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giovedì 9 marzo 2023

IL PENSIERO INCOMPLETO


NOTE PER 

UN PENSIERO

 “INCOMPLETO”

 

AL DI LA'

 DELL'ARROGANZA


- di Diego Fares

 La forma più alta di pensiero è quella del pensiero che cresce nell’apertura e, in questo senso, è «incompleto». Lo disse papa Francesco nella sua intervista a La Civiltà Cattolica: «Lo stile della Compagnia non è quello della discussione, ma quello del discernimento, che ovviamente suppone la discussione nel processo. L’aura mistica non definisce mai i suoi confini, non completa il pensiero. Il gesuita deve essere una persona dal pensiero incompleto, dal pensiero aperto» [1].

 Che cos’è il pensiero incompleto? Come lo si può descrivere? Afferma papa Francesco, parlando del discernimento imparato leggendo Il Signore di Romano Guardini: «Ho imparato questo modo di pensare da Romano Guardini. Il suo stile mi ha affascinato, anzitutto nel suo libro Il Signore. Guardini mi ha mostrato l’importanza del pensiero incompleto, quello che ti porta fino a un certo punto, ma poi ti invita a contemplare in prima persona. Crea uno spazio per farti incontrare la verità. Un pensiero fecondo dovrebbe essere sempre incompleto per dare spazio a sviluppi successivi. Da Guardini ho imparato a non pretendere certezze assolute su tutto, sintomo di uno spirito ansioso. La sua saggezza mi ha permesso di affrontare problemi complessi che non si potevano risolvere semplicemente sulla base di norme, bensì con un tipo di pensiero che permetteva di attraversare i conflitti senza restarne intrappolato» [2].

 E nella Costituzione apostolica Veritatis gaudium Francesco afferma che oggi si fa sempre più evidente che «c’è bisogno di una vera ermeneutica evangelica per capire meglio la vita, il mondo, gli uomini, non di una sintesi ma di una atmosfera spirituale di ricerca e certezza basata sulle verità di ragione e di fede. La filosofia e la teologia permettono di acquisire le convinzioni che strutturano e fortificano l’intelligenza e illuminano la volontà… ma tutto questo è fecondo solo se lo si fa con la mente aperta e in ginocchio. Il teologo che si compiace del suo pensiero completo e concluso è un mediocre. Il buon teologo e filosofo ha un pensiero aperto, cioè incompleto, sempre aperto al maius di Dio e della verità, sempre in sviluppo, secondo quella legge che san Vincenzo di Lérins descrive così: “annis consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate” (Commonitorium primum, 23: PL 50,668)» [3].

 Noi metteremo in risalto alcuni aspetti del pensiero incompleto, che è il contrario del pensiero trionfalistico: la mentalità dialogica, l’inclusività, l’apertura attenta e responsabile all’altro, l’apertura alle sfide.

 Mentalità dialogica

 Il pensiero che definiamo «incompleto» è eminentemente dialogico, vale a dire non autoreferenziale, non monologante, non astratto. Incontrando la classe dirigente del Brasile, il 27 luglio 2013, il Papa aveva detto: «Quando i leader dei diversi settori mi chiedono un consiglio, la mia risposta è sempre la stessa: dialogo, dialogo, dialogo. L’unico modo di crescere per una persona, una famiglia, una società, l’unico modo per far progredire la vita dei popoli è la cultura dell’incontro, una cultura in cui tutti hanno qualcosa di buono da dare e tutti possono ricevere qualcosa di buono in cambio. L’altro ha sempre qualcosa da darci, se sappiamo avvicinarci a lui con atteggiamento aperto e disponibile, senza pregiudizi. Questo atteggiamento aperto, disponibile e senza pregiudizi, lo definirei come “umiltà sociale”, che è ciò che favorisce il dialogo. […] Oggi, o si scommette sul dialogo, o si scommette sulla cultura dell’incontro, o tutti perdiamo, tutti perdiamo. Per di qui va il cammino fecondo» [4].

 Nel dialogo, ciò che conta è che a decidere sui temi siano i soggetti, proprio i soggetti coinvolti in tali decisioni. Il soggetto è più importante del contenuto del dialogo. Francesco ci mostra due tipi di soggetti che non dialogano, perché sono chiusi in se stessi: i primi riducono il proprio essere al loro sapere o sentire (il Papa lo chiama «gnosticismo»); i secondi lo riducono invece alle loro forze (il Papa lo chiama «neopelagianesimo»).

 Il dialogo implica la convinzione del nostro essere sociale, della nostra incompletezza individuale, che è essenzialmente positiva, perché ci impedisce di essere soggetti chiusi.

L’idea su cui Francesco insiste è che «i soggetti siamo tutti noi». Oggi, infatti, non si nega l’importanza dei diversi saperi e del lavoro di gruppo, tuttavia la tendenza prevalente è quella individualistica, con settarismi elitari. Per la cultura del dialogo è essenziale, invece, l’inclusione di tutti, anche dei meno intelligenti e dei più deboli.

 «È tempo di sapere come progettare, in una cultura che privilegi il dialogo come forma d’incontro, la ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni. L’autore principale, il soggetto storico di questo processo, è la gente e la sua cultura, non una classe, una frazione, un gruppo, un’élite. Non abbiamo bisogno di un progetto di pochi indirizzato a pochi, o di una minoranza illuminata o testimoniale che si appropri di un sentimento collettivo. Si tratta di un accordo per vivere insieme, di un patto sociale e culturale» (EG 239).

 Affermare che i soggetti siamo tutti noi non significa considerare una mera somma di tutti gli individui: significa piuttosto considerare la totalità, intesa come popolo. Il Papa ci invita esplicitamente a riflettere sulla Chiesa come popolo fedele di Dio.

 Qual è la mentalità che dobbiamo cambiare? Dopo averci detto che essere discepoli di Cristo comporta una disposizione continua a portare agli altri l’amore del Signore in qualsiasi luogo e attraverso un dialogo personale (cfr EG 127-128), il Papa ci fa notare che «se il Vangelo si è incarnato in una cultura, non si comunica più solamente attraverso l’annuncio da persona a persona» (EG 129).

 Il nostro annuncio del Vangelo deve coinvolgere l’aspetto culturale. Per esempio, nella famiglia, occorre cercare il modo di far diventare la fede «tradizione familiare», così come in famiglia si vivono i momenti belli, le feste, le gite, la conversazione quotidiana. Nel lavoro, ciascuno deve preoccuparsi di mettere i valori del Vangelo a confronto con quelli che vivono i propri colleghi. Ciò consentirà alla predicazione di non essere «scollegata», o qualcosa di «meramente spirituale», bensì un Vangelo incarnato, che raccoglie le sfide del mondo e risponde alle sue preoccupazioni con proposte efficaci.

 Dire «assistiti» non è lo stesso che dire «ospiti e commensali». Questi ultimi termini hanno un significato evangelico, e il considerare una persona come «ospite» fa sì che cambi il nostro atteggiamento verso di essa: ci inserisce in un dinamismo di accoglienza, ci fa sentire come è bello fare onore a un ospite…

 D’altra parte, ci sono parole che vengono dal mondo sociale e sono preferibili ad altre. «Utente» appare più impersonale di «beneficiario»; tuttavia appare preferibile considerare che l’altro sia un utente a pieno titolo dei nostri servizi – così come noi siamo utenti dell’acqua corrente, della luce e del gas –, e non un beneficiario, quasi fossero servizi che gli vengono offerti per carità. Non ci si sente «beneficiari» dei servizi essenziali, e si ha tutto il diritto di indignarsi quando viene staccata la corrente elettrica.

 L’inculturazione del Vangelo ci porta a riflettere su chi sia colui che evangelizza – è tutto il popolo di Dio che annuncia il Vangelo – e a contrapporre una nuova mentalità alla nostra mentalità individualista.

 Mentalità che si focalizza sull’inclusione

 La nuova mentalità che il Papa ci invita ad acquisire ha un carattere eminentemente sociale. L’analisi della vita politica ed economica attuale mostra che, nonostante le sue importanti conquiste, essa genera «una diffusa esclusione» e iniquità. E ciò produce violenza, con conseguenze tragiche per ogni tipo di persona. Perciò il rimedio sta dalla parte dell’inclusione. La nuova mentalità richiede, in primo luogo, «un approccio inclusivo».

L’inclusione non è un fatto ovvio. Nella riflessione filosofica attuale c’è chi afferma come necessaria «la rinuncia a cogliere, con il pensiero, la totalità del reale» (Theodor Adorno). Se ciò avviene a livello filosofico, non c’è da meravigliarsi se l’economia pensi a un Paese di venti milioni di persone – anziché i cinquanta che siamo –, o se il 46% del denaro sia nelle mani dell’1% delle persone. Esiste una mentalità «riduttiva», che è dannosa, perché falsa.

 Come motivo di riflessione, poniamo allora due questioni. Una teorica: il nostro pensiero non può «cogliere» la totalità del reale, ma può «aprirsi» – e di fatto esiste questa apertura – ad essa. Un’altra questione è pratica: non è possibile «escludere» nessuno. Gli esclusi «si includono» con le buone maniere  o, prima o poi, essi «ci escludono» con le cattive maniere. Questo è un altro modo per dire che «l’esclusione produce violenza».

 Gli esclusi «si includono». Innanzitutto, dobbiamo credere nella possibilità di cogliere questo aspetto. Dobbiamo supporre che, se certe scienze non posseggono la lente adatta per cogliere qualcosa di così complesso, questo non vuol dire che non possano trovarla o che non si possano tentare altri sguardi.

 Nel primo giorno di un campeggio parrocchiale, i giovani erano affascinati dal paesaggio e fotografavano di tutto con i cellulari. La sera, quando spuntarono le stelle, come accade soltanto in montagna dove non c’è smog, una delle ragazze, intenta a fotografare il cielo, a un certo punto esclamò: «Questo non entra in un cellulare!», e si mise a contemplarlo soltanto con i suoi occhi. Questa osservazione è significativa, e la possiamo trasferire dal cielo stellato all’umanità delle moltitudini: occorre guardarla con i nostri stessi occhi, allargati da quelli di Gesù, il Buon Pastore, il quale «guarda le persone con compassione». Soltanto questo sguardo può consentire «un approccio inclusivo».

 Stiamo parlando di «guardare umanamente», non attraverso la mediazione scientifica o tecnica, che «influenza e modifica» la realtà nell’osservarla con i propri strumenti. Romano Guardini ci dice che l’occhio umano non è come una macchina fotografica. «L’occhio umano “si sbaglia e si corregge”, si orienta, sceglie e scarta; la macchina fotografica no. Ci sono cose che non vediamo o che falsiamo per l’intensità del nostro desiderio o della nostra avversione. Questo non lo può fare la macchina, che fotografa con oggettività quello che ha davanti a sé. Le fotografie non si sbagliano, perché congelano la realtà in un istante (e, se si tratta di un film, in vari quadri al secondo). Ma l’occhio umano capta infinitamente di più, perché si modifica nel momento stesso in cui si modifica l’essere che gli è davanti e che si esprime. Per questo ci emoziona di più vedere qualcuno dal vivo piuttosto che vederlo in televisione; sebbene non ce ne rendiamo conto, la quantità di informazione – soggettiva e oggettiva – che scambiamo in un incontro reale è infinitamente maggiore rispetto a quella che riusciamo a cogliere attraverso la tv» [5].

 Mentalità che si lascia interpellare

 Il pensiero incompleto viene autenticato dal suo lasciarsi interpellare drammaticamente dall’altro. Questa visione trascendente è così importante che il Papa, prima ancora di definirla, la pone come una sfida drammatica a cui lui stesso si espone: «Sono consapevole che queste parole sono forti, persino drammatiche». Nell’Evangelii gaudium dice: «Se qualcuno si sente offeso dalle mie parole, gli dico che le esprimo con affetto e con la migliore delle intenzioni, lontano da qualunque interesse personale o ideologia politica. La mia parola non è quella di un nemico né di un oppositore. Mi interessa unicamente fare in modo che quelli che sono schiavi di una mentalità individualista, indifferente ed egoista, possano liberarsi da quelle indegne catene e raggiungano uno stile di vita e di pensiero più umano, più nobile, più fecondo, che dia dignità al loro passaggio su questa terra» (EG 208).

 Il carattere drammatico di questa sfida sta nell’essenza della «nuova mentalità». Ci sono «approcci» che noi facciamo soltanto quando qualcuno «ci chiede aiuto», quando sentiamo il grido dell’altro: ciò fa sì che volgiamo lo sguardo e scopriamo quello che era nascosto, quello che non si vedeva. Questo sguardo si oppone alla globalizzazione dell’indifferenza. Questo sguardo richiede attenzione e indica responsabilità. Un’attenzione che deve tradursi in decisioni politiche ed economiche piuttosto che fermarsi alla semplice retorica. E in una precisa responsabilità, perché è proprio del bene il concretizzarsi.

 Occorre fare attenzione al grido dei poveri, ascoltarne bene i richiami; saperli leggere «fuori dall’ideologia» è parte della fisionomia di questa nuova mentalità: «Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati a essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società; questo suppone che siamo docili e attenti ad ascoltare il grido del povero e a soccorrerlo. […] Rimanere sordi a quel grido, quando noi siamo gli strumenti di Dio per ascoltare il povero, ci pone fuori dalla volontà del Padre e dal suo progetto» (EG 187).

 L’esigenza di ascoltare questo grido deriva dalla stessa opera liberatrice della grazia in ciascuno di noi.

 Una mentalità che ci sfida

 Il pensiero incompleto si elabora uscendo nelle periferie, toccando i confini, collocandosi al limite del proprio sapere e potere. La trascendenza di cui parla papa Francesco non è soltanto quella verso Dio, come siamo abituati a pensare, e nemmeno quella verso i valori etici: comprende entrambe le realtà, ma la sua sfida è quella di uscire verso le periferie esistenziali, là dove non si può tollerare che migliaia di persone muoiano ogni giorno di fame, pur essendo disponibili ingenti quantità di cibo, che spesso vengono semplicemente sprecate.

 Chi esce dal proprio ambiente e dal proprio io, cambia mentalità. La realtà si vede meglio dalle periferie che dal centro. Afferma ancora Francesco: «Io sono convinto di una cosa: i grandi cambiamenti della storia si sono realizzati quando la realtà è stata vista non dal centro, ma dalla periferia. È una questione ermeneutica: si comprende la realtà solamente se la si guarda dalla periferia, e non se il nostro sguardo è posto in un centro equidistante da tutto. Per capire davvero la realtà, dobbiamo spostarci dalla posizione centrale di calma e tranquillità e dirigerci verso la zona periferica. […] Per capire, ci dobbiamo “scollocare”, vedere la realtà da più punti di vista differenti» [6].

 Affermare sempre il limite del nostro pensiero, paradossalmente lo sblocca e lo rende più acuto e creativo. «Entrare in discernimento significa resistere alla tentazione di trovare un falso sollievo in una decisione immediata e, invece, essere disposti a presentare con umiltà diverse opzioni al Signore, aspettando quel traboccamento». Questo «falso sollievo» che si trova in una decisione immediata è proprio del pensiero trionfalistico. Quando apre la strada all’amore – che è sempre amore per l’altro e uscita da sé –, il pensiero diventa capace di superare le insidie ideologiche nelle quali si vede costantemente intrappolato. Le nuove formule con cui Francesco ci sorprende ogni giorno nascono dal suo amore per Dio e per il prossimo. I semplici di cuore lo capiscono benissimo.

 Civiltà Cattolica


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