- di ENZO BIANCHI
Come già avvenuto nella
storia antica e recente dell’immigrazione, nei giorni scorsi gli abitanti di
Lampedusa hanno dato al mondo una lezione di solidarietà e di accoglienza
aprendo le loro porte, dando da mangiare e ospitando nelle loro case gli immigrati.
Platone, nell’ultima e incompiuta sua opera Leggi, scriveva: “Consideriamo i
nostri doveri verso l’ospite straniero. Dobbiamo dire che sono gli impegni più
santi. Lo straniero infatti, isolato com’è dai suoi compagni e dai suoi
parenti, è per gli uomini e per gli dèi oggetto di un più grande amore. Perciò
quante precauzioni dobbiamo prendere, se appena abbiamo un po’ di prudenza, per
arrivare al termine della nostra vita senza aver commesso nessuna colpa verso
gli stranieri!”. Per Platone il vero altro non è colui che scegliamo di
invitare in casa nostra bensì colui che emerge, non scelto, davanti a noi: è
colui che giunge a noi portato dall’accadere degli eventi e dalla trama
intessuta dal nostro vivere.
L’altro è colui che sta
davanti a noi come una presenza che chiede di essere accolta nella sua
irriducibile diversità; poco importa se appartiene a un’altra etnia, a un’altra
fede, a un’altra cultura: è un essere umano, e questo deve bastare affinché noi
lo accogliamo.
In altre parole, perché
dare ospitalità? Perché si è uomini, per divenire uomini, per umanizzare la
propria umanità. O si entra nella consapevolezza che ciascuno di noi, in quanto
venuto al mondo, è lui stesso ospite dell’umano, o l’ospitalità rischierà di
restare tra i doveri da adempiere. Il considerarsi ospiti dell’umano che è in
noi, ospiti e non padroni, può invece aiutarci ad avere cura dell’umano che è
in noi e negli altri, a uscire dalla perversa indifferenza e dal rifiuto della
compassione. Il povero, il senza tetto, il girovago, lo straniero, il barbone,
colui la cui umanità è umiliata dal peso delle privazioni, dei rifiuti e
dell’abbandono, del disinteresse e dell’estraneità, incomincia ad essere
accolto quando io incomincio a sentire come mia la sua umiliazione, quando
comprendo che la mortificazione della sua umanità è la mia stessa
mortificazione. Allora, senza inutili e vigliacchi sensi di colpa e senza
ipocriti buoni sentimenti, può iniziare la relazione di ospitalità che mi porta
a fare tutto ciò che è nelle mie possibilità per l’altro.
Ospitare è uscire dalla
logica dell’inimicizia, è fare del potenziale nemico un ospite. Dovremmo
imparare a pensare il grado di civiltà in riferimento al livello dell’umanità e
del rispetto dell’umanità dell’uomo, non in termini di tecnologia e di sviluppo.
Praticare così
l’ospitalità, allora, porterà con sé un dono inatteso: quasi inavvertitamente
finiremo per scoprire che facendo spazio all’altro nella nostra casa e nel
nostro cuore, la sua presenza non ci sottrae spazio vitale ma allarga le nostre
stanze e i nostri orizzonti, così come la sua partenza non lascerà un vuoto, ma
dilaterà il nostro cuore fino a consentirgli di abbracciare il mondo intero.
La Repubblica
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