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venerdì 13 gennaio 2023

SCUOLA. QUALE MERITO?

Il dibattito suscitato dal “merito” dopo che la parola è stata aggiunta a “ministero dell’Istruzione”, sembra aver diviso elitisti e progressisti. -

- di Tiziana Pedrizzi

- Il dibattito suscitato dall’aggiunta della parola “merito” alla denominazione del ministero dell’Istruzione ha suscitato un vespaio tutto in chiave nazionale, come se il problema fosse che la destra è elitista, il che significa reazionaria e la sinistra è egualitarista cioè inclusiva, politically correct insomma.

Ma la famosa gita a Chiasso di arbasiniana memoria – forse irrimediabilmente datata – ci permetterebbe di capire che il problema è meno scontato, anche rimanendo nel solo ambito scolastico.

Partiamo dai primi Pisa. Nelle prime edizioni (2000-2003-2006) il primato dei paesi nordici – Finlandia, ma non solo, anche Norvegia e Svezia se la cavavano bene – era abbastanza chiaro.

La chiave di lettura del successo in tema di istruzione dei diversi Paesi, nel pensiero Ocse è sempre stata molto orizzontale, sincronica insomma, con un ruolo di primo piano attribuito al funzionamento del sistema educativo. Le variabili storico-antropologiche sono sempre state molto trascurate, anche comprensibilmente, perché ovviamente poco passibili di interventi di policy. Perciò gli analisti attribuivano un merito rilevante, se non principale, al fatto che in quei Paesi il percorso scolastico comune a tutti era molto lungo, fino a ricomprendere quello che noi chiamiamo biennio (15-16 anni). Questo spiega, negli stessi anni, la battaglia nel nostro Paese sul biennio unico o unitario, della quale si sentono ancora gli echi in qualche intervento di esperti più o meno edotti sull’evoluzione dei fatti. L’analisi postulava che una canalizzazione precoce aveva l’effetto di tagliare fuori da una scolarizzazione di base del livello necessario per le nostre società una parte rilevante di popolazione scolastica, con il risultato di abbassare il livello complessivo.

Alla fine del secondo decennio di Pisa la situazione è cambiata. In cima alle graduatorie ci sono le tigri asiatiche: Singapore, Corea del Sud, i pezzi di Cina che partecipano ed anche Giappone. Le strutture scolastiche di questi Paesi sono molto diversificate, ma le accumuna un forte investimento in istruzione, il che non significa – come si pensa qui da noi – investimenti economici spropositati, ma forte concentrazione sull’impegno scolastico. Tanto da arrivare anche a situazioni parossistiche che in Italia vengono additate con grande disdoro: le madri tigre, le scuole mattutine e pomeridiane della Corea del Sud, gli stressanti esami cinesi di mandariniana memoria, per non parlare dei poveri studenti giapponesi sempre, secondo gli opinion maker italiani della scuola, sull’orlo del suicidio. Una notazione a margine in proposito: viene sempre più in evidenza nelle ricerche il forte ruolo che ha avuto in questi paesi la scolarizzazione femminile di massa, che avrebbe dato una spinta decisiva in questo campo. Una situazione agli antipodi di quella dei Paesi islamici che infatti pagano le loro scelte in termini di sottosviluppo.

Da qui l’attenzione crescente che, anche nei questionari di accompagnamento Pisa, viene data al clima disciplinare, per come è vissuto dagli allievi. È inutile dire che esiste un chiaro rapporto fra quanto sopra velocemente tratteggiato e lo sviluppo di quei Paesi, che non è certo solo caratterizzato – come qui da qualche parte presuntuosamente ancora ci si illude – da produzioni di massa di bassa qualità ed a basso costo.

Cosa c’entra tutto ciò con il merito? I risultati scolastici positivi vengono da due componenti: la predisposizione e l’impegno. Quanto, in percentuale, il successo formativo dipenda rispettivamente dai due fattori è discussione lunga e dolorosa e non risulta sia stata ancora risolta. Il contesto scolastico comunque ha il compito di individuare la prima e di incentivare il secondo.

Da questo punto di vista come sta il ricco Occidente? Due osservazioni molto parziali. Fino alla metà del secolo scorso vi vigeva uno stile disciplinare piuttosto rigido, che aveva il merito di garantire una standardizzazione utile alla riproduzione dei ruoli sociali, tenendo conto che chi vi aveva accesso tendeva a stare alle regole perché ne avrebbe ricavato il vantaggio dell’ottenimento o del mantenimento di una posizione sociale superiore a quella di chi non voleva o non poteva farlo. Lo sviluppo della scolarizzazione di massa – assolutamente necessario per il tipo di società che si andava delineando – ha diminuito i privilegi di chi studia e perciò allentato l’adesione volontaria ai vincoli. Donde i problemi di disciplina, di impegno, eccetera eccetera.

Inoltre, lo sviluppo delle tecnologie che oggi tanto caratterizzano le nostre società a livello di massa in senso positivo è narrato come fosse avvenuto non in modo abbastanza sistematico ed organico come nel caso dell’Ottocento, ma anche, se non soprattutto, per iniziative di personalità considerate geniali, maturate fuori, se non contro, il contesto normativo per tutti. In un certo senso questo è sempre avvenuto nella storia umana, ma l’impressione é che gli Steve Jobs, gli Elon Musk ed i Jeff Bezos abbiano avuto ed abbiano un peso più forte nella creazione dell’immaginario collettivo degli Edison e degli Einstein. Ecco, dunque, la parola d’ordine per tutti: individualismo e creatività.

Così le teorie pedagogiche di carattere attivistico nate all’inizio del Novecento da un’élite intellettuale europea ed attecchite negli Usa con la finalità del nation building sono uscite dalla minorità. Ma non sono entrate nella scuola di tutti in modo sistematico e serio come meritavano, piuttosto sembrano aleggiare come uno Zeitgeist generale lassista, in piena convivenza con metodologie o, meglio, mere pratiche tradizionali che non riescono però naturalmente a mantenere la tradizionale efficacia.

C’è poi un’altra più banale ragione, molto chiara nel nostro Paese. Tutte le società umane, quando raggiungono un certo livello di agio, tendono a rilassarsi. Con risultati che la storia ci ha insegnato e che ancora ci sta insegnando, come dimostra per converso ciò che sta avvenendo in Estremo Oriente. Stiamo consumando il grasso accumulato nei secoli precedenti?

Lavorare con impegno, anche con sacrifici e duramente ha rischiato in certe letture che si sono viste sul tema del merito di apparire una iattura, un atteggiamento antisociale, un’egoista ricerca di privilegio, una cosa da estrema destra reazionaria.

Così però non si va molto lontano.

 Il Sussidiario

 

 

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