiungere questo risultato impiegano non poche risorse (economiche e umane) per mandare docenti e amministrativi a seguire i corsi di formazione e/o aggiornamento sul modello Ava (conflitto di interessi?).

Alla luce di queste considerazioni la domanda è la seguente: quanto è migliorata la qualità degli atenei da quando si applica Ava? E quali costi ha comportato (e comporta) l’applicazione di questo sistema? Mi riferisco ai costi per le finanze pubbliche e ai costi “umani” in termini di tempo dedicato dai docenti a queste attività. Sarebbe interessante ascoltare qualche risposta in merito; risposta – questa volta è il caso di dirlo – basata su evidenze documentali, di tipo quantitativo. Attendiamo con fiducia.

 

Rivista il Mulino


 

lunedì 29 aprile 2024

BAMBINI e CELLULARI


Psicologa Nastri: “L’uso precoce e massiccio di smartphone modifica la massa bianca del cervello

Scuola e famiglia per costruire un rapporto sano con la tecnologia”.

 

INTERVISTA di Andrea Carlino

 A Orizzonte Scuola interviene Federica Nastri, psicologa, criminologa, pedagogista e mediatrice familiare, per un’approfondita analisi del rapporto tra bambini e tecnologia.

 Ads

 Nell’era digitale, l’esposizione precoce e spesso incontrollata agli schermi pone serie questioni sullo sviluppo psicofisico dei più piccoli. La psicologa Nastri ci guida alla scoperta dei segnali di un uso problematico della tecnologia, delle conseguenze a lungo termine e di strategie efficaci per genitori ed educatori.

 La maggior parte dei bambini oggi entra in contatto con i dispositivi digitali già nei primi anni di vita, creando una sorta di “prolungamento” degli arti. Questo rende difficile distinguere tra un uso normale e uno problematico, poiché il problema spesso nasce dall’adulto che fornisce il dispositivo al bambino.

 Come si accompagna un bambino per strada, così bisogna accompagnarlo nel mondo digitale, educandolo alla prevenzione dei rischi. Condividere esperienze personali e aprire un dialogo basato sulla fiducia può aiutare i bambini a comprendere i pericoli senza spaventarli eccessivamente. Educare i bambini alla gestione del tempo fin dalla tenera età è fondamentale per un uso sano e responsabile della tecnologia. Far sperimentare la noia e l’attesa aiuta a sviluppare la creatività, l’intelligenza emotiva e la capacità di vivere nel mondo reale.

 La dipendenza digitale può influenzare negativamente il rendimento scolastico, distogliendo l’attenzione dagli obiettivi e creando difficoltà cognitive e comportamentali. La scuola, in collaborazione con professionisti della salute mentale, può promuovere un uso sano della tecnologia attraverso programmi specifici e attività che stimolino la sfera emozionale, il contatto con la natura e le persone, lo sport e l’affettività.

 Dottoressa Nastri, quali sono i segnali di un’esposizione eccessiva agli schermi in bambini così piccoli? Come possono i genitori distinguere tra un uso normale e uno problematico?

 Secondo gli studi più recenti, sulle abitudini in ambito tecnologico dei bambini dai 6 mesi ai 4 anni, risulta che il 96,6% utilizza media device e molti di loro iniziano a usarli già nel primo anno di vita.  Comprendiamo quindi che, a oggi, per la maggioranza dei bambini, i dispositivi elettronici rappresentano un vero e proprio “prolungamento” dei loro arti: nascono con loro, crescono con loro, si evolvono con loro inducendoli a una involuzione sotto ogni punto di vista. Fino a un decennio fa potevamo parlare dei “segnali” fondamentali affinché i genitori potessero monitorare l’uso o abuso della tecnologia; ora che l’età di utilizzo è scesa vertiginosamente ai pochi mesi, ahimè, capiamo quanto il problema non dipenda più dal bambino fin troppo piccolo per scegliere individualmente di impiegare il suo tempo muovendo le dita su uno smartphone ma dell’adulto che glielo consegna. Perciò, il tempo trascorso dai bambini molto piccoli davanti agli schermi risulta associato al modo in cui i loro stessi caregiver utilizzano la tecnologia. Pertanto, diviene complicato stabilire già per gli adulti un proprio autocontrollo all’uso, e che ne stabilisca un “uso normale o problematico”. Sicuramente, i primissimi campanelli d’allarme a cui prestare attenzione sono: reazioni spropositate di rabbia e frustrazione, costanti sbalzi d’umore, impulsi incontrollabili nel “controllare” il dispositivo, sintomi d’astinenza nel distacco dall’oggetto vissuto come indispensabile.

 Quali sono le conseguenze a lungo termine di un’esposizione precoce e incontrollata agli schermi sullo sviluppo psicofisico del bambino?

 Il mondo digitale, rimanda al modello stimolo-risposta, nonché qualcosa di astratto rispetto a un pensiero concreto di qualsiasi cosa. L’utilizzo precoce e massiccio di queste tecnologie, cambia il modo di organizzare la conoscenza del bambino così radicalmente da modificare la struttura della massa bianca del cervello e alterare le aree fondamentali per lo sviluppo del linguaggio, delle capacità di alfabetizzazione e delle funzioni esecutive (memoria, attenzione, inibizione, flessibilità cognitiva, pianificazione). Se il bambino impara a usare questi strumenti prima ancora di iniziare a parlare, il rischio è di focalizzare la conoscenza sullo stimolo specifico, piuttosto che sulle relazioni e interazioni tra oggetti, ciò potrà implicare anche ritardo nello sviluppo motorio, aumento di disturbi alimentari, disturbi del sonno, disturbi dell’apprendimento e disturbi comportamentali, depressione infantile, ansia, psicosi, disturbi della personalità, autismo e infine aumento dell’aggressività e violenza.

 Come possono i genitori riconoscere i segnali di dipendenza digitale nei loro figli?

 L’uomo è un essere sociale, geneticamente programmato per sopravvivere aggregandosi con la comunità e la tecnologia più si presta per soddisfare il bisogno di connessione degli esseri umani. Come? Estraniandoli e isolandoli. Sembrerebbe un controsenso, eppure l’isolamento, il disinteresse e la dissociazione rappresentano i segnali più profondi di una dipendenza digitale, susseguiti, come dicevamo dalla necessità di trascorrere un numero sempre più cospicuo di ore in connessione, sono sintomi depressivi o ansiosi, agitazione psicomotoria in caso di riduzione o interruzione, riduzione della vita reale e degli interessi lontani dal digitale.

 Come possono i genitori parlare ai loro figli dei pericoli online in modo che li comprendano senza spaventarli eccessivamente?

 Lascereste mai un bambino da solo per strada? Come gli direste che non può starci da solo? Le infinite vie di internet si snodano tra curve a gomito, discese vertiginose e salite ripidissime, e devono essere ormai considerate come un mondo “reale” e pericoloso in cui un bambino si accompagna e si sostiene. Perciò avviare alla tecnologia (preferibilmente dopo almeno i 4/5 anni) abituando al controllo costante di qualcuno e magari attraverso le app dedicate alle attività di sviluppo sarebbe già un buon modo per indirizzare ed educare alla prevenzione di rischi. Non esiste il discorso perfetto per spiegare la sicurezza informatica ai bambini ma è fondamentale che siano a conoscenza di quanto il mondo virtuale possa nascondere pericoli reali. “Sai, hanno provato a rubarmi l’identità, ed io ho…”, oppure: “Una volta mi hanno preso in giro sul web, così ne ho parlato con la mia famiglia e…”, ecc. ecc. Questi esempi di dialogo possono rappresentare una modalità di apertura all’argomento attraverso l’immedesimazione e la fiducia reciproca, dando così non solo spiegazione delle problematiche ma anche informazioni su come difendersi.

 Come si può aiutare un adolescente a gestire autonomamente il tempo trascorso online e a trovare un equilibrio sano tra vita digitale e vita reale?

 È importante partire dall’infanzia ancor prima che dall’adolescenza, in modo tale da fornire già al bambino piccolo, futuro uomo, quegli strumenti adatti a fronteggiare i passaggi di crescita tanto delicati quanto fondamentali della sua vita. L’educazione al “tempo”, alla dimensione del tempo, alla gestione del tempo e all’impiego di questo sono il principio di ogni sfera umana: individuale, familiare, sentimentale, relazionale e professionale. Far sperimentare la “noia”, senza riempire il “buco”. Far godere dell’attesa, senza azzerarla uccidendo il desiderio. Spronare così alla creatività e indipendenza, sviluppare l’intelligenza emotiva, la possibilità di trasformazione, l’opportunità di evoluzione. Il bambino abituato al modello stimolo-risposta avrà difficoltà a gestire il suo tempo di noia e di attesa, avvertito come “vuoto”. D’altra parte, perderà il suo tempo in quanto estraniato in un mondo virtuale. Educare alla realtà, e quindi a questo “tempo reale”, è il primo passo per l’educazione alla vita digitale e a quell’equilibrio tra l’essere e il non-essere, esistere e scomparire.

 Come cambia il rendimento scolastico in giovani con dipendenza digitale? Può la scuola contribuire a promuovere un uso sano e responsabile della tecnologia tra gli studenti?

 Qualsiasi tipo di dipendenza, e in questo caso nello specifico quella digitale, distrae dall’obiettivo inibendo il raggiungimento dei traguardi. Perciò un dipendente dalla tecnologia avrà come priorità estrema un mondo virtuale lontano dalla realtà e quindi lontano anche dall’interesse per le cose, le persone, le relazioni, lo studio e l’apprendimento. Sarà privato della curiosità proprio perché abituato ad un modello stimolo-risposta che è opposto alla conoscenza profonda e autentica. A ciò si aggiungono le difficoltà cognitive, comportamentali e delle funzioni esecutive alimentate dall’abuso dei dispositivi digitali che implicano disturbi dell’apprendimento e di conseguenza un abbassamento del rendimento scolastico. In particolar modo, le evidenze scientifiche dimostrano come il disturbo di attenzione e iperattività (ADHD) sia correlato a tale dipendenza. Affinché venga fronteggiata una situazione di emergenza simile, è necessario che la scuola collabori innanzitutto con professionisti della salute mentale creando percorsi specifici per genitori/figli, genitori/figli/istituzione scolastica. Solo un costante e collaborativo monitoraggio e potenziamento della sfera emozionale, delle attività a contatto con la natura e le persone, dello sport, e della stimolazione affettiva possono promuovere non solo un uso sano e responsabile della tecnologia, ma di tutta l’intera vita dell’individuo.

 Orizzonte Scuola



Immagine 1

 Immagine 2


LA LETTOSCRITTURA


 La didattica della letto-scrittura 

e il metodo globale: 

un esempio di 

“Linee guida” per la scuola Primaria

 

-     -    di Antonio Fundarò


La letto-scrittura non è soltanto un’abilità fondamentale nella vita di ogni individuo, ma rappresenta anche un complesso processo mentale che coinvolge diverse aree del cervello. Questo articolo esplorerà il concetto di letto-scrittura come processo mentale, mettendo in luce il ruolo del pensiero, della globalità e della parola, e discutendo l’efficacia e le peculiarità del Metodo Globale nell’insegnamento della letto-scrittura.

La letto-scrittura come processo mentale

La capacità di leggere e scrivere è il risultato di un intricato processo cognitivo che inizia con il riconoscimento visivo dei simboli grafici e si estende alla comprensione e alla produzione del linguaggio scritto. Quando leggiamo, il nostro cervello non solo decodifica singoli caratteri o parole, ma attiva anche una rete complessa di connessioni neuronali che ci permette di interpretare il testo in termini di significato e contesto.

Il pensiero, la globalità e la parola

Il concetto di globalità è fondamentale nella letto-scrittura poiché il cervello umano tende a cercare pattern e strutture complessive piuttosto che focalizzarsi su elementi isolati. Questo approccio globale si riflette nella maniera in cui processiamo le parole e le frasi, integrando simultaneamente informazioni visive, linguistiche e contestuali. Il pensiero, dunque, gioca un ruolo cruciale, fungendo da collegamento tra la percezione visiva delle parole e la loro comprensione a livello più profondo.

Il metodo globale

Il Metodo Globale di insegnamento della letto-scrittura si basa proprio su questo principio di globalità. Invece di iniziare con l’apprendimento delle lettere e delle sillabe singole, il Metodo Globale introduce parole intere e frasi fin dall’inizio, permettendo agli studenti di percepire il linguaggio scritto nel suo contesto reale e significativo. Questo approccio aiuta a sviluppare una comprensione più rapida e naturale del testo, promuovendo al contempo una maggiore fluidità nella lettura.

Ogni studente ha un proprio stile di apprendimento

Sebbene il Metodo Globale offra numerosi vantaggi, è importante considerare che ogni studente ha un proprio stile di apprendimento. Alcuni possono trarre grande beneficio da un approccio globale, mentre altri potrebbero trovare più efficace un metodo più analitico e strutturato. L’importante è che gli educatori siano flessibili e pronti ad adattare le loro strategie didattiche alle esigenze individuali dei loro studenti. La didattica della letto-scrittura, attraverso il Metodo Globale, offre una visione affascinante e integrata dell’apprendimento del linguaggio scritto, ponendo le basi per un insegnamento più inclusivo e accessibile a tutti gli studenti.

L’ambiente Doman: creare un contesto stimolante per l’apprendimento

Il metodo ideato da Glenn Doman pone un’enfasi particolare sulla creazione di un ambiente ricco e stimolante che incoraggi l’apprendimento precoce e rapido dei bambini. Secondo Doman, l’esposizione precoce a parole, numeri e concetti complessi in un ambiente amorevole e supportivo può accelerare significativamente lo sviluppo cognitivo dei bambini. L’ambiente Doman utilizza materiali didattici visivamente accattivanti e sessioni di apprendimento brevi ma frequenti, che mirano a massimizzare l’engagement del bambino senza causare sovraccarico o stress.

Lo sviluppo della letto-scrittura

Lo sviluppo della letto-scrittura segue una traiettoria che può variare significativamente da un individuo all’altro. Inizialmente, i bambini imparano a riconoscere le immagini e i simboli, per poi passare alle lettere e alle parole. La fase successiva è quella della comprensione, in cui i bambini iniziano a collegare le parole a significati più ampi e a contesti reali. Un approccio equilibrato tra lettura e scrittura può facilitare questo sviluppo, poiché ciascuna abilità rinforza l’altra, contribuendo a una più profonda comprensione e abilità nell’uso del linguaggio.

Come fronteggiare il ritardo e il disturbo della letto-scrittura

I ritardi e i disturbi della letto-scrittura, come la dislessia, richiedono strategie didattiche specifiche e personalizzate. Gli interventi precoce sono cruciali e possono includere la terapia del linguaggio, programmi di lettura strutturati e supporto psicologico. È fondamentale che questi programmi siano inclusivi e adattati alle esigenze specifiche di ciascun bambino per garantire il miglior esito possibile. La collaborazione tra insegnanti, terapisti e famiglie è essenziale per creare un piano di supporto efficace che possa aiutare il bambino a superare le difficoltà incontrate.

Leggere, scrivere e comprendere in fluidità

La fluidità nella letto-scrittura non implica solamente la capacità di leggere o scrivere velocemente, ma anche di farlo con accuratezza e comprensione. Per sviluppare questa competenza, è importante praticare la lettura ad alta voce, discutere i contenuti dei testi e esercitarsi nella scrittura in vari contesti. Le attività che incoraggiano la riflessione critica e la discussione possono migliorare significativamente la comprensione mentre la scrittura creativa e analitica aiuta a rafforzare le capacità espressive e costruttive del bambino.

Un viaggio complesso che si evolve attraverso diverse fasi di sviluppo

Il processo di letto-scrittura è un viaggio complesso che si evolve attraverso diverse fasi di sviluppo. Affrontare con sensibilità e comprensione le difficoltà incontrate da alcuni studenti può fare una grande differenza nel loro percorso educativo. Gli educatori devono essere preparati a modificare e adattare le loro metodologie per soddisfare le diverse necessità dei loro studenti, promuovendo un ambiente di apprendimento che sia sia stimolante che accogliente.

Il testo e la testualità: elementi fondamentali della letto-scrittura

Il concetto di “testo” in didattica va oltre la semplice sequenza di parole stampate su una pagina; si tratta di un’entità coesa che trasmette significato attraverso la sua struttura e il suo contesto. La testualità si riferisce alla qualità che rende un insieme di parole un “testo”, ovvero la capacità di formare un tutto logico e significativo. Questa qualità è fondamentale per l’interpretazione e la comprensione del materiale scritto e rappresenta una competenza chiave nella letto-scrittura.

La costruzione della frase: un pilastro della comprensione

La capacità di costruire frasi che non solo seguono le regole grammaticali ma anche trasmettono chiaramente un messaggio è cruciale. La costruzione efficace delle frasi facilita una comunicazione limpida e precisa, essenziale sia nella scrittura creativa che in quella analitica. Gli insegnanti possono aiutare gli studenti a sviluppare questa abilità attraverso esercizi che incentrano sulla variazione sintattica e l’uso di connettivi per migliorare la coerenza e la coesione del testo.

La pragmalinguistica e la riflessione linguistica

La pragmalinguistica si occupa dell’uso pratico del linguaggio in contesti specifici, enfatizzando come il linguaggio sia usato per raggiungere obiettivi comunicativi particolari. La riflessione linguistica, invece, invita gli studenti a pensare criticamente sul linguaggio stesso, esplorando questioni come il significato, l’uso e la variazione. Queste competenze sono vitali per sviluppare una comprensione profonda del linguaggio e per utilizzarlo efficacemente in diverse situazioni.

Le riscritture: una tecnica per l’affinamento delle abilità di scrittura

L’atto di riscrivere testi è un potente strumento didattico che permette agli studenti di riflettere sulla propria scrittura e su quella degli altri, identificando aree di forza e di miglioramento. Questo processo non solo migliora le abilità linguistiche e stilistiche, ma incoraggia anche una maggiore consapevolezza delle diverse tecniche narrative e espositive.

Presentazione del nuovo materiale didattico e abilitativo: “I quaderni di Victor. Costruisco la lingua scritta”

Un esempio innovativo di materiale didattico che integra queste tecniche è “I Quaderni di Victor – Costruisco la lingua scritta”. Questi quaderni sono progettati per guidare gli studenti attraverso il processo di costruzione del testo, dalla frase al paragrafo fino al testo completo, usando esercizi che incoraggiano la riflessione linguistica e la pragmalinguistica. Attraverso attività strutturate e progressivamente più complesse, “I Quaderni di Victor” offrono agli studenti le risorse per sviluppare una padronanza del linguaggio scritto, enfatizzando la creatività, la comprensione e l’efficacia comunicativa.

In conclusione, la didattica della letto-scrittura si avvale di un approccio integrato che combina la comprensione testuale, la costruzione delle frasi, e la riflessione linguistica per sviluppare studenti che non solo leggano e scrivano con competenza, ma che anche comprendano e apprezzino la ricchezza e la complessità del linguaggio. Con l’adozione di materiali innovativi come “I Quaderni di Victor”, l’educazione linguistica può trarre beneficio da metodologie che promuovono un apprendimento attivo e consapevole, preparando gli studenti a diventare comunicatori efficaci e pensatori critici nel mondo moderno.

Il contributo del prof. Piero Crispiani

L’articolo ha esplorato vari aspetti della didattica della letto-scrittura, evidenziando come si tratti di un processo mentale complesso che integra la percezione visiva, la comprensione linguistica e la costruzione testuale. Abbiamo discusso l’efficacia del Metodo Globale, l’importanza dell’ambiente Doman per l’apprendimento precoce, e come affrontare i disturbi della letto-scrittura, enfatizzando la necessità di interventi personalizzati e precoce. La discussione si è poi spostata sulla costruzione delle frasi e sull’importanza della pragmalinguistica e della riflessione linguistica, elementi cruciali per sviluppare una piena competenza comunicativa. Abbiamo anche introdotto “I Quaderni di Victor – Costruisco la lingua scritta” come esempio di materiale didattico innovativo che supporta l’apprendimento strutturato della letto-scrittura. Un ruolo fondamentale in questo ambito è stato svolto dal Prof. Piero Crispiani, il cui lavoro nel campo della didattica della letto-scrittura ha lasciato un’impronta indelebile. La sua ricerca e i suoi metodi didattici hanno contribuito significativamente all’evoluzione delle tecniche di insegnamento, proponendo approcci innovativi che hanno migliorato l’apprendimento linguistico per studenti con diverse esigenze e capacità. La sua enfasi sulla necessità di un approccio personalizzato e basato su solide fondamenta cognitive è un punto di riferimento per educatori e ricercatori nel settore. In conclusione, il contributo del Prof. Crispiani e l’adozione di metodi didattici efficaci e innovativi sono essenziali per affrontare le sfide dell’insegnamento della letto-scrittura, garantendo che ogni studente possa raggiungere il suo pieno potenziale linguistico e comunicativo. L’articolo sottolinea l’importanza di continuare a esplorare e implementare pratiche pedagogiche che supportano un apprendimento completo e inclusivo, riflettendo l’evoluzione continua nel campo dell’educazione linguistica.

In allegato un esempio di “Linee guida” e raccomandazioni

Creare linee guida efficaci per insegnanti e genitori nel contesto della scuola primaria è fondamentale per sostenere lo sviluppo educativo degli studenti. Queste linee guida mirano a creare un partenariato costruttivo tra insegnanti e genitori, essenziale per sostenere lo sviluppo complessivo degli studenti nella scuola primaria. La collaborazione, la comunicazione e il supporto continuo sono chiave per realizzare un ambiente educativo che promuova il successo accademico e personale di ogni studente. In allegato alcune raccomandazioni che possono essere implementate per migliorare l’apprendimento e l’ambiente educativo.

Le linee guida per sostenere lo sviluppo educativo degli studenti nella lettoscrittura




 


L'AMORE FA I MIRACOLI

Tra le pagine dei grandi romanzi

La letteratura ci insegna ad amare: è una maestra di sentimenti, una fonte di sapienza, il giardino in cui Dio respira di nascosto. 

Seguendo questa intuizione, don Paolo Alliata ci conduce tra le pagine dei grandi romanzi, cercando il soffio che ci nutre. Perché l’amore trova sempre il modo per raggiungerci, declinandosi nelle forme, nelle storie, nelle voci più diverse. 

L’amore di Romain Gary è memoria e resistenza, nel volo degli aquiloni che inseguono l’azzurro. L’amore che scalda il cuore del professor Stoner è un sonetto di Shakespeare che schiude la porta sull’eterno. 

L’amore di Kundera oscilla tra leggerezza e pesantezza, vulnerabilità e compassione: è la voce bambina che canta. L’amore che aleggia nella resurrezione secondo Tolstoj è metamorfosi, grazia, primavera che arriva anche in città. 

L’amore, per Steinbeck, è profezia, preghiera in movimento, marcia collettiva verso la libertà. L’amore che sostiene C.S. Lewis è pianto che volge in letizia, legame che scavalca la morte, fede. 

L’amore è quella forza che ci spinge a tuffarci nelle cose così come sono. Che ci rende vivi, non nelle aspettative, ma nella nostalgia di infinito, un infinito tanto più potente quanto incolmabile.

 

Con una prefazione di Isabella Guanzini

 




UN NUOVO CALENDARIO SCOLASTICO

 “Lezioni fino alla prima settimana di luglio e rivedere le interruzioni durante l’anno. 

Docenti in esubero per progetti estivi.

 

INTERVISTA al pedagogista Maviglia

 

-         di Fabrizio De Angelis

  Pochi giorni fa il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha annunciato il piano estate 2024, ovvero un programma di attività che coinvolgeranno le scuole quando non ci saranno le attività didattiche. L’iniziativa prevede un notevole investimento di risorse, con 400 milioni di euro già stanziati, ai quali si aggiungono fondi provenienti da altri finanziamenti destinati all’inclusione e alle materie STEM.

 L’obiettivo è offrire agli studenti un’ampia gamma di attività, che spaziano da quelle ludiche, sportive e ricreative a corsi di recupero e potenziamento delle competenze, su base volontaria. Il piano prevede il coinvolgimento, sempre su base volontaria e retribuita, del personale docente e ATA.

 Non mancano però i punti interrogativi. In primis, la disponibilità del personale ATA, in gran parte precario con contratti in scadenza a fine giugno, rappresenta un’incognita significativa. Valditara rassicura: “Ci sarà la possibilità di fare convenzioni con il terzo settore, il volontariato e di coinvolgere gli studenti universitari”.

 Nonostante le rassicurazioni del Ministro sull’assenza di ritardi e sulla disponibilità delle risorse, alcuni dubbi permangono sulla fattibilità del progetto nei tempi previsti e sulla sua reale efficacia. L’adesione del personale scolastico e la capacità di coinvolgere altri attori saranno cruciali per la buona riuscita dell’iniziativa.

 A parlare del progetto ministeriale è il pedagogista Mario Maviglia, che ci ha fornito anche alcune proposte interessanti in merito all’organico dei docenti e al calendario scolastico.

Lei afferma, in un intervento su un quotidiano locale, che il piano estate manca di chiarezza, soprattutto per quanto riguarda il ruolo della scuola. Può spiegarci meglio cosa intende?

 Lo specifico della scuola è la gestione e cura dei processi di insegnamento apprendimento e l’obiettivo finale è rappresentato dal conseguimento del successo formativo per ogni studente. Il Piano estate opera su un piano un po’ diverso in quanto non intende proporre attività “scolastiche” agli studenti, ma realizzare progetti di carattere didattico, sportivo, musicale, teatrale, ludico e ricreativo. Ovviamente anche queste attività promuovono, lato sensu, l’apprendimento degli studenti, ma i docenti sono preparati a questo tipo di approccio senza un’adeguata preparazione? E in ogni caso il Piano estate sposta il baricentro della scuola da una dimensione di apprendimenti formalizzati quali sono quelli scolastici, a una dimensione di apprendimenti con un livello meno stringente di strutturazione e formalizzazione. Ma, ripeto. La scuola storicamente non è stata concepita in tal senso. Si può fare, ovviamente; ma ci vuole tempo.

 Dunque, mancherebbe un piano di ampio respiro e che duri nel tempo. Nel suo intervento avanza alcune proposte. Ci spiega la proposta sugli organici dei docenti?

 Il processo di denatalità comporta una contrazione degli organici dei docenti in quanto la costituzione di meno classi determina un numero inferiore di docenti di cui si ha bisogno. Ma se si vuole guardare oltre il dato contingente, questa situazione, apparentemente negativa, può essere utilizzata per qualificare la scuola. Se i docenti in esubero vengono comunque assegnati alle scuole senza contrarre gli organici, possono essere utilizzati per trovare una soluzione alle situazioni più preoccupanti di numerosità delle classi (le cosiddette classi-pollaio) o anche per poter contare su un certo numero di docenti per portare avanti progetti nell’ambito del Piano estate. Il timore è che, come al solito, verrà adottato un approccio ragionieristico (meno classi/meno docenti), salvo poi chiedere alle scuole di fare sacrifici o aggiustamenti per realizzare proposte di carattere essenzialmente sociale.

 Lei accenna anche, e qui arriviamo alla seconda proposta, di intervenire sul calendario scolastico. Cosa intende nello specifico?

 Una revisione complessiva del calendario scolastico potrebbe comportare uno “slittamento” delle lezioni fino alla prima settimana di luglio (ricordiamo che le scuole dell’infanzia già concludono le loro attività didattiche a fine giugno). Questo è possibile rivedendo i periodi di interruzione didattica durante l’anno scolastico, ma anche, nel contempo, rendendo “abitabili” le scuole durante il periodo estivo (ossia climatizzandole). Sono proposte che vanno ovviamente studiate attentamente, anche prendendo spunto da quanto avviene negli altri Paesi della UE (ad esempio in Francia) e tenendo comunque conto che cambiamenti di tale portata richiedono tempi adeguati per essere gestiti in modo proficuo. Del tutto strumentale appare invece la polemica che anche molti politici periodicamente portano avanti contro i “tre mesi” di vacanza dei docenti. Ci sarebbe da chiedere quanti giorni effettivi lavorano nel corso dell’anno i politici e metterli a confronto con quelli dei docenti.

 Una battuta sulla riforma del voto in condotta appena approvata al Senato. Cosa ne pensa delle novità pensate dal Ministro Valditara?

 La mia impressione è che questo insistere sugli aspetti punitivi e repressivi del voto in condotta nasconda una tendenza autoritaria dell’attuale gestione politica della scuola, sancita peraltro dal decreto Caivano. Con questo non si vuole nascondere il problema del comportamento a scuola, ma siamo sicuro che questa sia la strada giusta? Occorre semmai insistere sul valore formativo della valutazione, ribadendo semmai l’esigenza di più educazione, non di più repressione. E questo perché non si vuole, o non si è in grado, di considerare altri aspetti che possono contrastare condotte non adeguate all’interno della scuola, come ad esempio dando maggiore prestigio sociale ai docenti attraverso un’adeguata retribuzione e mediante forme di reclutamento più serie e rigorose. Siccome non si ha una visione lungimirante sul valore della scuola nello sviluppo del Paese e sul ruolo fondamentale che svolgono i docenti, allora vengono adottate queste soluzioni dal respiro corto, che intervengono sul sintomo, e che non mettono in discussione l’attuale assetto della scuola, oltre che non restituire dignità ai suoi operatori. Finché si aumentano in maniera sconsiderata le spese militari e non si privilegiano gli interventi per innalzare il livello di qualità dei docenti e della scuola c’è poco da essere ottimisti.

 

Orizzonte scuola