Parla il filosofo
franco-argentino Miguel Benasayag. Nel suo ultimo libro ha messo al centro
l’esigenza di un ritorno dell’uomo dall’esilio dalla natura prodotto dalla
ratio cartesiana. «Va attivata un’estetica dei cicli della vita, i quali
custodiscono fragilità e il negativo, attraverso esperienze concrete»
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di SIMONE PALIAGA
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«Assumere la nostra
appartenenza al vivente e al campo biologico implica il fatto di riconoscere
che ciascuno dei nostri atti si inscrive in una complessità che non possiamo
dominare né orientare a nostro piacimento», ammonisce il filosofo e
psicoanalista, oggi parigino ma originario dell’Argentina, Miguel Benasayag nel
libro, scritto a quattro mani con il giornalista e storico Bastien Cany, Il ritorno
dall’esilio. Ripensare il senso comune, appena pubblicato da Vita e
Pensiero (pagine 136, euro 16,00).
A quale esilio allude
il titolo del suo libro, professore?
Si tratta naturalmente
di un esilio immaginario, con conseguenze reali però. Quando parlo di esilio
intendo l’esilio promosso da Cartesio, vale a dire l’esilio dell’uomo dalla
natura di cui, peraltro, si considera padrone e possessore. Occorre precisare
però, a differenza di quanto auspicato dal progetto moderno, che l’uomo in
realtà non si è mai separato da essa, ma il suo esilio immaginario ha avuto
conseguenze su di lui. Questo modo cartesiano di abitare il mondo ha trovato al
giorno d’oggi la sua acme. Mai come ora il massimo di produzione genera il
massimo di distruzione. Si tratta di una situazione non più sostenibile. Per
questo quasi tutti oramai sostengono che l’uomo appartiene alla natura. Il sentirsi
parte di essa è una sfida che non deve ridursi al solo rispetto ma bisogna
imparare a coabitarla. Non è un caso che i giuristi oggigiorno riconoscano gli
animali, i fiumi, le foreste come soggetti di diritto. Accade perché l’uomo non
può più pensarsi da solo e isolato.
Accanto però
all’esilio di cui parla oggi emerge quello che nasce dall’uso eccessivo di
piattaforme e social network...
In effetti l’esilio è
la rottura del legame, che è ciò che ci costituisce. L’essere umano.
separandosi dalla natura e dagli altri per l’uso di app, smartphone, social
network, ha perduto anche se stesso. Non sono tecnofobo e penso che la rete sia
comoda ma la comodità, per il vivente, rischia di tradursi in una trappola. In
Africa, per allontanare le formiche dalle proprie abitazioni, si cospargono di
zucchero le vicinanze del formicaio. Le formiche però, dopo i primi momenti,
anziché rimanere dove c’è abbondanza di zucchero si avventurano più lontano per
cercarne altro. Non si accontentano dei comfort. Sanno che è pericoloso per il
vivente abbandonarsi alla comodità perché impedisce l’esplorazione del
possibile. E quello che avviene sul web, quando si naviga alla ricerca di
informazioni, non è esplorazione perché non c’è esperienza.
Perché oggi l’uomo
incontra così tanta difficoltà a pensare un futuro e dei possibili praticabili?
All’acronimo Tina, there
is not alternative, non dobbiamo rispondere proponendo un’alternativa
animata da un progetto politico come in passato è stato il comunismo.
Può spiegare questa
idea?
Dobbiamo riflettere
sul futuro che, in passato era considerato una promessa oggi invece è una
minaccia. È importante che il futuro si pensi come una possibilità del presente
e liberarlo dal giogo dell’istantaneità. Va pensato insieme al possibile e non
considerarlo solo come uno sviluppo lineare del presente. Solo così è possibile
riconoscere che la vita è la trascendenza dentro l’immanenza, o, per dirla
diversamente, vivere significa riconoscere l’irreversibile dentro l’effimero e
cercare qualcosa oltre l’effimero.
Sembra il sogno dei
transumanisti...
Tutt’altro. Occorre
rifiutare la trascendenza che la macchina ci offre e che i transumanisti
rilanciano agitando davanti gli occhi il miraggio dei cyborg. Dobbiamo
ritrovare la familiarità con il fragile e l’effimero e non espellere il
negativo dalla vita come la modernità ha tentato di fare. Occorre attivare
un’estetica per desiderare i cicli della vita, che custodiscono anche fragilità
e il negativo, attraverso esperienze concrete, locali e situate. Le semplici
esperienze morali non bastano.
E i riti di cui parla
aiutano in questo?
I riti corrispondono
ai ritmi del vivente e ai ritmi tellurici. La rapidità delle macchine ha
schiacciato il vivente intaccando i suoi ritmi. Ne siamo così condizionati al
punto che per noi è impossibile seguire la cerimonia del tè come avviene in
Giappone. Spendere due ore per bere l’infuso per gli occidentali è troppo. Come
la macchina abbia attaccato i ritmi del vivente lo si riscontra in ambito
psichiatrico, dove molti pazienti sono affetti da patologie dovute al fatto che
loro funzionano troppo bene ma a scapito dell’esistere.
Reputa che il senso
comune sia una via d’uscita da questa situazione?
Per senso comune
intendo tutti i saper fare che sono in sintonia con i ritmi del vivente. Sono i
saper fare che non possono essere sistematizzati e razionalizzati e nascono
dalle esperienze e non dagli esperimenti. Il problema è che l’Occidente ha
contrapposto, a differenza di altre civiltà, il senso comune alla razionalità.
E in Occidente, alla fine, questa ha soffocato l’esperienza staccandosi dalla
realtà. Non dico che si debba tornare al passato ma come Goethe, quando
parla del passaggio dall’alchimia alla chimica, credo che sia importante
accogliere i contributi della chimica senza però dimenticare gli apporti
dell’alchimia. Da qui il nostro compito di riattivare il senso comune come
esperienza.
Come farlo?
Intanto occorre
promuovere degli atelier sociali locali e situati che aiutino a
ricreare un rapporto di legame con la natura e con l’esperienza rompendo così
con l’esilio di cui si parlava all’inizio. Un ruolo importante poi lo può
giocare la scuola purché resista alla pedagogia delle competenze oggi tanto di
moda perché non sono altro che un sapere utile all’industria e al commercio.
E cosa deve fare?
La scuola deve
coltivare il tempo dell’inutile e il gusto dell’esplorazione. I bambini non
possono conoscere le piante esplorando il web, ma devono farne esperienza in
giardino. Per riattivare il senso comune la scuola deve resistere all’idea che
gli uomini siano sempre in difetto di qualcosa, sempre in una condizione di
mancanza. Non si tratta di modificare se stessi ma di insegnare ai bimbi a
esplorare il proprio possibile. A scuola occorre imparare a esistere e non a
funzionare, consapevoli che le competenze possono essere sviluppate solo se un
bambino è prima strutturato. L’educazione vale se è in grado di renderlo capace
di abitare la propria vita, convincendolo che non deve cercare di essere
qualcuno perché è già qualcuno.
io non so cosa si può consigliare in questo momento agli educatori e soprattutto ai ragazzi perchè i ragazzi e le ragazze registrano sempre brandelli della realtà che vivono e non si sa main anticipo qualr rivelazione è stata loro lasciata gli sprZZI DI LUCE DEL SOLE. sI PUò SOLTANTO STARE A LORO VICINI E COMUNICARE I NOSTRI SENTIMENTI SPERANDO CHE SI LASCINO CONTAGIARE DALLA FORZA DELLA NOSTRA VERITà. vI ASSICURO PERò CHE TALVOLTA AVVIENE(E TALVOLTA:no! oCCORRERà CERCARE ALRI LUOGHI, TEMPI E MODI,FORSE GIOCHI E CANZONI...MA A VOLTE LA RICERCA PAGA!
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