Leadership
e governance
nelle comunità
associative
-di
Alessandro Bruni e Andrea Gandini
Nelle
comunità associative, dopo le prime fasi di avvio istituzionale, nasce il
problema organizzativo e della direzione, ovvero chi determina cosa c'è da fare
e come governare l'operatività. Solitamente questa fase di sviluppo nasce
dall'opera di un leader ideologico o spirituale che determina il collante dei
fini da perseguire, ma questo solitamente non basta a rendere funzionale una
associazione di volontari.
Nella
fase costitutiva seguente, al leader ideologico si affiancano più persone con
compiti operativi quali l'amministratore e da più persone che si fanno carico
di attività specifiche. Costoro si trovano nella situazione complessa di
mantenere i fini ideologici di base e al contempo di esprimere l'operatività
con una efficienza che permetta la sopravvivenza dell'associazione.
Costoro,
che chiameremo collaboratori o soci attivi, dipendono direttamente dal
Presidente o dal Direttore e svolgono un'attività di rilevante importanza ai
fini dello sviluppo e dell'attuazione degli obiettivi dell'associazione. In una
fase ancora successiva, a questi si affiancano altre persone con compiti via
via più operativi che vanno a costituire il team di gestione dell'associazione.
Bisogna
chiarire che Presidente, Direttore amministrativo, soci attivi e team di
gestione sono tutti volontari e operano tutti in regime di "primi tra
pari". Questo significa che in una associazione di volontari non può
esistere un “capo” così come è conosciuto in una azienda dove esiste una
precisa gerarchia di ruolo prima ancora che di competenza. Lo staff aziendale è
strutturato con l'unico fine di far aumentare il profitto o il fatturato
dell'impresa. Se il team operativo riesce nell'intento, viene confermato, se
non ci riesce viene sostituito. Questa logica può essere applicata nelle
comunità di volontariato? No, ovviamente.
Infatti,
diversamente dalle imprese, nelle associazioni di volontariato il fine è legato
a diversi fattori: riconoscimento dell'idea motivante, riconoscimento
nell'ambito sociale, capacità di attrarre per motivi ideologici, capacità di
attrarre per azioni concrete svolte nel conteso sociale, capacità di aumentare
il numero dei soci. Ciascuna di queste attività ha necessità di un referente
che sommi adesione ideale a competenze operative specifiche. Due qualità senza
le quali il lavoro associativo non può progredire. Deviare dai fini significa
snaturare l'associazione, essere incompetenti significa portarla al disastro.
Di
qui la domanda: i collaboratori di una associazione volontaria devono agire
come leader o come capo? La risposta è molto semplice: devono agire come leader
per riconosciuta competenza specifica soprattutto perché i soci sono tutti
volontari e non operano per fini di lucro (quindi non hanno un fine
esistenziale di sopravvivenza). Questo modello, ovvio in teoria, non è facile
da costruire poiché tra i volontari, per loro cultura personale, alcuni
vorrebbero avere la “comodità” di un capo che ordina (attività volontaria
passiva, senza troppo coinvolgimento decisionale), altri vorrebbero avere
“empatia” da un leader che coinvolge ed istruisce (attività volontaria attiva
che vuole impegno emotivo). I soci più attivi nella gestione di una
associazione di volontariato devono essere capaci di soddisfare entrambe le
esigenze con il giusto mix di competenza, qualità operativa pratica su come si
fanno le cose, qualità relazionali sociali e umane e qualità creative-ideative. Eventuali forme di nepotismo e/o di autoreferenza danneggiano la qualità delle relazioni e delle stesse associazioni.
Organizzare
e guidare un gruppo di volontari non è certo impresa facile, mancando qualsiasi
relazione gerarchica e dove ciascuno vale uno per definizione. La differenza di
ruolo la fa solo la competenza e la responsabilità. Ogni volontario ha il
proprio carattere, le proprie abilità e le proprie motivazioni di appartenenza.
Le persone non sono tutte uguali e proprio per questo ragionano in maniera
diversa portando linfa creativa, ma anche anarchia operativa.
Ma
se la motivazione e l'ideale sono il cemento comune e condiviso dei soci, la
competenza e la responsabilità sono espressioni che possono essere espresse
solo individualmente. Infatti, nessuna impresa o associazione può essere
governata con efficienza se i leader non si assumono individualmente l'onere
delle competenza e della responsabilità. È bene non cadere nella illusoria
sicumera della responsabilità collegiale o condivisa che può essere esercitata
solo nello stabilire i fini di una associazione e non nell'esecuzione
gestionale-operativa.
Concludendo, qual è la differenza tra il capo e il leader in una associazione di
volontariato?
Il
capo “comanda e ordina”, ma ha spesso poche vere competenze operative. Il capo
è quello che vuole che le cose siano fatte come lui ha pensato senza avere sul
tema molte competenze e di conseguenza dice agli altri quello che devono fare,
ma che lui stesso non è capace di fare. Accentra il comando e pretende
obbedienza, specie da quelli che hanno più competenze di lui. Il capo giudica,
attribuisce i compiti: è efficace nell'emergenza, ma nel lungo periodo tende
per egocentrismo a demolire il team demotivando. Il capo “non è mai solo”,
perché molti lo temono e lui è soddisfatto di avere subalterni timorosi che ne
riconoscono il ruolo prima della competenza.
Il
leader “pone le domande e spiega le soluzioni chiarendo il perché e il come si
fa”. Deve avere profonde competenze teoriche e pratiche che gli permettano,
prima di attribuire compiti, di essere lui stesso capace di svolgerli. Il
leader accentra la responsabilità e condivide l'operatività, guida con
l’esempio e mostra come si fa. Il leader non giudica, motiva e decide per sé
prima di decidere per gli altri. Il leader è una persona che si assume in
primis la responsabilità dell’andamento delle cose. Il leader “è solo” perché a
lui spetta il peso della responsabilità decisionale, avendo attorno consiglieri
che ne riconoscono la competenza prima del ruolo.
Il
punto fondamentale per ogni volontario è riuscire a stabilire il suo personale
livello di partecipazione nelle attività nell'associazione. Essendo tutti i
soci volontari si deve presumere che ogni socio dia il massimo di quel che
resta delle sue attività irrinunciabili per vivere (famiglia, lavoro, altre
attività personali). Quindi ad ogni socio deve essere lasciata la libertà di
partecipazione in base alle sue scelte personali che rimangono assolutamente
non giudicabili e non poste in una scala di merito. Chi dà molto lo fa perché
si sente di farlo e ha lo stesso merito di chi dà poco perché si parte dalla
presunzione che entrambi i soci comunque stiano dando il loro personale
massimo.
Per
forza di cose, e non per meritocrazia, i soci attivi sono quelli che per
disponibilità possono più facilmente farsi carico di compiti operativi e
gestionali. D’altra parte, senza questi soci la gestione dell'associazione si
azzererebbe portando allo scioglimento. L'alchimia corretta per una governance
efficace di una associazione di volontariato è un mix di soci uniti nel
riconoscimento del lavoro dell'altro nel quale non si fa differenza tra chi si
impegna di più e chi si impegna di meno. Sempre che venga posto in alto grado
il rispetto della competenza personale, dell'assunzione personale di
responsabilità operativa e del livello di partecipazione in funzione delle disponibilità
personali.
Madrugada
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