La domanda sembrerebbe retorica. Tant’è vero che molti genitori delegano completamente alla scuola il ruolo educativo, ritenendosene esentati.
Ma non è così.
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di Giuliano
Romoli
Un
episodio inerente alla nascita della scuola che ho diretto per molti anni
appare particolarmente significativo. Accoglievamo bambini residenti in tutta
la provincia di Reggio Emilia, in un convitto con pernottamento. Si trattava di
bambini provenienti da situazioni familiari di forte disagio. Frequentavano la
scuola statale del vicino capoluogo di Comune. Venimmo chiamati a rispondere
del fatto che i nostri ragazzi erano piuttosto turbolenti in classe.
Rispondemmo che sarebbe stato possibile capirne la causa aprendo una relazione
con loro, interessandosi alla loro storia, facendosi prossimi al loro disagio,
camminando insieme a loro in un percorso di crescita e di riabilitazione. Un
insegnante parlò a nome di tutti dicendo espressamente “Noi abbiamo studiato
chi lettere, chi matematica, chi inglese e ci limitiamo ad insegnare le nostre
materie. Se volete fare i missionari, aprite voi una scuola”.
Questo
episodio è emblematico non solo perché nel settembre successivo aprimmo
effettivamente la nostra scuola, ma soprattutto perché mise in evidenza la
frattura che esiste nel nostro sistema scolastico tra istruzione ed educazione.
Significativa, tra l’altro, l’identificazione colta dell’insegnante citato tra
“educazione” e “missione”.
Quali
sono le condizioni che fanno di una scuola un ambiente educativo? Credo sia
fondamentale la disposizione del cuore degli insegnanti, nella consapevolezza
che sono chiamati non a un mestiere, ma a una missione. Il cuore deve essere
aperto alla relazione con i propri alunni.
Si
è parlato molto di relazione in tempi di Covid. Lo si è fatto superficialmente,
come se la “relazione” fosse un’esperienza scontata. Una relazione implica
azioni, imprevisti, contraddizioni, riprese, fedeltà nel rapporto. La relazione
è faticosa e richiede spirito di sacrificio. È una missione. Cosa pienamente
avvertita dall’insegnante citato, benché respinta.
Ma
l’educazione non è un fatto personale: “per educare un bambino serve un intero
villaggio” dice giustamente papa Francesco, citando un proverbio africano.
Anche nell’educazione familiare non è sufficiente che sia un solo genitore ad
educare, occorre il contributo di entrambe, perché l’educazione è un fatto di
comunità. L’assenza di uno dei due genitori determina una crescita malferma,
insicura del bambino. Nella scuola succede la stessa cosa. Un solo insegnante
disposto ed educare all’interno di un consiglio di classe è un valoroso
cavaliere che si batte contro i mulini a vento. Deve essere l’intero consiglio
di classe nella sua dimensione comunitaria ad educare. Ancor più: dovrebbe
essere la scuola intera ad educare. Ma educare rimane un termine generico e
infruttuoso se non si precisa l’obiettivo dell’educazione. Che senso ha
educare? A cosa vogliamo educare?
Ma
così rimane fuori l’uomo. Paradossalmente, mentre si concepisce l’educazione
come strumento finalizzato all’acquisizione delle competenze che esalterebbero
la realizzazione dell’uomo, non ci si occupa della natura dell’io, la si dà per
scontata. Ma è questo il punto cruciale da cui partire nel percorso educativo.
E-ducere,
cioè trarre fuori, implica la consapevolezza che c’è in ciascuno qualcosa di
grande e bello che deve manifestarsi, e che l’educazione ha il compito di
spalancare. Per don Giussani l’uomo è destinato, per un compimento di sé,
all’orizzonte totale. “Perciò, potenzialmente almeno, l’educazione deve mirare
a introdurre l’uomo nella realtà totale. Ma questa realtà totale, o questa
realtà con cui il soggetto si impatta, con che occhi, vale a dire con che
criteri, vale a dire con che “ipotesi di significato” sarà affrontata? Non ci
fosse un’ipotesi di significato, non ci fosse un precedente punto di vista,
quanto minor valore avrebbe tutto ciò!”. Don Giussani allarga l’orizzonte
educativo richiamando un’ipotesi che precede il processo educativo e che gli
conferisce significato: la tradizione. “Tradizione dato originario, con tutta
la struttura di valori e di significati in cui il ragazzo è nato”. Tradizione:
“motore di crescita”, come qualcuno ha felicemente chiosato.
Il
bambino è una persona; una persona non è una scatola vuota da riempire. Un
bambino nasce con un patrimonio di affetti, di valori, di vissuto dalle
generazioni che l’hanno preceduto. È come il blocco di partenza da cui scattare
per spalancarsi alla vita. Se viene persa o trascurata questa dote, di cui fa
parte essenziale la religiosità, il bambino cade preda della mentalità
corrente, che può sì sviluppare le competenze chiave, ma come dato esterno,
rendendo la persona mutevole, manipolabile, sostanzialmente preda del potere di
turno.
La
ricchezza della tradizione non è imposta: viene trasmessa consapevolmente
dall’educatore, ma non limita la libertà dell’educando. L’impatto con la realtà
lo costringerà a una verifica. Accettare o respingere quanto ricevuto sarà
appannaggio della sua libertà. Ecco un altro elemento fondamentale dell’azione
educativa: la libertà. Non si educa se non rispettando la libertà della persona
sia dell’educando che dell’educatore. Ed è la tradizione che la attiva.
L’imposizione acritica di contenuti e di atteggiamenti (politicamente
corretti), al contrario, la deprime.
Ultimo
ma non trascurabile elemento del processo educativo è la continuità educativa
tra scuola e famiglia. Se l’ipotesi di significato proposta dalla scuola
(ammesso che ci sia) non è conforme o addirittura contrasta con quello della
famiglia, come poter educare? Ipotesi di significato, disposizione del cuore,
relazione, fatto di comunità, consapevolezza e rispetto della persona, libertà,
continuità con la famiglia: queste le caratteristiche, appena abbozzate,
dell’azione educativa nella scuola.
Ritorniamo
ora alla domanda iniziale: è in grado il nostro sistema scolastico di educare,
cioè di costituire in ogni scuola comunità educanti coese, capaci di spalancare
gli alunni alla realtà, proponendo per essa un’ipotesi di significato?
Favorisce il nostro sistema scolastico il costituirsi di comunità di pratica
nelle quali i docenti hanno quella disponibilità di cuore capace di
intercettare il vissuto dei loro alunni e di interagire tra loro per favorirne
la crescita umana e culturale? La famiglia ha la possibilità di scegliere, tra
una varietà di orizzonti educativi, quello più conforme al proprio?
“Difficilmente
la scuola potrà essere un ambiente formativo e una comunità di apprendimento
fino a quando non saranno molto ampliati per docenti, genitori e studenti gli
spazi reali di esercizio della libertà e della responsabilità, così che essi
aumentino in proporzione poi geometrica non solo nella scuola ma anche in
famiglia e nella società… Docenti e dirigenti, per esempio, sono assegnati alle
scuole. E una volta assegnati alle scuole hanno ulteriormente assegnati compiti
predeterminati, dall’orario settimanale al fatto di dover insegnare soltanto in
una sezione di un certo ordine e grado di scuola, e sulla base di contenuti da
svolgere in tempi predeterminati. La loro azione dominante non può che essere
dunque che quella dell’adattamento. Il miglior docente è chi meglio si adatta
ai vincoli dati. Non potranno, a questo punto, che ‘insegnare’, se imitati, a
loro volta adattamento” (Giuseppe Bertagna, Educare istruendo: ambiente formativo
e comunità di apprendimento, Disal 2007). Il nostro sistema scolastico,
centralistico e piramidale, massificato, fatto di adempimenti burocratici, di
prescrizioni, di imposizioni, non può generare ambienti effettivamente
educativi. Non per niente assistiamo a una diffusione imponente dell’istruzione
parentale.
Eppure,
esistono esperienze che si distinguono per un progetto educativo rispondente
alle caratteristiche affermate. Si tratta di realtà di dimensioni circoscritte,
numericamente contenute, capaci di esprimere un’identità propria, pur
mantenendosi all’interno del sistema nazionale di istruzione. Mi riferisco in
particolare alla scuola paritaria, per sua natura di iniziativa sociale,
espressione, per la maggior parte, di un particolare afflato educativo, ma
anche a realtà di gestione pubblica legate al territorio.
Perché
il nostro sistema scolastico nella sua interezza possa assumere una dimensione
educativa dovrebbe rinunciare a concentrazioni massificanti di alunni e di
insegnanti, all’imposizione centralistica e paternalistica di procedure e
metodologie, dovrebbe conferire alle scuole piena autonomia gestionale e
didattica, attuare una vera parità anche in termini economici, valorizzare e
promuovere le esperienze capaci di esprimere identità culturale, vitalità
propositiva, creatività didattica, affabilità relazionale.
Ma
dubito che il Leviatano scolastico nazionale possa fare passi in questa
direzione, a meno di una rivoluzione culturale che ne scuota le fondamenta.
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