- di Antonio Spadaro
La Chiesa ha futuro? Qual è il rapporto della Chiesa con il passare del tempo, cioè con la sua storia?
Il
rischio di andare a «sbattere» nel rispondere a queste domande è elevatissimo.
Sia di sbattere contro una visione meramente sociologica sia di sbattere contro
un’analisi puramente e astrattamente ideo-teologica, cioè l’ideologia della
«giovinezza» della Chiesa o delle sue «magnifiche sorti e progressive» in tempo
di crisi.
«L’ideologia»,
ha avvertito una volta papa Francesco, «non convoca. Nelle ideologie non c’è
Gesù. Gesù è tenerezza, amore, mitezza, e le ideologie, di ogni segno, sono
sempre rigide». L’ideologia è rigida, anche quella della giovinezza perenne.
Ad
alcuni sembra che il nostro mondo stia cessando di essere cristiano: come
facciamo a parlare di giovinezza della Chiesa? L’insignificanza sembra la
condanna, e parliamo di futuro? Ci dibattiamo spesso tra tradizionalismo e
modernizzazione, ma non ne usciamo.
E,
certo, uno dei problemi gravi della Chiesa d’oggi è quel che il Papa, con un
neologismo, ha definito più volte «indietrismo», una «moda» che porta non ad
«attingere dalle radici per andare avanti», ma a fare un «indietrismo che ci fa
setta, che ti chiude, che ti toglie gli orizzonti» e ti fa custode «delle tradizioni
morte».
La
vera domanda è: se il Vangelo non fosse proclamato, mancherebbe qualcosa di
essenziale alla vita umana?
Siamo
capaci di pensare il futuro?
Tra il 1945 e il 1946 lo scrittore svedese Stig Dagerman pubblicava i suoi primi romanzi. È tutta da leggere una sua magnifica riflessione, nella quale egli dice, tra l’altro: «Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa. Non ho ereditato né un dio né un punto fermo sulla terra da cui poter attirare l’attenzione di un dio. Non ho ereditato nemmeno il ben celato furore dello scettico, il gusto del deserto del razionalista o l’ardente innocenza dell’ateo. Non oso dunque gettare pietre sulla donna che crede in cose di cui io dubito o sull’uomo che venera il suo dubbio come se non fosse anch’esso circondato dalle tenebre. Quelle pietre colpirebbero me stesso, perché di una cosa sono convinto: che il bisogno di consolazione che ha l’uomo non può essere soddisfatto» [1].
L’impossibilità
della «consolazione» (tröst, in svedese) inchioda Dagerman al timore che la
propria vita sia solo «un vagare insensato verso una morte certa». Non può
essere un uomo felice, dunque. C’è un bisogno di consolazione che non può –
giustamente – essere soddisfatto dalla pura proiezione calcolante dei dati del
già vissuto. Ecco il punto, ecco perché questa lettura è utile alla
riflessione: manca il futuro. Dagerman non può pensare il futuro.
L’incapacità
di pensare la speranza radica e fissa il varco di uscita dalla disperazione in
un assoluto presente che diventa assenza di tempo (e dunque anche di futuro),
perché il tempo «tocca esclusivamente le mura esterne della mia vita», scrive
Dagerman.
Ecco
le sue parole: «Tutto quel che mi accade di importante, tutto quel che
conferisce alla mia vita il suo contenuto meraviglioso – l’incontro con una
persona amata, una carezza sulla pelle, un aiuto nel bisogno, il chiaro di
luna, una gita in barca sul mare, la gioia che dà un bambino, il brivido di
fronte alla bellezza –, tutto questo si svolge totalmente al di fuori del
tempo. Che io incontri la bellezza per un secondo o per cent’anni è del tutto
indifferente. Non solo la beatitudine si trova al di fuori del tempo, ma essa
nega anche ogni relazione tra il tempo e la vita» [2].
Si
tratta di una riflessione straordinaria. L’intuizione del meraviglioso, la
sfida dell’eterno non entrano nel tempo, non diventano pensiero del futuro. Ed
è straordinaria anche perché risponde alla domanda implicita: che cos’è il
meraviglioso? Per Dagerman, è «l’incontro con una persona amata, una carezza
sulla pelle, un aiuto nel bisogno, la gioia che dà un bambino, il brivido di
fronte alla bellezza». Tutte situazioni che generano futuro perché sono
«eventi», promesse di futuro, come lo possono essere solo il brivido e la
carezza.
Per
Dagerman, queste situazioni «meravigliose» si radicano in un hic et nunc che
non ammette altro se non l’ustione, la bruciatura, il contatto diretto
istantaneo, l’assoluto presente. Egli scrive: «Non è vero che un bambino che si
è bruciato sta lontano dal fuoco. È attirato dal fuoco come una falena dalla
luce. Sa che se si avvicina si brucerà di nuovo. E ciononostante si avvicina».
Anzi, nell’esperienza dell’ustione c’è anche una forza di verità che purifica:
«Dobbiamo benedire i vulcani, ringraziarli della loro luce e del loro fuoco.
Dobbiamo ringraziarli di averci accecato, perché solo chi è stato accecato può
vedere davvero» [3]. Visione è accecamento, ustione, non generazione.
L’esperienza
di Dagerman è l’urlo di una disperazione che ha provato l’esperienza della
grazia e della meraviglia, ma senza credere che questa sia possibile come
storia, come futuro aperto. È un totale presente fuori dal tempo, che lascia
nel buio e senza grazia il pensiero del tempo che scorre e supera l’istante.
Qui
si intravede una risposta alla domanda sulla giovinezza della Chiesa e sul suo
futuro: tenere viva la convinzione che l’esperienza della grazia e della
meraviglia sia possibile come storia, come futuro. La speranza sfida il
nichilismo.
Il
messaggio del Vangelo sfugge di mano
Il
tempo della Chiesa è il futuro, l’avvenire. Nel momento in cui passato e
presente dominano senza l’orizzonte del futuro, il messaggio evangelico diventa
merce da vendere, si mercifica. Anche la tradizione diventa merce. Un commercio
alto, sia beninteso: di valori e idee, ma pur sempre commercio. Il messaggio
del Vangelo è indisponibile, non è commerciabile, «a portata di mano», utilizzabile.
Sfugge di mano, sfugge a qualunque organizzazione, a qualunque forma di
propaganda manipolativa. Il Vangelo si proietta in un futuro ignoto,
nell’avvenire.
Papa
Francesco, in un suo Messaggio rivolto alle Pontificie Opere Missionarie nel
2020, a proposito dei discepoli che seguivano Cristo, scrive: «Egli sta per
dare inizio al compimento del suo Regno, e loro si perdono ancora dietro alle
proprie congetture». Oggi come allora: siamo persi tra le congetture, come se
fossimo noi a dover «organizzare la conversione del mondo al cristianesimo»,
scriveva il Papa, o la stessa vita dello spirito. Se la Chiesa non è una mera
organizzazione, allora il sacerdos non può ridursi a un burocrate dello
spirito o «funzionario della missione» che commercia salvezza predicando valori
[4].
«Abitare
nella possibilità»
L’apertura
allo Spirito vive della pensabilità del futuro. Se non si è capaci di pensare
un dopo, un domani, qualcosa che deve ancora accadere, allora è impossibile
parlare di generazione del futuro. Appare ovvio pensare al passato che è già
compiuto, e al presente che si svolge mentre lo pensiamo. E tuttavia per
generare futuro – e dunque sperare – è necessario immaginare, proiettarci in un
futuro possibile, riflettere su ciò che non vediamo con i nostri occhi né
tocchiamo con le nostre mani.
Ricordiamo
che la classicità viveva la propria storia nel senso della ciclicità e
dell’eterno ritorno. Il cerchio, infatti, è simbolo della compiutezza e della
perfezione. I classici, sospettosi sulle utopie e sul futuro, avevano ancorato
la loro identità alle origini e al passato. Essi avevano idealizzato il
passato, avevano il mito delle origini. E avevano assolutizzato il presente:
carpe diem! Vivi il presente, l’hic et nunc. Al classico manca il futuro e,
dunque, manca la speranza, che Seneca intende come dulce malum, un
incantesimo, perché proietta la vita in un avvenire che non è certo. La
classicità aveva bisogno di sicurezza, di stabilità. La speranza – potremmo
dire – nasce davvero con il cristianesimo.
Dunque,
non è affatto ovvio parlare di futuro e di speranza. Per parlare di futuro
della Chiesa, allora, è necessaria un’apertura all’incertezza. Certo, però, c’è
chi pensa che il futuro sia una deduzione: date alcune condizioni, si può
dedurre qualcosa di quel che accadrà. Ma questo non ha nulla a che vedere con
ciò che i cristiani chiamano speranza. Il futuro affidato alla statistica non
apre alla speranza, ma al calcolo delle probabilità, al pensiero calcolante,
capace di fare previsioni più o meno attendibili. Il futuro (anche quello della
Chiesa) sarebbe così la logica prosecuzione del presente sulla base del
passato. Non c’è salto, non c’è scarto, non c’è abisso, non c’è desiderio, non
c’è inquietudine, non c’è rivoluzione.
La
speranza della Chiesa invece è immersione in una storia che ci arriva, dentro
la quale siamo chiamati, senza essere prodotto dei nostri calcoli, e tanto meno
di «piani pastorali» realizzati da «operatori». Se si ha questa attitudine alla
fede, allora le porte della speranza possono aprirsi. È possibile generare
futuro, «abitare nella possibilità», come scrive Emily Dickinson in un suo
splendido verso: I dwell in possibility. Non si tratta di credere nella
probabilità, ma nella possibilità, cioè nella possibilità di fare esperienza
non legata ai limiti di ciò che è statisticamente probabile. La speranza è il
territorio del possibile, che va ben al di là del campo della probabilità. È il
territorio della grazia, l’unica possibilità di «giovinezza» della Chiesa. Essa
implica l’incertezza, l’indeterminazione. Non l’ordine, la codificazione, il
solido, ma l’informe, il diveniente, ciò che non è ancora solidificato e
definito.
C’è
un abisso da superare, dunque, per vivere la speranza. C’è bisogno di una fede.
Il suo campo non è quello del calcolo o dell’algoritmo, ma quello della gratia
gratis data. L’abisso è quello della fiducia nella possibilità di una storia
futura che non conosciamo e che non è deducibile dal presente e dal passato
come fosse una logica conclusione, una storia che è «altro» rispetto a noi e ai
nostri noti limiti. In questo senso il futuro non è la combinatoria delle
nostre attese e delle nostre aspettative. Sarebbe un abbaglio far risiedere la
speranza nella pura proiezione combinatoria dei nostri desideri. La speranza è
il non ancora conosciuto, che è capace di sorprenderci, traboccante. Il motore
della speranza è, in definitiva, il timore di non ricevere ciò che si attende,
dunque il dubbio, l’incertezza, la precarietà inquieta.
L’inquietudine
del pensiero aperto: tra utopia e maturità
Per
questo Francesco parla spesso di «sana inquietudine», che è la vera
disposizione d’animo della giovinezza. Perché pensa il futuro, l’inaudito,
l’imprevedibile. Ed ecco la definizione-chiave che papa Francesco fornisce del
gesuita (e dunque di sé) nell’intervista che gli fece nel 2013 per La
Civiltà Cattolica: «Il gesuita deve essere una persona dal pensiero
incompleto». E ancora: «Il gesuita pensa sempre, in continuazione, guardando
l’orizzonte verso il quale deve andare, avendo Cristo al centro» [5]. Ma – come
disse in una lettera ai sacerdoti del 2007, quando era arcivescovo di Buenos
Aires – bisogna stare attenti a che l’orizzonte non si avvicini a tal punto da
diventare un recinto [6]. L’orizzonte deve essere realmente aperto. E a questa
apertura corrisponde un «pensiero incompleto», un «pensiero aperto». Ha chiesto
una volta Francesco: «Mi lascio “scardinare dentro” dal paradosso?». Si
riferiva alla forza delle Beatitudini, e possiamo riferire la domanda anche al
Vangelo nella sua interezza. L’alternativa è di rimanere «nel perimetro delle
mie idee» [7].
«Dio
è creativo, non è chiuso, e per questo non è mai rigido. Dio non è rigido!» [8],
ha detto Francesco in un suo discorso ai catechisti. Così la nostra vita non
deve irrigidirsi. L’esistenza umana non è una partitura già scritta, un
«libretto d’opera», dice Bergoglio. C’è una dimensione di incertezza, di
incompletezza che è parte integrante di una vita di fede, che è – come
Francesco disse nell’intervista a La Civiltà Cattolica – «avventura», «ricerca»,
apertura di nuovi spazi a Dio. E questo genera «sana inquietudine».
Bergoglio
ama la posizione esistenziale di Agostino. Nella Messa per l’inizio del
Capitolo generale dell’Ordine di sant’Agostino, nell’agosto del 2013, aveva
parlato della «pace dell’inquietudine».
Educare,
non adattare
Da
questa visione consegue una visione della maturità che non coincide più con
l’adattamento. Il tema è davvero importante per un educatore. «Lo stesso Gesù –
afferma
provocatoriamente Bergoglio – per molte persone del suo tempo sarebbe potuto rientrare
nel paradigma dei disadattati e quindi immaturi» [9]. Ma, senza cadere
nell’elogio dell’anarchia, argomenta: «Se la maturità fosse un puro e semplice
adattamento, la finalità del nostro compito educativo consisterebbe
nell’“adattare” i ragazzi, queste “creature anarchiche”, alle buone norme della
società, di qualunque genere siano. A quale costo? A costo della censura e
dell’assoggettamento della soggettività, o peggio ancora a spese della
privazione di ciò che è più proprio e sacro della persona: la sua libertà» [10].
Prosegue
Bergoglio: «Un ragazzo “inquieto” […] è un ragazzo sensibile agli stimoli del
mondo e della società, uno che si apre alle crisi a cui va sottoponendolo la
vita, uno che si ribella contro i limiti ma, d’altra parte, li reclama e li
accetta (non senza dolore), se sono giusti. Un ragazzo non conformista verso i
cliché culturali che gli propone la società mondana; un ragazzo che vuole
imparare a discutere». Dunque, occorre «leggere» questa inquietudine e
valorizzarla, perché tutti i sistemi che cercano di «acquietare» l’uomo sono
perniciosi: conducono, in un modo o nell’altro, al «quietismo esistenziale» [11].
Nell’inquietudine si genera futuro.
Oggi
invece avvertiamo una tentazione forte – a volte anche nella Chiesa –, quella
di «serrare le fila». Si avverte la tentazione di opporre al caos percepito la
risposta di un cattolicesimo intransigente e identitario. Noi oggi riconosciamo
che una «civiltà cattolica» non è una bolla chiusa in sé stessa, né alimenta
rancori nei confronti di un mondo che ad alcuni sembra ormai perso e alla
deriva, abbandonato da Dio. La civiltà cattolica non è quella costruita
sull’intransigenza dei puri, che uccide lo spirito. La tentazione identitaria è
la necrosi del cristianesimo.
In
questo senso, Bergoglio non rifiuta l’«utopia» come mera astrazione. Al
contrario, riconosce la sua carica positiva e la sua valenza politica; afferma: «Le utopie sono in primo luogo
frutto dell’immaginazione, proiezioni nel futuro di una costellazione di
desideri e aspirazioni» [12]. L’utopia prende forza dall’insoddisfazione e dal
malessere generati dalla realtà attuale, ma anche dalla convinzione che è
possibile un mondo diverso. Non è pura evasione, ma una forma che la speranza
assume in una concreta situazione storica e che si accompagna a una ricerca
concreta di nuove strade. Qui c’è un compito radicale: ricostruire
l’immaginario della fede e della convivenza umana in una società che cambia,
dove i riferimenti simbolici e culturali non sono più quelli di una volta.
Se
non c’è il senso della vertigine, se non si sperimenta il terremoto, se non c’è
il dubbio metodico – non quello scettico –, la percezione della sorpresa
scomoda, allora forse non c’è esperienza di Chiesa. Se lo Spirito Santo è in
azione – ha affermato una volta Francesco –, allora «dà un calcio al tavolo» [13].
L’immagine è felice, perché è un implicito riferimento a Mt 21,12, quando Gesù
«rovesciò i tavoli» dei mercanti del tempio.
Il
tempo della sospensione
Non
sentiamo oggi il bisogno di un «calcio» dello Spirito, se non altro per
svegliarci dal torpore? I mercanti sono sempre nei pressi del tempio, perché lì
fanno affari, lì vendono bene: formazione, organizzazione, strutture, certezze
pastorali. I mercanti si vantano di essere «al servizio» del religioso. Spesso
offrono scuole di pensiero o ricette pronte all’uso e geolocalizzano la
presenza di Dio, che è «qui» e non «lì». O futuro o merce. O possibilità o
commercio.
Pensiamo
al processo ecclesiale del Sinodo sulla sinodalità. Colpisce, ad esempio,
quanto ha detto il Relatore generale, il card. Jean-Claude Hollerich, nel suo
saluto, il 9 ottobre 2021, durante l’inaugurazione: «Devo confessare che non ho
ancora idea del tipo di strumento di lavoro che scriverò. Le pagine sono vuote,
sta a voi riempirle». Occorre vivere il tempo sinodale con pazienza e attesa,
aprendo bene occhi e orecchie. «Effatà, cioè: “Apriti!”» (Mc 7,34) è la parola
chiave del futuro. «Non ho ancora idea…». Quanto futuro c’è in queste parole!
Non è indeterminatezza, ma attesa, tensione, ascolto, consapevolezza del
futuro. Occorre sopportare la sospensione, evitando che la nostra progettualità
sul futuro diventi un attivismo pelagiano pettegolo o un’operazione pastorale
segnata dal carisma della frenesia. Che la sospensione sia la forma della
Chiesa del futuro? Certo che è, almeno escatologicamente, così. Una sospensione
inquieta.
«Disinstallarsi»
Una
forma dell’inquietudine sana è stata definita da Francesco con un verbo usato
in un messaggio ai giovani delle Antille: disinstallare [14]. Alla lettera:
«disinstallarsi». In italiano è stato tradotto ufficialmente con «lasciare la
situazione di essere sistemati». Traduzione utile, ma arzigogolata. Ecco le sue
parole in spagnolo: «Si están instalados la cosa no va. Tienen que desinstalarse los que están instalados, y
empezar a luchar». Francesco chiede di «disinstallarsi».
Evocando
la disinstallazione, Bergoglio fa leva su un principio ignaziano che guida il
suo ministero petrino in modo particolare: la mobilità. Essa è diametralmente e
carismaticamente opposta e complementare al criterio della stabilitas
benedettina. Benedetto fonda monasteri e stabilizza i monaci, di modo che poi i
monasteri diventino centri di irradiazione. Ignazio invia in missione, vuole
che i gesuiti professi vivano non in collegi, ma in stationes.
Se
la Chiesa fosse appiattita su questa dimensione spaziale, se lo spazio fosse il
suo criterio fondamentale, essa diventerebbe solo una forma del potere come le
altre. Certo che la Chiesa esercita un «potere», e certo che lo ha fatto nel
bene e nel male. Ma il discorso non finisce qui. Se così fosse, la Chiesa
sarebbe già morta e sepolta; come tutti gli imperi, del resto. Fa comodo
pensarla così, perché questo ci lascia tranquilli. Ma non è così. La giovinezza
della Chiesa non sta lì.
Con
Francesco, san Paolo è salito sul soglio di Pietro in un momento in cui la
Chiesa vive in una grande Corinto, in una Roma imperiale, quella descritta da
Pasolini e da lui identificata con la città di New York [15]. Così Francesco ha
elevato in modo sanamente inquietante la tensione tra spirito e istituzione. Ha
scritto che la Chiesa è «popolo pellegrino ed evangelizzatore, che trascende
sempre ogni pur necessaria espressione istituzionale» (Evangelii gaudium, n.
111).
Per
questo Francesco rifiuta radicalmente l’idea dell’attuazione del regno di Dio
sulla Terra, che era stata alla base del Sacro Romano Impero e di tutte le
forme politiche e istituzionali similari, fino alla dimensione del «partito».
Il motto «In hoc signo vinces» di Costantino e quello «In God we trust»
che leggiamo sul dollaro statunitense sono, in un modo o nell’altro, sempre a
rischio di idolatria. Ricordiamo con angoscia il «Gott mit uns». La teologia
cristiana della storia non ha nulla a che fare con le escatologie intramondane
che promettono il paradiso in terra, facendo della terra un inferno. La Chiesa
è chiamata a desacralizzare le ideologie secolari, ma anche i tentativi di
ideologizzare il cristianesimo. Immaginare la ecclesia triumphans su questa
Terra trasforma la faith in fight, la fede in lotta. Purtroppo, le dinamiche
della guerra di invasione dell’Ucraina da parte della Russia non sono aliene da
questa tentazione.
Il
«popolo eletto», una volta diventato «impero» o «partito», entra in un
intricato intreccio di dimensioni religiose e politiche capace di fargli
perdere la consapevolezza del suo essere a servizio del mondo, contrapponendolo
a chi è lontano, a chi non gli appartiene, cioè al «nemico» istituzionalizzato
come tale. Lo muovono alla conquista o alla colonizzazione. Il futuro sarebbe
ipotecato, la giovinezza defunta. E invece il tempo futuro della Chiesa è la
suspense.
Anche
la logica dell’annuncio evangelico non è espansionista o neocoloniale.
Francesco ama le Chiese dello «zero virgola», che però sono semi per la Chiesa
universale: dall’asiatica Chiesa in Bangladesh a quella in Mongolia; dall’europea
Chiesa in Svezia a quella in Estonia. Non si tratta di un esotismo: è la forza
di un processo di fecondazione. «C’è una grazia nascosta nell’essere una Chiesa
piccola, un piccolo gregge», ha detto Francesco in Kazakistan. Essa consiste
nella percezione di non essere «autosufficiente» e di essere invece «una
comunità aperta al futuro di Dio, accesa dal fuoco dello Spirito: viva,
speranzosa, disponibile alle sue novità e ai segni dei tempi, animata dalla
logica evangelica del seme che porta frutto nell’amore umile e fecondo». Questa
è per lui la «Chiesa del futuro»: essere «come lievito nella pasta e come il
più piccolo dei semi gettato nella terra», abitare «le vicende liete e tristi
della società in cui viviamo, per servirla dal di dentro» [16].
Il
discernimento consiste nel capire dove sono i semi per tutti, della Chiesa
universale. È l’operazione coloniale al contrario: la «disinstallazione».
Quindi, il tempo del processo, della crescita è più importante dello spazio, il
seme inteso come totipotenza di futuro più degli alberi e dei rami. Conta il
tempo.
Il
ritmo della Chiesa
Tuttavia,
è importante non solamente il tempo, ma anche il ritmo. Il ritmo della Chiesa
non è quello della sinfonia, ma piuttosto quello che evocavamo all’inizio come
ritmo del ragionamento che stiamo sviluppando: quello della jam session di un
concerto jazz. Questo genere vede confluire tradizioni musicali disparate ed è
caratterizzato dall’improvvisazione e dalla poliritmia. Espressione
caratteristica sono le riunioni di musicisti che si ritrovano per una
performance senza aver nulla di preordinato, improvvisando su griglie di
accordi e temi conosciuti. Queste sono situazioni «geniali», dove la sfida
consiste proprio nel dare una forma non preordinata a partire da un caos di
suoni.
Ecco,
non si deve immaginare la Chiesa come una costruzione di mattoncini Lego
diversi che si incastrano tutti al punto giusto, secondo debite proporzioni.
Sarebbe, questa, un’immagine meccanica della comunione ecclesiale. Potremmo
meglio pensarla appunto come una relazione sinfonica, di note diverse che
insieme danno vita a una composizione. Non si tratta di una sinfonia dove le
parti sono già scritte e assegnate, ma di un concerto jazz, dove si suona
seguendo l’ispirazione condivisa nel momento. Questo è il ritmo del futuro: il
jazz.
Facciamo
riferimento a un’esperienza concreta: chi ha seguito le Assemblee del Sinodo
dei vescovi degli ultimi anni si è certamente reso conto di quanto sia emersa
la sonora diversità che plasma la vita della Chiesa cattolica. Se un tempo una
certa latinitas o romanitas costituiva e modellava la formazione
dei vescovi – i quali, fra l’altro, capivano almeno un po’ di italiano –, oggi
emerge con forza la diversità a ogni livello: mentalità, lingua, approccio alle
questioni. E ciò, lungi dall’essere un problema, è una risorsa, perché la
comunione ecclesiale si realizza attraverso la vita reale dei popoli e delle
culture. In un mondo frammentato come il nostro, è una profezia. Per questo c’è
bisogno di grande ascolto delle comunità ecclesiali nel confronto e nel
dibattito sulle esperienze: è sulle esperienze che si può fare discernimento, e
non sulle idee. È lo Spirito Santo che origina la jam session della Chiesa, il
ritmo della sua giovinezza.
A
che punto del nostro ragionamento siamo arrivati? Abbiamo cercato fin qui di
indicare come la giovinezza della Chiesa stia nella pensabilità del futuro,
nell’apertura a un futuro che non sia semplice deduzione dai dati del passato,
ma apertura al possibile (non al probabile), che genera una «sana
inquietudine». La postura dell’anima è quella del «disinstallarsi» dalle
coordinate «coloniali» dello spazio e del potere, che renderebbero il
cristianesimo una cosa, una merce da vendere. Lo spazio della Chiesa è quello
del seme. Da qui l’interesse di Pietro, del Papa, per le realtà meno stabilite,
le realtà dello «zero virgola». L’ascolto di queste realtà periferiche o
marginali produce nella Chiesa un ambiente sonoro che – se vissuto nella
comunione – è quello di una jam session, dove il direttore d’orchestra non può
che essere lo Spirito Santo.
Il
futuro viene dal passato
Ma
è il momento di fare un passo ulteriore, approfondendo il rapporto tra futuro e
passato. Il futuro non è mai astratto: non può esserlo. Siamo noi stessi che
speriamo! E noi siamo ciò che già siamo stati e siamo. Il futuro ci viene
incontro con le forme delle nostre tensioni presenti. Il futuro viene dal
passato, così la sua pensabilità. Siamo in grado di desiderare, perché siamo
quel che siamo, così come la nostra vita ci ha plasmati. Non nel senso che il
futuro prende le forme ormai vuote del passato, ma al contrario: il futuro
risucchia in sé il passato. Nel futuro, infatti, possiamo in qualche modo
recuperare ciò che è stato, integrandolo, risanandolo. Nel presente la memoria
del passato acquisisce un senso imprevisto nella sua direzione.
Quante
volte un’esperienza nuova ci fa vedere un’esperienza del passato sotto un’altra
luce? Quante volte capita di comprendere ciò che è accaduto nella nostra vita
in una prospettiva differente? E quindi di cambiarne il senso e il valore?
Possiamo
descrivere il cammino del futuro in riferimento al tempo vissuto. La domanda
sarebbe: come rimettere in movimento e cambiare un passato che non c’è più?
Come supplire a una mancanza di amore, di educazione, di successo che fin
dall’infanzia possono essere stati negati? Come disfare i nostri modi e
recuperare il tempo perduto? Come convertire il passato? Conversione è dare
nuovo senso all’esperienza vissuta. La conversione non è pura apertura al
futuro, cambiamento di mentalità rivolto alla vita che si farà. Conversione è
innanzitutto metanoia del nostro passato, far entrare Cristo che viene nei
codici della nostra vita vissuta, per vedere quanto egli fosse già presente da
sempre in illo tempore, «in quel tempo». Una delle esperienze più belle
dell’amore, ad esempio, è vedere come lo sguardo della persona amata (o almeno
le sue tracce) era presente – anche solamente nella forma del desiderio – nella
vita passata.
La
linea del senso
Il
processo temporale descritto nella fisica classica si compone in un movimento
di passato-presente-futuro. Nella dinamica della speranza, la direzione della
linea del tempo non è quella fisica, ma quella del senso, che non lega il
futuro al presente e questo al passato in una direzione univoca, ma piuttosto
lega il futuro al passato.
È
un problema che emerge con particolare urgenza, ad esempio, nella psicoanalisi:
se non fosse così, la verità dell’interpretazione analitica e l’efficacia della
psicoanalisi nella sua azione sarebbero irrimediabilmente compromesse. La
memoria non va considerata come una trascrizione immutabile. Se il passato
determina il presente, è perché a sua volta esso è ripreso e quindi rimodellato
dal presente.
È
possibile una «conversione» in profondità solamente se il passato non è già
determinato e non è sottratto interamente alla possibilità di azione. Il
passato deve rimanere aperto. Questa è la «giovinezza». Non una condizione
passeggera e transeunte, né una nostalgia da rincorrere goffamente e senza
speranza come su un tapis roulant. La giovinezza consiste nel non sigillare il
passato, nel lasciarlo aperto alle interpretazioni (e al loro conflitto).
Perché? Perché la memoria dell’esperienza vissuta nel passato acquisisce nel
presente un senso imprevisto, ma attuale ed efficace, nella direzione di
un’attesa di futuro. La religione è anche un re-legere, una rilettura, un
ripensamento del vissuto.
Così
si può agire sul passato in vista di un futuro. È il filo del desiderio che
conduce questa retroazione, che è soprattutto anticipazione di un futuro
diverso. Non possiamo lasciare indietro noi stessi come memoria, perché così
non lasceremmo indietro solo il nostro passato, ma anche il nostro presente e
il nostro futuro. Ciò che verrà modifica continuamente la nostra memoria,
addirittura ne seleziona i contenuti.
Abitare
nella possibilità
Vivere
è davvero «abitare nella possibilità», come scriveva Dickinson. I dwell in
possibility. Per il credente la vita è apertura alla possibilità, la quale non
dipende dalle sue sole forze. Essa, infatti, come scrive san Paolo, è
«criptata» in Dio (cfr Col 3,3). L’uomo spirituale non ritiene di sapere quale
sia il suo destino, ma sa che Dio – e solamente Lui – ne ha la chiave. Anche
gli eventi più contraddittori o negativi del passato hanno una loro
comprensibilità in una password che è conosciuta solamente da Dio. Il credente
sa che la sua vita è protetta da questa password. Sa inoltre che lo attende una
«decifrazione» del suo destino. La giovinezza della Chiesa è protetta da questa
password, è criptata in Dio, preservata da operazioni volontariste e pelagiane.
Una
Chiesa che non si separa dalla vita
C’è
un episodio del Vangelo dove questa esperienza di décryptage si dispiega. È
quello dei discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,13-35). L’episodio ci aiuta a
riflettere su questo abitare nella possibilità. I discepoli vanno verso Emmaus,
desolati, come Dagerman. Non vedono futuro e tornano indietro. Incontrano però
un uomo che illumina il passato che avevano vissuto e li proietta verso il
futuro. Converte l’esperienza fatta, svelandola: «Non ci ardeva il cuore?»,
riconoscono, riferendosi a quando Gesù spiegava loro il senso di quel che
avevano vissuto.
Papa
Francesco ha spesso fatto riferimento a questi due discepoli come modello per
la Chiesa che ha un futuro. I due discepoli scappano da Gerusalemme,
scandalizzati dal fallimento del Messia nel quale avevano sperato. Qui possiamo
leggere il mistero difficile della gente che lascia la Chiesa, che ritiene che
ormai essa non possa offrire più qualcosa di significativo e importante.
Di
fronte a questa situazione, che cosa fare, dunque? Quale Chiesa «servirebbe»
gli uomini di oggi che sono come i due discepoli di Emmaus? Papa Francesco
descrive ad ampie pennellate la Chiesa del futuro: «Serve una Chiesa in grado
di far compagnia, di andare al di là del semplice ascolto; una Chiesa che
accompagna il cammino mettendosi in cammino con la gente; una Chiesa capace di
decifrare la notte contenuta nella fuga di tanti fratelli e sorelle da
Gerusalemme; una Chiesa che si renda conto di come le ragioni per le quali c’è
gente che si allontana contengono già in se stesse anche le ragioni per un
possibile ritorno, ma è necessario saper leggere il tutto con coraggio. Gesù
diede calore al cuore dei discepoli di Emmaus»[17].
È
da notare una cosa: la fiducia nel riconoscere con fine discernimento, in
maniera acuta e forse imprevedibile, che le ragioni per le quali la gente si
allontana dalla Chiesa «contengono già in se stesse anche le ragioni per un
possibile ritorno». Qui il Papa vuol dire che bisogna dare credito anche alle
tentazioni centrifughe, quelle che spingono a lasciare la Chiesa, che possono
contenere un desiderio di autenticità che va preservato, custodito e che resta
importante per una vita cristiana consapevole e piena.
Quale
il senso di questo atteggiamento, così aperto da saper trovare – sub contraria
specie – in ciò che spinge ad abbandonare la Chiesa una autenticità che poi può
portare a un ritorno? Il senso è il discernimento, che consiste nel saper
leggere le tracce del vissuto, del passato, per cambiarne il significato, scoprendo
le orme della grazia. Si tratta di «decifrare la notte», dice Francesco. Ed è
quello che fa Gesù con i suoi discepoli.
Allora
la condizione di spirito di una Chiesa aperta al futuro è quella che predica un
Vangelo capace di convertire il passato, di cambiare il senso di ciò che è
stato, che non teme la contraddizione, la crisi, e anzi vi si avventura alla
ricerca delle tracce di Dio.
Una
Chiesa in cammino
Il
futuro della Chiesa, in questo senso, vive non solamente come apertura al
futuro, suspense, inquietudine, ritmo delle diversità armoniche, ma anche come
riconciliazione piena con tutte le dinamiche dell’umano, incluse quelle
centrifughe rispetto alla Chiesa stessa. Soltanto nell’eschaton
appariranno in tutta la loro pienezza l’unità, la santità, la cattolicità e
l’apostolicità della Chiesa. La Chiesa non è una societas perfecta
parallela a quella umana, civile. Non è un «mondo a sé». È popolo fedele di Dio
in cammino, communio viatorum. La sua giovinezza e il suo futuro
consistono nel riconoscere dove il Signore è già presente nel mondo, capire
dove si è fatto trovare e dove si trova: ora incoraggiando, ora chiamando a
conversione. Occorre rileggere il vissuto del mondo alla luce della Provvidenza
e della Grazia, riconoscere i semina Verbi, senza mai cadere nelle tentazioni
della desolazione e della solitudine.
Abbiamo
delineato una Chiesa inquieta, instabile, «disinstallata», diciamo così, che
però, alla luce della tensione verso il regno di Dio e grazie al Vangelo, sa
dare un senso alle vicende umane. Così scopriremo vere le parole che Julien
Green vergava nel suo Diario: «Credo che siamo tutti in cammino verso il
cristianesimo, ed è all’incirca tutto quello che possiamo dire».
[1]. S. Dagerman, Il nostro bisogno di consolazione, Milano, Iperborea, 1991, 17.
[2]. Ivi, 24.
[3]. Id., Bambino bruciato, ivi, 2001, 285.
[4]. Cfr A. Spadaro, «“Rompete tutti gli specchi di casa!”. Papa Francesco scrive alle Pontificie Opere Missionarie», in Civ. Catt. 2020 II 471-479.
[5] .
Id., «Intervista a Papa Francesco», in Civ. Catt. 2013 III 449-477.
[6] . Cfr
J. M. Bergoglio, «Lettera ai sacerdoti, ai consacrati e alle consacrate
dell’arcidiocesi», 29 luglio 2007, in Id., Nei tuoi occhi è la mia parola.
Omelie e discorsi di Buenos Aires 1999-2013, Milano, Rizzoli, 2018, 558.
[7]. Francesco, Angelus, 13 febbraio 2022.
[8]. Id., Discorso ai partecipanti al Congresso
internazionale sulla catechesi, 27 settembre 2013.
[9]. Id., «Messaggio alle comunità educative in
occasione della Messa per l’educazione», 6 aprile 2005, in Id., Nei tuoi occhi
è la mia parola…, cit., 369.
[10]. Ivi.
[11]. Id., «Messaggio alle comunità educative»,
23 aprile 2008, ivi, 627.
[12]. Id., «Messaggio alle comunità educative», 9
aprile 2003, ivi, 193.
Nessun commento:
Posta un commento