I
problemi creati
dalla durezza
di Israele
-
di Giuseppe Savagnone*
A
distanza di poco più di un mese dall’inizio della crisi palestinese, emergono
alcuni nodi inquietanti, destinati probabilmente a pesare nel futuro, anche
quando lo scontro sul campo sarà finito.
Il
primo di questi nodi nasce dalle modalità della reazione dello Stato ebraico
che, da vittima di un’atroce violenza – e perciò oggetto di solidarietà
incondizionata (agli occhi, almeno, del mondo occidentale) – , lo hanno
progressivamente fatto apparire, a gran parte dell’opinione pubblica dello
stesso Occidente, un perfetto corrispettivo, opposto e simmetrico, dei suoi
aggressori. Significativo, a questo proposito, il titolo di prima pagina di un
quotidiano italiano: «Scatta l’antiterrorismo. Somiglia molto al terrorismo».
La
stessa cieca spietatezza. Lo stesso assoluto disprezzo per i civili e per le
leggi internazionali che li proteggono. Con il blocco delle forniture vitali di
acqua elettricità e medicine a due milioni e mezzo di persone, la perentoria
ingiunzione a quasi metà di esse (più di un milione!) di sgombrare entro 24 ore
le loro case, le terre, i luoghi di lavoro, e di trasferirsi “altrove”, i
micidiali bombardamenti indiscriminati che hanno distrutto abitazioni civili,
ospedali, scuole, chiese, e ucciso diecimila civili, di cui quasi la metà donne
e bambini.
Più
che di una operazione volta a prevenire, in una logica difensiva, altri
attacchi, quella israeliana ha dato così l’impressione di essere una vendetta.
E non nella forma dell ’“occhio per occhio, dente per dente”, ma in quella, più
arcaica, della vendetta senza misura di cui parla la Bibbia, mettendo in bocca
a Lamech, discendente di Caino (non a caso!), una dichiarazione che è al tempo
stesso un programma: «Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo
per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette»
(Genesi, 4, 23-24).
La legge del taglione
La
legge del taglione, pur nella sua brutalità, si affermerà più tardi nelle
antiche legislazioni proprio per limitare questa smisuratezza incontrollabile,
consentendo all’offeso di replicare solo nei limiti del danno ricevuto.
La
risposta di Israele, più che questa logica, ricorda quella di Lamech. Tanto più
sproporzionata, se si pensa che, secondo lo stesso governo israeliano, il
responsabile da punire è Hamas e non la popolazione palestinese, la quale ne
sarebbe solo ostaggio.
Da
parte loro, i governi occidentali, primo fra tutti quello degli Stati Uniti,
hanno rifiutato di parlare di “vendetta” e all’inizio hanno cercato di
giustificare questa reazione appellandosi al “diritto d’Israele di difendersi”.
In questa logica, hanno mostrato grande tolleranza per i “danni collaterali”
che questo diritto poteva comportare, limitandosi a generiche raccomandazioni
al rispetto dei diritti umani e delle leggi internazionali di guerra, anche se
era evidente che entrambi venivano ampiamente violati dalla reazione
israeliana.
Quando
però è stato sempre più chiaro che il governo di Netaniahu non intendeva
neppure minimamente attenuare la sua azione devastatrice, il segretario
generale dell’ONU, Guterres, è intervenuto ufficialmente per ricordare la
necessità del rispetto del diritto internazionale e chiedere un “cessate il
fuoco” che risparmiasse la vita dei civili.
La
reazione dello Stato ebraico è stata durissima e si è tradotta addirittura in
un rifiuto di concedere il visto d’ingresso ai rappresentanti delle Nazioni
Unite.
A
questo punto anche il presidente Biden – sollecitato probabilmente anche dal
vasto movimento di protesta che si è sviluppato in tutto il mondo occidentale,
e anche negli Stati Uniti, in difesa del popolo palestinese – ha ritenuto di
dover intervenire più decisamente, pressando il governo israeliano perché
fossero concesse almeno delle “pause umanitarie”.
Ricevendo
un secco rifiuto dal premier Netaniahu, che solo dopo infinite umilianti
insistenze sia del presidente americano sia del suo inviato Blinken ha fatto
qualche concessione, ma comunque in misura minima rispetto alla richiesta. Un
clamoroso “sgarbo” di Israele al suo più fido e importante alleato, che non
sarà presto dimenticato.
È
evidente che tutto ciò sta sparigliando le carte. Gli Stati Uniti si stanno
trovando in grande difficoltà, stretti fra la presa di distanze del mondo
islamico – anche di quello moderato e perfino di un paese aderente alla NATO,
come la Turchia – che rimprovera loro la copertura politica, economica e
militare da sempre data ad Israele e fortemente confermata anche in questa
circostanza, e l’inedita, ostinata chiusura del governo israeliano.
L’America
in questa circostanza sta vedendo compromessa la sua immagine di potenza
egemone e la sua linea politica appare debole e incerta. Anche perché il
presidente Biden si trova davanti alla poco rosea situazione di dover
scegliere, a un anno dalle elezioni, tra le lobbies ebraiche, il cui appoggio
dipende dall’appoggio ad Israele, e il suo elettorato, soprattutto giovanile,
che lo contesta per questo appoggio.
Ed
anche Israele viene a trovarsi sempre più isolato, non soltanto, come in
passato, rispetto al Sud del mondo e all’Islam, bensì anche, in una certa
misura, di fronte agli Stati occidentali suoi tradizionali sostenitori, che
continuano a ripetere di considerarlo la vittima di un’aggressione e un
avamposto avanzato della democrazia, ma non possono evitare, di riconoscere,
con crescente imbarazzo, che la continuazione del massacro sistematico di
civili a cui stiamo assistendo non può più essere accettato.
La
riapertura della questione dell’intera Palestina
Ma
a dividere Israele dal suo più tradizionale e fedele alleato americano non è
solo la durezza spietata della reazione militare. La crisi in atto ha
riproposto anche la questione, che era stata rimossa da tempo, della
sistemazione politica definitiva dell’intera regione. E qui è impossibile
ignorare la risoluzione dell’ONU del 1947, in cui si prevedeva la creazione di
uno Stato ebraico – che è nato – e di uno palestinese, che invece non ha mai
visto la luce.
Il
problema è che in realtà né israeliani né palestinesi hanno mai accettato
questa prospettiva. Entrambi vogliono tutto il territorio per sé. Con la
differenza che Israele ha avuto la forza militare per avvicinarsi sempre di più
a questo obiettivo, mentre l’esplicito rifiuto dei palestinesi di accettare di
formare un loro Stato sui territori assegnati dall’ONU ha prodotto come solo
risultato la loro progressiva espulsione anche da gran parte di questi, ormai
occupati dagli israeliani.
Una
espulsione che si è venuta attuando sia attraverso le campagne militari, sia
con il moltiplicarsi di nuovi insediamenti israeliani sulle terre della
Cisgiordania che avrebbero dovuto essere in prospettiva parte del nuovo Stato
palestinese. Proprio alla vigilia del 7 ottobre ne era stato varato un altro,
suscitando questa volta anche le resistenze (peraltro inascoltate) degli Stati
Uniti.
Per
non parlare dello status di Gerusalemme, che l’ONU prevedeva fosse – come luogo
santo di tutte e tre le grandi religioni abramitiche – una città
internazionale, e che invece Israele, nel 1980, forte dei suoi successi
militari, ha proclamato unilateralmente sua capitale, con una decisione che
l’ONU ha dichiarato illegittima, e che ha avuto il riconoscimento di pochi
governi, tra cui però gli Stati Uniti, che hanno trasferito là la loro
ambasciata,
A
guerra finita, riuscirà mai Washington, finora così cedevole nei confronti del
governo israeliano, a convincerlo a rinunziare a una parte del suo territorio
attuale, per consentire la formazione di uno Stato palestinese?
E
quale sarà, eventualmente, ci riuscisse, la reazione dei ben settecentomila
coloni israeliani che in questi anni, col beneplacito del governo (e
dell’Occidente) si sono stanziati illegalmente su quel territorio, sottraendolo
ai loro legittimi abitanti?
E
che ne sarà di Gerusalemme, che da più di quarant’anni Israele considera sua
capitale, ma dove anche i palestinesi abitano, e a cui l’Islam attribuisce
altrettanto valore religioso degli ebrei e dei cristiani?
Il
futuro di Gaza
Un
terzo nodo – collegato al secondo e anch’esso relativo al rapporto fra Israele
e Stati Uniti – è costituito dalla questione del futuro della Striscia di Gaza.
Biden
ha chiesto ad Abu Mazen, il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese in
Cisgiordania, di assumerne, a guerra finita, il governo, come parte del
costituendo Stato palestinese. Netaniahu, da parte sua, sfidando apertamente
Biden, ha replicato che gli israeliani non intendono lasciare più alcuna
autonomia a Gaza e, anche senza occuparla direttamente, la terranno comunque
sotto il loro controllo.
Sta
di fatto che, se riuscirà davvero a distruggere Hamas, sarà l’esercito
israeliano a trovarsi sul territorio e a poterne disporre.
Per
di più, la proposta americana non tiene conto del fatto che oggi il (troppo)
moderato e corrotto Abu Mazen è del tutto squalificato agli occhi dei
palestinesi (anche di quelli che continua a governare in Cisgiordania), i quali
vedono in Hamas l’unica alternativa all’emarginazione e alla sottomissione a
cui li aveva ridotti Israele col sostegno degli Stati Uniti.
E
sicuramente lo sarebbe ancora di più se il presidente dell’Autorità palestinese
entrasse a Gaza dopo essere stato complice della liquidazione di Hamas da parte
degli israeliani e col sostegno degli americani.
Un
documento ufficioso e non confermato del governo israeliano ipotizza che gli
abitanti attuali di Gaza si trasferiscano in Egitto, nel Sinai. E questo
spigherebbe anche le recenti prove di espulsione da una parte della Striscia e
le azioni volte a rendere loro impossibile la vita, costringendoli già adesso,
in qualche modo, ad emigrare.
Ma,
a parte l’ovvia resistenza del governo del Cairo, che non intende addossarsi
due milioni e mezzo di profughi, potrebbe la comunità internazionale accettare
una soluzione che, pur non essendo un genocidio, sarebbe comunque un chiaro
esempio di pulizia etnia?
Nemmeno
le acrobazie fate in queste settimane da governi e organi di stampa occidentali
per minimizzare la gravità delle violenze verso il popolo palestinese –
accusando chi le denunzia di dimenticare la strage del 7 ottobre, se non
addirittura di essere antisemita – probabilmente sarebbero sufficienti a
giustificare il silenzio in una ipotesi del genere.
Resta
comunque la difficoltà di trovare altre strade. Il compito non si può ancora
una volta eludere. L’Occidente non può continuare a chiudere gli occhi, ora che
sta raccogliendo gli amarissimi frutti di questo comportamento nei decenni
passati. Anche se c’è il rischio che, passata l’attualità giornalistica,
l’attenzione di governi e opinione pubblica torni a distrarsi, come è sempre
avvenuto in passato, in attesa che un’altra crisi faccia altre migliaia di
vittime innocenti e scuota di nuovo, per qualche settimana, la nostra
indifferenza.
www.tuttavia.eu
*Scrittore
ed editorialista. Pastorale della Cultura della Diocesi di Palermo
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