- Il dibattito suscitato dal “merito” dopo che la parola è stata aggiunta a “ministero dell’Istruzione”, sembra aver diviso elitisti e progressisti. -
- di - Tiziana Pedrizzi
- Il
dibattito suscitato dall’aggiunta della parola “merito” alla denominazione del
ministero dell’Istruzione ha suscitato un vespaio tutto in chiave nazionale,
come se il problema fosse che la destra è elitista, il che significa
reazionaria e la sinistra è egualitarista cioè inclusiva, politically correct
insomma.
Ma
la famosa gita a Chiasso di arbasiniana memoria – forse irrimediabilmente
datata – ci permetterebbe di capire che il problema è meno scontato, anche
rimanendo nel solo ambito scolastico.
Partiamo
dai primi Pisa. Nelle prime edizioni (2000-2003-2006) il primato dei paesi
nordici – Finlandia, ma non solo, anche Norvegia e Svezia se la cavavano bene –
era abbastanza chiaro.
La
chiave di lettura del successo in tema di istruzione dei diversi Paesi, nel
pensiero Ocse è sempre stata molto orizzontale, sincronica insomma, con un
ruolo di primo piano attribuito al funzionamento del sistema educativo. Le
variabili storico-antropologiche sono sempre state molto trascurate, anche
comprensibilmente, perché ovviamente poco passibili di interventi di policy.
Perciò gli analisti attribuivano un merito rilevante, se non principale, al
fatto che in quei Paesi il percorso scolastico comune a tutti era molto lungo,
fino a ricomprendere quello che noi chiamiamo biennio (15-16 anni). Questo
spiega, negli stessi anni, la battaglia nel nostro Paese sul biennio unico o
unitario, della quale si sentono ancora gli echi in qualche intervento di esperti
più o meno edotti sull’evoluzione dei fatti. L’analisi postulava che una
canalizzazione precoce aveva l’effetto di tagliare fuori da una scolarizzazione
di base del livello necessario per le nostre società una parte rilevante di
popolazione scolastica, con il risultato di abbassare il livello complessivo.
Alla
fine del secondo decennio di Pisa la situazione è cambiata. In cima alle
graduatorie ci sono le tigri asiatiche: Singapore, Corea del Sud, i pezzi di
Cina che partecipano ed anche Giappone. Le strutture scolastiche di questi
Paesi sono molto diversificate, ma le accumuna un forte investimento in
istruzione, il che non significa – come si pensa qui da noi – investimenti
economici spropositati, ma forte concentrazione sull’impegno scolastico. Tanto
da arrivare anche a situazioni parossistiche che in Italia vengono additate con
grande disdoro: le madri tigre, le scuole mattutine e pomeridiane della Corea
del Sud, gli stressanti esami cinesi di mandariniana memoria, per non parlare
dei poveri studenti giapponesi sempre, secondo gli opinion maker italiani della
scuola, sull’orlo del suicidio. Una notazione a margine in proposito: viene
sempre più in evidenza nelle ricerche il forte ruolo che ha avuto in questi
paesi la scolarizzazione femminile di massa, che avrebbe dato una spinta
decisiva in questo campo. Una situazione agli antipodi di quella dei Paesi
islamici che infatti pagano le loro scelte in termini di sottosviluppo.
Da
qui l’attenzione crescente che, anche nei questionari di accompagnamento Pisa,
viene data al clima disciplinare, per come è vissuto dagli allievi. È inutile
dire che esiste un chiaro rapporto fra quanto sopra velocemente tratteggiato e
lo sviluppo di quei Paesi, che non è certo solo caratterizzato – come qui da
qualche parte presuntuosamente ancora ci si illude – da produzioni di massa di
bassa qualità ed a basso costo.
Cosa
c’entra tutto ciò con il merito? I risultati scolastici positivi vengono da due
componenti: la predisposizione e l’impegno. Quanto, in percentuale, il successo
formativo dipenda rispettivamente dai due fattori è discussione lunga e
dolorosa e non risulta sia stata ancora risolta. Il contesto scolastico
comunque ha il compito di individuare la prima e di incentivare il secondo.
Da
questo punto di vista come sta il ricco Occidente? Due osservazioni molto
parziali. Fino alla metà del secolo scorso vi vigeva uno stile disciplinare
piuttosto rigido, che aveva il merito di garantire una standardizzazione utile
alla riproduzione dei ruoli sociali, tenendo conto che chi vi aveva accesso
tendeva a stare alle regole perché ne avrebbe ricavato il vantaggio
dell’ottenimento o del mantenimento di una posizione sociale superiore a quella
di chi non voleva o non poteva farlo. Lo sviluppo della scolarizzazione di
massa – assolutamente necessario per il tipo di società che si andava
delineando – ha diminuito i privilegi di chi studia e perciò allentato
l’adesione volontaria ai vincoli. Donde i problemi di disciplina, di impegno,
eccetera eccetera.
Inoltre,
lo sviluppo delle tecnologie che oggi tanto caratterizzano le nostre società a
livello di massa in senso positivo è narrato come fosse avvenuto non in modo
abbastanza sistematico ed organico come nel caso dell’Ottocento, ma anche, se
non soprattutto, per iniziative di personalità considerate geniali, maturate
fuori, se non contro, il contesto normativo per tutti. In un certo senso questo
è sempre avvenuto nella storia umana, ma l’impressione é che gli Steve Jobs,
gli Elon Musk ed i Jeff Bezos abbiano avuto ed abbiano un peso più forte nella
creazione dell’immaginario collettivo degli Edison e degli Einstein. Ecco,
dunque, la parola d’ordine per tutti: individualismo e creatività.
Così
le teorie pedagogiche di carattere attivistico nate all’inizio del Novecento da
un’élite intellettuale europea ed attecchite negli Usa con la finalità del
nation building sono uscite dalla minorità. Ma non sono entrate nella scuola di
tutti in modo sistematico e serio come meritavano, piuttosto sembrano aleggiare
come uno Zeitgeist generale lassista, in piena convivenza con metodologie o,
meglio, mere pratiche tradizionali che non riescono però naturalmente a
mantenere la tradizionale efficacia.
C’è
poi un’altra più banale ragione, molto chiara nel nostro Paese. Tutte le
società umane, quando raggiungono un certo livello di agio, tendono a
rilassarsi. Con risultati che la storia ci ha insegnato e che ancora ci sta
insegnando, come dimostra per converso ciò che sta avvenendo in Estremo
Oriente. Stiamo consumando il grasso accumulato nei secoli precedenti?
Lavorare
con impegno, anche con sacrifici e duramente ha rischiato in certe letture che
si sono viste sul tema del merito di apparire una iattura, un atteggiamento
antisociale, un’egoista ricerca di privilegio, una cosa da estrema destra
reazionaria.
Così
però non si va molto lontano.
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