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di Giuseppe Savagnone*
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Il grande vincitore: il popolo ucraino
Dopo quasi un mese dall’inizio dell’invasione russa, è possibile fare un
primo bilancio – anche se inevitabilmente provvisorio – dei comportamenti
dei soggetti coinvolti in essa. Perché è chiaro che alcuni di essi si
stanno profilando come vincitori, altri appaiono invece perdenti. Anche se
è difficile separare nettamente il capitolo dei successi da quello delle
perdite e talora si deve perciò parlare di vincitori che al tempo stesso
stanno pagando un prezzo altissimo.
È il caso del primo, vero, grande protagonista di questa guerra, che è
stato ed è indubbiamente il popolo ucraino. Un popolo di cui, fino a poche
settimane fa, al di fuori dei suoi confini, si sapeva ben poco, e della
cui storia anche i manuali scolastici fanno appena qualche cenno di
passaggio. Tanto da far pensare a molti che avesse ragione Putin quando
parlava di russi e ucraini come di un popolo solo e giustificava la sua
«operazione speciale» cercando di farla passare non come una guerra, ma
come una specie di azione di polizia interna alla stessa Russia.
E invece non è così. Lo si è visto chiaramente nella risposta che il
popolo ucraino ha dato sul campo, con i fatti. Uomini, donne, perfino
ragazzini, si sono mobilitati per difendere la loro patria minacciata da
un nemico percepito come un aggressore esterno. Si sono arruolati
nell’esercito, si sono messi a fabbricare bombe molotov, a presidiare
posti di blocco. Intervistati, hanno espresso la loro ferma decisione di
difendere ogni strada, ogni casa, anche a costo della vita.
Non solo: migliaia di ucraini, di tutte le età, che vivevano all’estero –
persone impegnate nelle più diverse professioni e del tutto estranee alla
logica militare – , invece di restarsene al sicuro là dove si trovavano a
vivere, sono rientrati per dare una mano come potevano, pronti a imparare
come si usa un fucile o un Kalashnikov.
Una storia dolorosa
Questo è un popolo. E’ stato il suo comportamento che ha smentito Putin
e che ci ha costretti a cercare negli scarni riferimenti dei nostri libri
o su Wikipedia le tracce della sua identità e della sua storia
travagliata. Abbiamo scoperto così che, a partire da un ceppo comune di
origine nordica, i Vareghi provenienti dalla Svezia, nel corso dei secoli
il popolo ucraino si è progressivamente differenziato da quello russo,
parlando una sua propria lingua ed elaborando una propria cultura.
Anche se l’Ucraina per secoli è sempre rimasta una entità territoriale
e culturale priva di una propria espressione politica, perché sottomessa
ad altri Stati – prima la Lituania, poi la Polonia, infine la stessa
Russia. Da qui una storia di sottomissione mal sopportata, con aspirazioni
autonomistiche sistematicamente soffocate dal dominatore di turno, in
ultimo proprio dagli zar, che hanno anche fatto una politica di “russificazione”
forzata, vietando l’uso della lingua ucraina a livello pubblico.
Per arrivare infine agli anni successivi alla Rivoluzione d’Ottobre,
quando finalmente Lenin, nel 1922, ha riconosciuto agli ucraini il diritto
di avere una propria identità anche a livello politico, la Repubblica
socialista sovietica ucraina, sia pure inserita nella grande federazione
dell’Urss. Ma poi è venuto Stalin, che ha tremendamente penalizzato gli
ucraini con una politica particolarmente spietata di collettivizzazione
della terra che è costata circa tre milioni e mezzo di esseri umani e che
è rimasta nella memoria di questa povera
gente con il nome di Holodomor, combinazione delle due
parole ucraine holod (fame, carestia) e moryty, (uccidere
affamare). Da qui la coraggiosa, disperata resistenza che il popolo
ucraino sta opponendo al tentativo di Putin di annullare, in tutto o in
parte, l’indipendenza finalmente conquistata nel 1991, con la dissoluzione
dell’Urss.
Il prezzo pagato
Per quanto paradossale, tutto questo è venuto alla luce, uscendo dall’oblìo
della nostra scarsa conoscenza della storia, grazie all’invasione russa. Ma a
quale prezzo! Dicevo prima che vittoria e perdita spesso sono indissociabili.
La catastrofe umanitaria che ha determinato l’esodo dal proprio Paese di quasi
tre milioni di ucraini – per la maggior parte donne e bambini, perché gli
uomini sono rimasti per combattere – è probabilmente destinata a rimanere come
una delle più grandi tragedie della storia di questo nuovo millennio.
Queste persone hanno perso le loro case, i loro terreni, le loro cose.
Hanno visto distruggere le loro città. Hanno perduto il loro lavoro. Che cosa
ne sarà di loro? Riuscirà la grande accoglienza che stanno avendo in tutti i
Paesi vicini a integrarli, restituendo loro una condizione di vita dignitosa?
Oppure si creeranno – come è più auspicabile – le condizioni per un loro
ritorno in patria? Sono domande a cui per ora non è possibile rispondere.
Zelens’kyi
Insieme al popolo ucraino, il grande vincitore di questa guerra –
comunque essa vada a finire militarmente – è il suo leader, il primo
ministro Volodymyr Zelens’kyi. Figlio di genitori ebrei (alcuni suoi
parenti sono stati vittime della Shoah), ha fatto l’attore comico e il
produttore (da qui probabilmente il suo notevolissimo patrimonio) e ha una
bella famiglia, con moglie e due figli.
Ha costruito la sua fulminea carriera politica sul successo di una
serie televisiva di grande successo, che gli ha fatto da trampolino
quando, nel 1919, si è candidato alle elezioni presidenziali in
contrapposizione al presidente in carica, Poroshenko, battendolo con il
73,22% dei voti contro il 25%. Un trionfo.
Ma il vero trionfo di Zelens’kyi è quello che egli ha ottenuto proprio
dopo l’invasione. Invece di fuggire, mettendo al sicuro se stesso e la
sua famiglia, come la propaganda russa voleva far credere, il premier
ucraino ha scelto di restare a guidare la resistenza all’offensiva russa,
diventandone il simbolo, e ha sfruttato la sua comunicativa e la sua
intelligenza di attore per perorare la causa della sua nazione presso
l’opinione pubblica e gli ambienti politici di mezzo mondo.
Collegato in videoconferenza, ha parlato alla Camera dei Comuni
inglese, al Congresso americano, al Bundestag tedesco, incassando
in ciascuna di queste sedi prestigiose una standing ovation. Parlerà
a Montecitorio. Senza contare le innumerevoli interviste che lo hanno
portato a diretto contatto col grosso pubblico televisivo. Questa
efficacissima campagna mediatica ha fatto passare in seconda linea gli
aspetti più problematici della sua posizione politica.
Perché è vero che, se Zelens’ky è sempre stato un sostenitore della
piena adesione dell’Ucraina all’Occidente – chiedendo l’adesione alla Nato
e l’ingresso nella UE – , è anche vero che egli non ha sufficientemente
combattuto le insorgenze estremiste di destra, fino al neo nazismo, che in
Ucraina sono molto forti e si concretizzano non tanto a livello elettorale
(appena il due e mezzo per cento di voti, anche perché si tratta di frange
deliberatamente extra-parlamentari, che non vogliono partecipare alle
elezioni), quanto nella presenza di gruppi armati – come il tristemente
famoso battaglione Azov – , di cui si registra una preoccupante infiltrazione
anche nei ranghi dell’esercito.
Non è il solo punto problematico della politica del premier ucraino.
Apprendo da Wikipedia, dove si fa preciso riferimento a un suo discorso,
che Zelens’ky sostiene la distribuzione gratuita di cannabis medica,
l’aborto gratuito e la legalizzazione della prostituzione e del gioco
d’azzardo. Aspetti che per ora sono del tutto in seconda linea, ma che non
possono essere taciuti in un quadro complessivo.
I perdenti
Questi i vincitori. E i perdenti? Il popolo russo, innanzi tutto,
ricacciato da questa vicenda assurda in un isolamento che lo ha
improvvisamente privato di tutti i contatti con il mondo occidentale, a
cominciare dai McDonald’s (850 punti di vendita chiusi!), da Ikea, da
Instagram, etc., in gran parte per il ritiro dei soggetti in questione, in
minor misura per i divieti imposti dal governo.
Dove il grande pericolo non è costituito solo dalla perdita di qualità
della vita della gente, ma da un isolamento che rischia di dare luogo a un
drammatico processo di rottura della Russia col mondo occidentale, proprio
quando sembrava che la logica dei due blocchi della vecchia “guerra
fredda” fosse definitivamente superata.
Forse bisognerebbe chiedersi se sia stato saggio, da parte
dell’Occidente, determinare – sia pure per giustificate motivazioni – una
pioggia di sanzioni così drastica, bruciando tutti i ponti. Per colpire
Putin, si sta rischiando di respingere un immenso Paese fuori della nostra
civiltà. Verso la Cina? Non è possibile per ora dare risposte sicure. Ma
se così dovesse essere, quella degli Stati Uniti e della Nato si
rivelerebbe una vittoria di Pirro, che condurrebbe al formarsi di un nuovo
blocco ostile, sotto l’influenza decisiva del loro più pericoloso rivale,
che non è la Russia, ma la Cina.
E infine c’è il grande sconfitto di questa guerra, Vladimir Putin, che è
proprio colui che l’ha progettata e scatenata. Checché egli ne dica, con
la sua poco convincente propaganda (quale differenza con Zelens’kyi!), è
evidente che l’invasione non si è svolta secondo i piani stabiliti,
impantanandosi in una situazione di stallo che sembra logorare gli
aggressori più degli aggrediti. Probabilmente le fonti di informazione del
premier russo lo hanno involontariamente ingannato sulla reale
consistenza, psicologica e militare, della nazione ucraina.
Così come erano fallaci i suoi dati sulla efficienza del suo esercito,
rivelatosi del tutto inadeguato a una guerra-lampo. Così, l’immagine dello
“zar” che questo conflitto ci trasmette è quella di un uomo
tragicamente isolato dalla realtà e incapace di comunicare con il mondo
che lo circonda. Ancora una volta è il caso chiedersi se sia saggio
spingere fino all’estremo questa situazione. Un animale ferito,
spinto alla disperazione, può diventare molto pericoloso.
Per un uomo è la stessa cosa. Speriamo che i vincitori di
questa guerra, primo fra tutti lo steso Zelens’kyi, se ne rendano conto e
smettano di chiedere all’Occidente misure economiche e soprattutto
militari sempre più estreme, come la no-fly zone. E si rendano conto che, se
si perde il senso della misura, anche una vittoria si può trasformare in
una catastrofe.
*Pastorale
Cultura Diocesi Palermo
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