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domenica 2 ottobre 2022

CITTA' DEL FUTURO. UTOPIA O PERSONA?


Nella ricerca della «città ideale» 

prevarrà l'utopia o la persona?

 

- di Leonardo Servadio

 

L’idea di un abitato che ruota attorno alla 'macchina' ha lasciato il campo a visioni ispirate al Rinascimento con l’aggiunta del 'giardino' ottocentesco. Quanto pesa la tensione all’equità

    La tensione tra equilibrio e sostenibilità nei nuovi grandi progetti urbanistici È un po’ come un ibrido tra la Grande muraglia cinese e il monolito di 2001 Odissea nello Spazio. Un artefatto lineare lungo 170 chilometri con le pareti esterne a specchio che riflettono la sabbia del deserto: è The Line, il progetto per una “città ideale” elaborato per l’Arabia Saudita dallo studio di architettura Morphosis. Sarebbe alta 500 metri: tra i maggiori grattacieli al mondo, ma questa dimensione scomparirebbe rispetto alla straordinaria lunghezza, e sarebbe larga 200 metri e ospiterebbe ben nove milioni di persone. Le pareti esterne a specchio isolerebbero la lunghissima città-monolito dai raggi solari dardeggianti tra le dune e da lontano farebbero apparire la sua presenza come quella di un miraggio. Sarebbe composta da due edifici paralleli tra i quali, ombreggiato dalle alte pareti laterali, correrebbe un giardino rutilante di vegetazione. Grazie a velocissimi treni capaci di percorrere tutta la lunghezza in venti minuti per l’assenza di curve, che sarebbe possibile vivere a un’estremità – poniamo quella che s’inoltra sul mare – e lavorare all’alta estremità.

Si è parlato molto di questo progetto quando è stato rivelato nel gennaio 2021 e ancora di più quando i suoi disegni di massima hanno cominciato a circolare quest’estate. Il lungo profilo argenteo che si posa sul deserto appare come qualcosa di assurdo, pretenzioso, astratto. Ma l’idea di città lineare non è nuova, è anzi conseguente all’inizio della civiltà dei trasporti motorizzati: Arturo Soria la propose per la Madrid della fine dell’800. Convinto che il modello tradizionale urbano fondato su espansioni concentriche rendesse difficili i trasporti, pensò che uno stradone assiale carrabile dotato anche di ferrovia avrebbe facilitato i trasferimenti e propose di disporre abitazioni e luoghi di lavoro ai lati di quello. Cominciò anche a costruirla, ma lo sviluppo della Ciudad Line al si arrestò per problemi amministrativi e economici, così che questa oggi resta come uno dei quartieri periferici della capitale spagnola, inglobato nell’espansione concentrica del tessuto urbano. Anche Le Corbusier formulò una proposta di città lineare per Algeri, ma non poté realizzarla. Oggi il progetto saudita si presenta come la punta estrema della visione della città intesa come gigantesca macchina, in cui i due termini – gigantismo e macchinosità tecnologica – divengono inscindibili espressioni della ricchezza e del potere sulla natura e su chi resta emarginato dai luoghi del privilegio.

Già Antonio Sant’Elia, in perfetto stile futurista, aveva elaborato il concetto di città-macchina nel suo manifesto del 1914. Quanto l’età delle macchine abbia sconvolto il modo di avvicinarsi all’urbanistica è dimostrato in modo evidente da Brasilia, che dal 1960 ha sostituito Rio de Janeiro quale capitale dello stato latinoamericano: malgrado l’eleganza delle architetture firmate da Oscar Niemeyer e la grandiosità del disegno urbano elaborato da Lucio Costa – come una vasta ansa che segue l’andamento del lago Paranoá – si sviluppa su un’ossatura di autostrade a più corsie che fanno dell’automobile l’elemento privilegiato, in spazi nei quali il pedone si sente emarginato e schiacciato: del resto è stata concepita in quegli anni Cinquanta in cui Detroit era la Mecca dell’industria e l’automobile era il fattore principe dell’economia.

Questo tipo di visione urbana si contrappone alle città ideali di epoca rinascimentale, tutte a “misura d’uomo” quali Palmanova, col suo disegno di perfetta geometria incentrato sull’esagonale Piazza Grande dalla quale per gemmazione origina tutto il tessuto urbano; o Terra del Sole raccolta attorno alla Piazza d’Armi nella quale si confrontano il palazzo del Pretorio, sede del potere civile, e la chiesa di Santa Reparata, espressione del potere religioso; o Sabbioneta, disposta con geometrica regolarità entro l’abbraccio della muraglia. In tante città italiane sviluppatesi in quel periodo si riconosce il tentativo di trovare una forma geometrica che privilegi il centro quale nucleo originario, sede dell’autorità che regge l’abitato e spazio in cui la cittadinanza si poteva riunire tutta assieme: attorno a questo l’abitato si estendeva come se fosse un organismo vivente.

Oggi si nota che, per quanto persistano qua e là visioni da città-macchina, non sono necessariamente queste che informeranno gli abitati del futuro. Si trovano anzi visioni più vicine a quelle rinascimentali, con la novità dell’ansia del ritorno alla natura pur nel tempo della tecnologia. Di qui che tanti progetti di nuovi nuclei si focalizzino sul desiderio di inglobare alberi e prati tra gli edifici e sopra di essi, sulle orme dell’idea ottocentesca di città-giardino. Tra i tanti progetti di nuove città, ecco Amaravati, elaborata da Foster + Partners, che sarà la nuova capitale dello stato indiano di Andhra Pradesh, sul fiume Krishna: 13 piazze, rappresentanti i 13 distretti dello stato, si allineeranno una di seguito all’altra, accompagnate da sinuosi canali e percorsi ciclopedonali alberati, per culminare nella piazza centrale dominata da un’alta antenna che segnerà la sede del governo statale.

E in Canada lo studio Partisans progetta di trasformare il villaggio agricolo di Innisfil, non lontano da Toronto, in una città modello di impianto radiocentrico chiamata The Orbit, in cui coltivazioni e abitazioni convivano nei medesimi spazi. In Messico, Stefano Boeri è stato incaricato di sviluppare vicino a Cancun una Smart Forest City dotata di 7,5 milioni di piante, specchi d’acqua e boschi. Presso Chengdu in Cina lo studio Oma ha disegnato un insediamento di 4,6 chilometri quadrati suddiviso in sei quartieri intesi a essere totalmente liberi da automobili. E per le Maldive, in zone che si ritiene possano finire sommerse dalle acque tra qualche decennio, lo studio Waterpractice ha ideato la prima “cittàisola galleggiante”, articolata in 5.000 abitazioni flottanti tra loro raccordate. G li organismi delle città ideali rinascimentali erano murati, fortilizi atti a difendersi da pericoli esterni; le città ideali novecentesche erano innervate di motori e esse stesse intese come grandi macchine.

Tra i progetti attuali solo The Line si distingue per l’eccezionale artificiosità, tale per cui molti dubitano che mai potrà essere veramente realizzata sebbene il suo committente, il principe Mohammed bin Salman, non manchi del potere economico necessario e sebbene sulle coste del Golfo Arabico siano già sorte tante città lussuose irte di grattacieli. Gli altri progetti urbanistici attuali hanno tutti un’impostazione nettamente favorevole alla ricerca di un nuovo equilibrio tra costruito e natura, e qua e là si ravvisa anche il desiderio di ottenere edifici accoglienti non solo per le classi agiate. Lo studio danese di Bjarke Ingels (Big) ha ben tre nuovi insediamenti urbani in progetto e tra loro si segnala Telosa, intesa per sorgere in una zona desertica presso la costa occidentale degli Usa: sarà incentrata su un’alta torre chiamata Equitism. Il fondatore, il miliardario Marc Lore, intende acquistare un terreno di 60mila ettari e farne dono alla città in cui si aspetta che possano vivere circa 5 milioni di persone. La sua idea è che la comunità potrà ricavare utili a sufficienza per sostenere la qualità della vita anche delle fasce più deboli della popolazione: di qui il nome della torre inteso come un manifesto di equità.

C’è in questo qualcosa che riecheggia i temi cari all’utopismo ottocentesco di un Owen o di un Fourier. Una reazione alle città ipercapitalistiche dei grattacieli sempre più alti e costosi: l’auspicio è che oggi tali tematiche siano contemperate da equilibrio, oltre che dalla ricerca di equità, quale quello espresso dalla dottrina sociale della Chiesa, che a inizio Ottocento ancora non era stata esplicitata in un corpus sistematico, com’è avvenuto dalla Rerum novarum in poi. Perché i progetti urbani sono sempre anche progetti sociali ed economici, e non solo disegni più o meno originali di carattere architettonico.

 

www.avvenire.it

 

 

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