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sabato 29 maggio 2021

ANDATE E INSEGNATE

 


Vangelo: Mt 28,16-20

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.
Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

Commento di p. Paolo Curtaz

Il nostro Dio         

Chiedi pure in giro, informati, spargi la voce. Tutti hanno un’idea di Dio. per crederci, o per rifiutarlo. Alcuni fingono di non pensarci, altri lo accusano delle storture che viviamo continuamente. Altri lo pregano e lo invocano. Chiedi in giro, però. Mai si è sentito dire di un Dio che si è scelto un popolo, che lo ha stanato, salvato, seguito, che lo ha fatto uscire dalla schiavitù. Chiedi se sia mai successo che un Dio abbia indicato ad un popolo il segreto della felicità. Che gli abbia consegnato la mappa per cercarla. Chiedi pure. Così l’autore del Deuteronomio, stupito, ripensa all’esperienza di Israele, il popolo di nomadi che si è visto scegliere fra le nazioni per diventare sentinella, per raccontare ad ogni uomo chi è veramente Dio.

Non un Dio qualunque.

Non una delle proiezioni delle nostre paure, dei nostri bisogni inconsci, non il garante dell’ordine costituito. Un Dio che parla, che dice, che si racconta. Il nostro Dio. Il mio Dio. Il tuo, se vuoi.

Figli non schiavi

Un Dio, dice Paolo, che attraverso lo Spirito si rivela come un Padre e che ci permette di fare esperienza di lui, diventando suoi figli in Gesù. Una scoperta che non passa più solamente per la liberazione da tutte le schiavitù che portiamo nel cuore, ma dall’essere discepoli di Cristo che è morto per svelarci il vero volto di Dio. Una conoscenza sofferta, che richiede un percorso, un cambiamento, una crescita interiore. Dio si accoglie, non si conquista. Si scopre, stupiti, non si pretende. Si cerca, umilmente, non si imbraccia come un’arma. Si ama quando ci si scopre amati, bene amati. Ma questa conoscenza passa necessariamente attraverso la croce che non è, che non è mai stata!, esaltazione del dolore, anche quello santo e devoto, ma manifestazione della misura dell’amore con cui siamo amati. Ma non bastava.

 Andate

Gesù si avvicina ai suoi discepoli. Ha qualcosa di importante da dire, una missione da affidare. Si avvicina a loro anche se dubitano. Non vuole i migliori, non sa che farsene dei puri. Vuole figli, non giusti. E ai dubbiosi chiede di andare fra i popoli, non di chiudersi in un recinto sacro e rassicurante, autoreferenziale e stanziale. Di battezzare ogni uomo nel mistero della Trinità. Un Dio che, finalmente, manifesta la sua sorprendente natura. Un Dio che è comunione, relazione, comunicazione, dono di sé, danza, festa. Non un Dio solitario, sommo egoista bastante a se stesso, immobile nella sua perfezione, statico e distratto. Dio genera amore che dilaga, si diffonde, contagia.

Questo dobbiamo raccontare.

Che Dio non è un bastardo. Né un cinico. O un sadico. E quanto lo dobbiamo ripetere a noi stessi e agli altri in questi interminabili tempi di pandemia, di paura, di chiusura, di smarrimento. Quanto dobbiamo purificare la nostra immagine di Dio! E dobbiamo raccontare, a volte anche con le parole, che noi siamo fatti a sua immagine e somiglianza. Che in me c’è la Trinità. Siamo costruiti a sua immagine, Dio si è guardato allo specchio per crearci. Inutile negarci la relazione. Inutile fuggire la comunione. Assurdo negare l’amore. È faticoso e crocifiggente relazionarsi, certo. L’enfer c’est les autres, l’inferno sono gli altri diceva Sartre. Amatevi dell’amore con cui siete stati amati, chiede Gesù. Ma non si tratta di operare una scelta di vita, più o meno conveniente. Ma di assecondare ciò che siamo veramente, nel nostro profondo. Di fiorire. 

Insegnando ad osservare

Siamo chiamati ad insegnare. Cosa? Il comandamento dell’amore? No, siamo chiamati ad insegnare come osservare quel comandamento. Non siamo né siamo chiamati ad essere degli insopportabili e saccenti primi della classe che dall’altro calano le loro prospettive. O dei devoti giudicanti. Siamo chiamati noi per primi ad amarci dell’amore del Dio Trinità e a raccontare quanto ci sta cambiando la vita, anche nella fatica, nella contraddizione, al di là di ogni limite, di ogni peccato.

Non siamo soli in questo compito.

Ci è stato ripetuto in queste ultime domeniche, con insistenza. Lui è con noi, per sempre. Ci è accanto, conferma le nostre parole, se le viviamo. Ci usa come strumento.   Questo è il Dio in cui crediamo. Il Dio che ci ribalta.

Chiedete pure in giro se avete mai sentito niente del genere.

Paolo Curtaz

 

 

I DISPERSI DELLA DIDATTICA A DISTANZA ...


... GUARDANO AL PIANO ESTATE

 PRIMI BILANCI DI FINE ANNO SCOLASTICO


Si avvicina la chiusura di quest’anno scolastico caratterizzato dalla pandemia. «In questi mesi – ha dichiarato il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi – abbiamo utilizzato la Dad non in alternativa alla presenza ma in alternativa alla totale assenza, perché molti ragazzi non avrebbero avuto nessun collegamento con la scuola. Questo strumento è cambiato, si è evoluto. Abbiamo imparato a usare gli strumenti, tutti noi». Ma davvero è così? Premesso che per gli adolescenti mantenere i contatti interpersonali attraverso il web è molto più naturale che per gli adulti, la Dad interpone un filtro tra sé e l’altro, fino a crearsi un’identità fasulla e a favorire il proprio ritiro sociale. «In un anno migliaia di bambini e adolescenti sono rimasti fuori dalla scuola. È la più grande emergenza educativa della storia che ha ampliato il divario tra le famiglie più ricche e quelle più povere, tra i bambini che abitano nelle aree urbane e quelle rurali, tra i minori con disabilità e quelli senza. Infatti la Dad racconta storie di dispersione scolastica che arrivano da tutto il Paese, da Nord a Sud e che ha cambiato faccia alla scuola. Il dato Ipsos è di 34mila ragazzi dispersi. Sono dati spaventosi sottolinea l’Agesc ma i numeri racchiudono tante storie. Da chi si è smarrito nella solitudine a chi ha avuto problemi di connessione, da chi ha pagato la lontananza dalla scuola e dai compagni fino a chi è stato “giustificato” dalla promozione certa. Un tasso di dispersione che è raddoppiato rispetto al 2019 (27 % contro 13%).

Secondo i dirigenti scolastici i ragazzi hanno perso motivazioni, sono caduti nell’ansia e nella depressione e non ci sono colpe specifiche. Storie di professori che hanno inseguito con ogni mezzo i loro alunni (chat, social) e altri che si sono dovuti rassegnare per colpa dei genitori che non mandavano i figli per paura del virus.

Ma il grosso problema riguarda i ragazzi con disabilità perché i livelli di partecipazione sono diminuiti sensibilmente, oltre il 23% (circa 70mila) non ha preso parte alle lezioni.

Tale quota cresce nelle regioni del Sud dove si attesta al 29%. Gli altri studenti che non partecipano costituiscono invece 1’8% degli iscritti. Anche in questo caso si riscontrano ampie differenze territoriali: le regioni del Centro si distinguono per la più bassa percentuale di studenti esclusi (5%) mentre nel Sud del Paese la quota risulta quasi raddoppiata (9%). Quali i motivi: la gravità della patologia (27%), la mancanza di collaborazione dei familiari (20%) e il disagio socio- economico (17%). Ma perché la Dad contribuisce all’isolamento? Perché lo spazio virtuale differisce dallo spazio fisico, perché non vengono attivati i neuroni cerebrali, chiamati Gps, che contribuiscono alla nostra memoria autobiografica e al nostro senso di identità.

Ma c’è un altro aspetto della comunicazione interpersonale, forse più sottile ed intimo, riguardante la percezione visiva della mimica facciale e gestuale e la percezione acustica della voce dell’altro. Attraverso la connessione digitale esiste sempre un ritardo, per quanto minimo, tra la trasmissione e la ricezione del segnale, quindi tra le espressioni mimiche, i gesti e l’emissione della voce di chi parla e la relativa percezione da parte dell’interlocutore. L’Agesc chiede di agire in fretta, con soluzioni strutturali e globali non fantasiose (vedi i banchi a rotelle) ma in modo strutturato e globale, per garantire che non siano i più piccoli a pagare il prezzo di questa pandemia. Occorre un grande lavoro di recupero nei prossimi anni e i testi del ministero parlano di un lavoro da fare per cinque anni di fila. Ma sono gli stessi studenti a sentirsi impreparati oltre che stanchi, incerti, preoccupati e ansiosi. C’è chi spera nel Recovery Fund per la lotta alla dispersione, speriamo che il Piano Estate abbia effetti efficaci, positivi e benefici.

 AGeSC

www.avvenire.it

 

 

IL BENE E IL MALE CHE E' IN NOI


 Gli esseri umani sono irrimediabilmente cattivi?

 

-         di Giuseppe Savagnone*

-          

Il disastro della funivia Stresa-Mottarone, causato dall’avidità di guadagno dei responsabili della gestione, viene a rafforzare nell’immaginario collettivo l’idea che gli esseri umani sono irrimediabilmente egoisti e protesi esclusivamente a fare i propri interessi, anche quando questo comporta un danno, o almeno un rischio sproporzionato, per gli altri.

Ed è vero che, guardando alle logiche della nostra società, in cui si assiste quotidianamente ad una competizione selvaggia, alla ricerca del successo, del potere e del guadagno, è molto difficile dare torto a chi sostiene questa visione pessimistica e ne prende spunto, magari, per bollare come ingenuamente illusorie le proposte etiche e religiose – prima fra tutte quella cristiana – fondate sull’amore del prossimo. Il grido di papa Francesco, che denunzia il predominio, nei nostri Paesi “civili” di una “cultura dello scarto”, che abbandona al loro destino i più poveri e i più deboli, non può non apparire, in questa prospettiva, come una nobile, ma utopistica protesta contro l’inesorabile legge della vita e della convivenza.

Le stesse vicende della pandemia ci parlano di persone che si sono arricchite – a volte anche sfruttando cinicamente le urgenze crete dal Covid – e altre (la grande maggioranza) che sono state messe sul lastrico o che almeno si sono ritrovate più povere di prima.

Eppure…

Eppure, proprio ripensando l’esperienza della pandemia, è possibile rendersi conto che una visione univocamente negativa dell’essere umano è altrettanto unilaterale, e in sostanza falsa, di quella che vede in esso solo gli aspetti positivi.

Un esempio che mi sembra molto significativo, in questa direzione, è quello fornito dal personale sanitario – medici, infermieri, operatori che a vario titolo si sono impegnati e si impegnano quotidianamente nell’assistenza a chi soffre e, in modo particolare, ai malati di Covid.

Non è una scoperta che facciamo solo adesso. Da tempo i giornali mettono in luce lo spirito di dedizione e di sacrificio di questa categoria di persone, a cui le circostanze hanno richiesto, al di là del loro ordinario impegno professionale, di combattere in prima linea, di fronte a un nemico nuovo e sconosciuto, e per ciò stesso straordinariamente pericoloso, pagando sulla propria pelle il rischio di questa sfida.

Alla data del 18 marzo 2021 risultano morti per Covid 240 medici – di cui 68 in pensione, ma rientrati in servizio volontariamente, per “dare una mano” – e 83 infermieri. Molto maggiore il numero dei contagiati, alcuni dei quali sono a stento sono riusciti a farcela e sono sopravvissuti. È un bilancio pesantissimo, che però non dice ancora nulla circa la qualità umana dell’impegno profuso dal personale medico e paramedico per contrastare la pandemia.

E anch’io non sarei andato oltre i nudi dati statistici – e probabilmente non avrei scritto questo “chiaroscuro” – se, nel marzo scorso, non mi fossi ammalato di Covid. È stata questa esperienza che oggi mi spinge a parlare dello stile non soltanto professionale, ma anche semplicemente umano, di cui sono stato personalmente testimone nei quaranta giorni in cui sono stato ricoverato nell’ospedale di Partinico, nei pressi di Palermo, interamente dedicato alla cura del coronavirus. Uno stile che, da quanto mi viene riferito, non è esclusivo di questa struttura e può dunque essere menzionato come tipico dell’intera categoria del personale sanitario impegnato nella lotta contro la pandemia.

Se dovessi dire che cosa più mi ha colpito, durante questa lunga permanenza forzata, è stata la generosità e la gratuità dell’impegno di medici, infermieri, oss (operatori socio-sanitari), nella cura dei degenti. Il contrario della “cultura dello scarto” vigente nella società. Ho visto vecchietti, vistosamente segnati dalle conseguenze della malattia e con ogni probabilità desinati a una prossima fine, accuditi con una dedizione, perfino con una tenerezza (ne ricordo uno che gli infermieri vezzeggiavano, chiamandolo “nonnino”, imboccandolo quando non voleva mangiare), che è raro trovare perfino nelle nostre famiglie. Pazienti che a volte suscitavano in me, compagno di stanza, moti di stizza, per la loro ostinazione nel rifiutare e nel togliersi ad ogni occasione la mascherina dell’ossigeno, assediati dal personale, che non si stancava di insistere cercando tutti gli argomenti per convincerli a collaborare. Nessuno veniva abbandonato.

Certo, i rapporti umani erano filtrati dall’anonimato delle tute, tutte uguali, che proteggevano gli operatori dalla testa ai piedi, lasciando liberi solo gli occhi (anche quelli, però, protetti da una visiera di plastica). Qualcuno, col pennarello, aveva scritto sulle spalle il proprio nome o semplicemente la propria qualifica (medico, infermiere…). Ma in linea di massima era difficile capire chi si aveva davanti. Si sapeva soltanto che si poteva contare sulla sua disponibilità e sulla sua pazienza nel venire incontro ai più disparati bisogni e nello svolgere i servizi anche più ingrati richiesti da persone per lo più immobilizzate nei loro letti.

In qualche caso – ma questo dipendeva dal carattere del singolo operatore – era evidente lo sforzo di sollevare il morale dei malati con scherzi e battute, senza far pesare la fatica estenuante di un lavoro per cui spesso il personale era insufficiente.

Al di là delle motivazioni religiose

Mi sono chiesto quale fosse la motivazione comune a queste persone nell’offrire non soltanto l’assistenza richiesta dal loro ruolo, ma qualcosa di più, che non rientrava nelle regole dello stretto dovere professionale. In alcuni mi è sembrato di cogliere, da certi accenni, quella religiosa. Ma la mia sensazione è che alla base di questa stile condiviso ci fosse una interpretazione del proprio ruolo che andava molto al di là della pura funzionalità e ne valorizzava l’aspetto umano.

Una qualità che ho riscontrato, peraltro, anche nel personale della struttura privata dove, dopo le dimissioni dall’ospedale, ho trascorso altri venti giorni per la riabilitazione. Anche là medici, infermieri, oss, avevano a cuore il benessere dei pazienti con una generosità che andava molto al di là delle semplici esigenze de “il cliente ha sempre ragione”.

L’importanza della gratuità

No, gli esseri umani non sono condannati ad essere egoisti e “cattivi”. Anche perché in fondo la gratuità del dono – di questo si tratta, anche quando si fa un sorriso o si compie senza farlo pesare un servizio dovuto – rientra a pieno titolo nella realizzazione delle persone. «Niente è più necessario del superfluo», ha detto qualcuno. Ciò che gli specialisti chiamano “super erogatorio” rende più felice il destinatario, ma anche il soggetto che lo pone in essere. Invece, la logica del “do ut des”, la chiusura nel puro utilitarismo, che non va oltre il proprio stretto interesse, impoverisce innanzi tutto chi la pratica. Ci si può illudere di essere, così, “realisti”, ma chiudere gli occhi sulle nostre esigenze più positive è, invece, una assurda mutilazione del nostro essere.

Il grano e la zizzania

Tutto ciò non cancella la dimensione oscura della nostra vita. La verità è che il bene e il male sono inscindibilmente mescolati in ognuno di noi. L’esempio di generosità dei medici e degli infermieri dei nostri ospedali nella lotta contro il Covid non esclude che alcuni di loro possano, sotto altri profili, essere responsabili di comportamenti sbagliati o addirittura ignobili. È come nella parabola evangelica del grano e della zizzania, che crescono insieme.

Tocca a ciascuno di noi decidere cosa far prevalere nella propria vita, senza illudersi di poter esorcizzare l’altro aspetto. Nessuno sarà mai così “buono” da eliminare da sé inclinazioni cattive. E nessuno – nemmeno il gestore della funivia – può essere demonizzato, dimenticando ciò che di buono comunque c’è in lui. Una persona è sempre di più dei proprio atti, sia quando sono virtuosi, sia quando sono pessimi. Perciò bisogna diffidare della logica dello «sbatti il mostro in prima pagina». Non esistono mostri. Esistono esseri umani, responsabili del loro destino e chiamati a scegliere cosa vogliono diventare attraverso i loro atti.

 

*Pastorale Cultura Diocesi Palermo

 

www.tuttavia.eu

 

venerdì 28 maggio 2021

GIORNATA MONDIALE DEL GIOCO

Il valore del gioco, 

fonte di crescita a tutte le età

Puntata di Doppio Click, programma della Radio Vaticana, dedicata alla Giornata mondiale del gioco, che si celebra il 28 maggio. Un’occasione per riflettere, anche attraverso le parole della Bibbia e di Papa Francesco, sull’importanza della funzione ludica, in particolare in questo tempo funestato dalla pandemia.

 -          di Amedeo Lomonaco – Città del Vaticano

 La Giornata mondiale del gioco  celebra uno dei tratti distintivi dell’esperienza umana, che aiuta l’uomo, sin da quando è bambino, a comprendere dinamiche e relazioni sociali. Nella Bibbia l’immagine ludica traspare tra le immense distese dei cieli, dove Dio sembra immerso in un atto creativo libero e appassionato, un po’ come accade al bambino quando sta giocando. Prima che la terra fosse, già la Sapienza era generata. Nel Libro dei Proverbi la dimensione del gioco si lega a quella del globo. Così parla la Sapienza di Dio: "Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della Terra". 

“Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo. (Dal Libro dei Proverbi)”

Papa Francesco: il gioco ci fa crescere

Papa Francesco, riferendosi alla Sapienza di Dio, nel discorso in occasione della chiusura del quarto Congresso mondiale educativo delle Scholas Occurrentes”, il 5 febbraio del 2015 descrive il gioco come un cammino educativo. “Dio giocava, la Sapienza di Dio giocava. Riscoprire il gioco come cammino educativo, come espressione educativa. Allora l’educazione non è più solo informazione, è creatività nel gioco. Quella dimensione ludica che ci fa crescere nella creatività e nel lavoro insieme”. 

Dare il meglio di sè

Il gioco non deve essere visto come un momento in cui si manifestano solo la funzione ricreativa e dello svago. Il suo raggio d’azione è molto più ampio. Quello del gioco, come ricorda Papa Francesco, è anche un tempo che fa crescere. Nel documento sulla prospettiva cristiana dello sport e della persona umana del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita ed intitolato “Dare il meglio di sé” si sottolinea che Gregorio Nazianzeno e altri padri della Chiesa pensarono la vita cristiana come un gioco. Francesco, prosegue il documento "si è espresso sul tema negli stessi termini, collegando la categoria del gioco con la gioia cristiana". Il gioco e lo sport nelle loro dimensioni più autentiche respingono “ogni forma di egoismo e di isolamento”.  “Appartenere a una società sportiva - dice il Pontefice il 7 giugno del 2014 rivolgendosi ai partecipanti ad un incontro promosso dal Centro Sportivo Italiano - è l’occasione per incontrare e stare con gli altri, per aiutarsi a vicenda, per gareggiare nella stima reciproca e crescere nella fraternità”. “Vi auguro anche di sentire il gusto – aggiunge il Papa - la bellezza del gioco di squadra, che è molto importante per la vita. No all’individualismo! No a fare il gioco per sé stessi”. 

Giornata mondiale del gioco

Incoraggiare la creatività trasmettendo valori come quello del rispetto reciproco. È questa la finalità della Giornata mondiale del gioco che si celebra il 28 maggio. È stata scelta questa data perché il 28 maggio del 1987 si è costituita la International Toy Library Association. È un’occasione per ricordare che il tempo dedicato al gioco è molto importante, soprattutto per i bambini.  L’articolo 31 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia riconosce il diritto del bambino al riposo e al tempo libero e di poter svolgere attività ludiche. Quello del diritto al gioco resta però, in diversi Paesi, un diritto trascurato. Il tempo disponibile per il gioco viene eroso da fenomeni come il lavoro minorile e da una quotidianità a volte troppo frenetica. Nonostante queste ed altre ombre, il gioco resta una luce in grado di abbattere muri come il razzismo e di promuovere una autentica cultura di pace. Nel videomessaggio in occasione dell’incontro virtuale organizzato dalla Fondazione Scholas Occurrentes, Papa Francesco il 5 giugno del 2020 pronuncia queste parole: “Ho visto in Scholas professori e studenti giapponesi ballare con colombiani. È impossibile? L’ho visto. E i giovani israeliani giocare con quelli palestinesi. L’ho visto. E studenti di Haiti pensare con quelli di Dubai. E bambini del Mozambico disegnare con quelli del Portogallo... Ho visto, tra Oriente e Occidente, un olivo che creava la Cultura dell’Incontro”.

“Ho visto in Scholas professori e studenti giapponesi ballare con colombiani. È impossibile? L’ho visto. E i giovani israeliani giocare con quelli palestinesi. L’ho visto. E studenti di Haiti pensare con quelli di Dubai. E bambini del Mozambico disegnare con quelli del Portogallo... Ho visto, tra Oriente e Occidente, un olivo che creava la Cultura dell’Incontro”.

San Filippo Neri

Gli oratori, luogo ideale per imparare a giocare davvero. Per crescere, per alimentare la sana convivialità, la leggerezza. Lo sapeva bene "il santo della gioia", San Filippo Neri, che con il suo "state buoni se potete" ha indicato una via. Una strada da percorrere, senza tornare indietro. Padre Antonio Castagna, Preposito della Congregazione dell'Oratorio di San Filippo Neri di Cava de'Tirreni, raggiunto telefonicamente alla Basilica Pontificia Santuario di Santa Maria Incoronata dell'Olmo, nel corso del programma ricorda proprio le parole del santo, ancora oggi attuali e divenute realtà negli oratori. 

Un'area giochi... in Chiesa

Ci sono idee che conquistano i cuori e la mente. Come non dirlo dinanzi all'intuizione di un sacerdote piemontese che ha deciso di accogliere i fedeli più piccoli della sua parrocchia, realizzando un'area apposita per loro all'interno della chiesa. Una creatività e prossimità che diventa reale. Nella parrocchia di San Giulio d'Orta, nel quartiere Vanchiglietta - non lontano da Superga - don Silvano Bosa ha dunque realizzato un'area giochi per i bambini della comunità, che potranno così vivere in una dimensione a loro consona il tempo trascorso in chiesa. "L'idea è molto pratica, ha riscosso successo anche se oggi a causa delle restrizioni legate al coronavirus - spiega il parroco al microfono di Andrea De Angelis - l'area giochi è momentaneamente chiusa". Un'iniziativa che va avanti da anni e che magari vedrà prossimamente i bambini di un tempo recarsi in chiesa con i loro figli, che giocheranno nello stesso spazio in cui le mamme ed i papà di oggi si divertivano prima di loro.

Dal gioco all’azzardo

Ma non esiste solo il gioco che ha riflessi positivi sull’uomo. Esiste anche una forma di gioco che incide in modo negativo. E’ il caso del gioco d’azzardo. Nella scheda di Alessandro Guarasci, si ricorda la quotidiana battaglia, nel quartiere romano della Magliana, di una Cooperativa che aiuta persone rimaste vittime del gioco patologico. 

Ascolta la scheda di Alessandro Guarasci

Il percorso terapeutico per uscire da dipendenze legate al gioco d’azzardo passa anche attraverso un cammino di fede. È quanto sottolinea una donna, aggiungendo che anche le testimonianze delle persone aiutano a superare questa problematica. Lo psicologo Guglielmo Masci assicura che quasi due terzi delle persone seguite dalla Cooperativa riescono a vincere o a contenere, in una dimensione moderata, questa forma di dipendenza.

Il gioco sano: un compagno in tutte le fasi della vita

Nei primi mesi di vita di un neonato, il gioco assume un ruolo significativo per lo sviluppo intellettivo. E concorre allo sviluppo sociale, fisico, cognitivo ed emotivo anche dei giovani. Il rispetto di regole e la conoscenza di norme sono solo alcuni degli aspetti associati a questa attività non secondaria nella vita di una persona. Anche per gli anziani, l’attività ludica riveste una cruciale funzione sociale ed è spesso un argine contro la solitudine. Il gioco rivela inoltre aspetti del carattere che in altri ambiti non sempre sono visibili. “Si può scoprire di più su una persona in un’ora di gioco - scriveva il filosofo Platone - che in un anno di conversazione”. Il gioco può essere fonte di ispirazione, un’occasione per arricchire le conoscenze. La cosa più difficile da imparare, probabilmente, è saper perdere. 

Il tempo del gioco

Quella dei bambini di oggi è sempre più un'agenda ricca di impegni. Il tempo per il gioco diventa accessorio, qualcosa di cui si può fare a meno. Claudio Puliatti, psicologo e psicopedagogista, spiega nella scheda curata da Silvia Giovanrosa che in realtà nessuno può fare a meno di giocare. La distinzione tra tempo per l'apprendimento e tempo per il gioco libero, aggiunge, in realtà è poco funzionale. Spesso si comprano giocattoli ai nostri figli pensando che siano sufficienti per giocare. Non è così. Il gioco, spiega Claudio Puliatti, innanzitutto è una relazione.

Un altro tema centrale, sottolinea Claudio Puliatti, riguarda la condizione che vivono bambini meno fortunati: bambini poveri, vittime del lavoro minorile, residenti in zone di guerra. "I bambini - conclude lo psicologo -  sanno ricavare il piacere del gioco in ogni circostanza". "Noi adulti abbiamo la responsabilità di garantire loro il diritto al gioco. Ed oggi più che mai, dobbiamo assicurare ai bambini il diritto alla relazione, alla sicurezza ed alla pace". 

 Un gioco da tavolo ispirato all'enciclica Fratelli tutti

Si chiama “Fraternopoly” ed è una versione rivisitata del celebre gioco Monopoly: vince chi condivide di più e non chi accumula proprietà. Lo hanno creato i ragazzi dell’oratorio di Nembro, terra più colpita nella prima ondata del Covid. Il gioco si ispira all'enciclica Fratelli tutti. Il regolamento prevede fino a cinque giocatori, uno per Continente. Chi finisce sulla casella del Continente ottiene un gettone colorato che non costa nulla. Ogni Continente ha delle risorse, non denaro ma cibo, tecnologia, cultura, forza lavoro, conoscenze nel campo della medicina. Qualcosa da condividere per il bene di tutti. L'obiettivo finale non è il profitto, ma lo scambio e l'aiuto.

Il gioco e il post pandemia

In questo tempo segnato dalla pandemia, il momento del gioco è stato condizionato in varie regioni del mondo da lockdown, dal distanziamento e dalle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del coronavuirus. In molti Paesi il ritorno verso la normalità, grazie anche alla campagna di vaccinazione, è un’occasione per ricostruire il tessuto sociale, lacerato dalla pandemia, anche attraverso il gioco. Le attività ludiche possono infatti aiutare a recuperare la socialità perduta, a vivere attraverso momenti di svago la bellezza del confronto con l’altro. Non si tratta di un ambito legato solo al mondo dei bambini. “Nell’uomo autentico - affermava il filosofo Friedrich Nietzsche - si nasconde un bambino che vuole giocare”. Aggiornando questa frase ai nostri tempi si può aggiungere che si nasconde un bambino desideroso, dopo la pandemia, di tornare a giocare.

 

La puntata numero 82 di Doppio Click è stata realizzata da Andrea De Angelis, Silvia Giovanrosa, Alessandro Guarasci e Amedeo Lomonaco.

 

CLICCA QUI PER ASCOLTARE IL PODCAST DELLA PUNTATA DI DOPPIO CLICK

 

Vatican News

 

 

BAMBINI E ADOLESCENTI, TITOLARI DI DIRITTI


 In Italia la ratifica della Convenzione sull’infanzia compie trent’anni

Sono passati trent’anni da quando l'Italia ha ratificato la Convenzione Onu sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza, un Trattato che ha garantito ai bambini un nuovo protagonismo, facendone persone titolari di diritti. Da allora sono stati fatti numerosi passi in avanti con leggi e politiche in favore dei minori. Ma c’è ancora molta strada da percorrere perché i piccoli siano sempre tutelati

-         di Marina Tomarro - Città del Vaticano

      

A partire dal 1991, sono stati numerosi gli interventi legislativi che hanno rivolto una particolare attenzione ai diritti dei bambini e dei ragazzi. Tra di essi la ratifica, nel 2013, della Convenzione del Consiglio d’Europa del 2007 per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, l’adozione della Legge sulla loro protezione attraverso la prevenzione e la lotta al cyber bullismo; la legge sulle misure di protezione dei minori stranieri non accompagnati. Recentemente è stato introdotto anche il reato di costrizione o induzione al matrimonio che prevede la pena alla reclusione fino a 7 anni nel caso di vittime minori di 14 anni. Inoltre, chi nasce oggi ha una probabilità tre volte inferiore di perdere la vita nei primi anni rispetto al 1991; quell'anno i bambini vaccinati contro il morbillo erano il 50%, ora la copertura è raddoppiata.

I diritti dei bambini

“Questa convenzione ha sancito un elemento importantissimo, che i bambini e i ragazzi sono soggetti di diritto, che di minore hanno solo l’età – spiega Samantha Tedesco di SOS Villaggi dei Bambini –, e questo è stato un cambio di mentalità e culturale enorme, rispetto a come venivano considerati i piccoli prima. Questo ha poi comportato anche un differente modo di concepire le politiche rivolte ai bambini, mettendo al centro non solo i loro bisogni, ma anche i loro diritti. Ci deve quindi essere una responsabilità degli adulti perché poi questi diritti diventino realtà. Diritti base come all’istruzione, al gioco, alla socializzazione, che spesso mancano. Purtroppo a trent’anni dalla sua ratifica dobbiamo constatare che questi diritti non sono una realtà scontata per tutti i bambini”.

La pandemia ha peggiorato le povertà esistenti

Per i minori la situazione con l’arrivo della pandemia è andata peggiorando, soprattutto per tutti quelli che vivono in situazioni di povertà. “In Italia sono circa 1 milione e 346mila i bambini poveri, cioè che non accedono ai beni di prima necessità, e sono 209mila in più rispetto all'anno precedente – spiega ancora Samantha Tedesco - . Se prima stava diminuendo questo numero, con la pandemia, chi già viveva situazioni di fragilità ha visto peggiorare la propria condizione. In questo momento è fondamentale fare delle politiche che pongano al centro i bambini e i ragazzi, ma in sostanza la famiglia tutta. Ad esempio, mettere a disposizione presidi educativi per i più piccoli, anche per aiutare le mamme a poter lavorare e dare così una mano alle famiglie ad uscire dalla povertà e ai bambini ad avere delle opportunità educative da cui altrimenti sarebbero esclusi. E poi dare voce ai piccoli e ai ragazzi, ascoltarli nelle loro richieste ed esigenze”.

Un possibile mondo diverso

La strada da fare, quindi, è ancora tanta per poter raggiungere una situazione dove i minori possono vivere in maniera serena la loro infanzia e adolescenza. “Sarebbe bello – sottolinea Samantha Tedesco – se tra cinque anni potessimo costatare che si sono gettate davvero le basi per un mondo diverso, dove la povertà infantile si è notevolmente ridotta. Credo che ci siano i presupposti, c’è un nuovo piano infanzia-adolescenza recentemente approvato, ci sono nuove opportunità, come dei fondi che arrivano dall’Europa, e che dobbiamo utilizzare bene, quindi c’è speranza concreta di poter fare dei passi avanti importanti”. 

 

Vatican News

DIRITTI INFANZIA E ADOLESCENZA



 

NON ETICHETTIAMO I RAGAZZI


... MA PRENDIAMOLI SUL SERIO

I danni del Covid e una sfida educativa che impone verità e coraggio


 -         di MARCO IMPAGLIAZZO

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Lo sappiamo: i nostri figli hanno vissuto un dramma nel dramma in questi lunghi mesi di pandemia: le chiusure con ben poca scuola insieme a una pressione psicologica senza precedenti. Su queste pagine se ne è scritto molto, e in profondità, da parte di neuroscienziati, educatori, madri e padri, sacerdoti. Nei giorni scorsi, sulle pagine di un altro quotidiano, anche don Antonio Mazzi è tornato a riflettere sugli adolescenti e sulle conseguenze dirette e indirette del Covid-19 su di loro.

Molti studi continuano, intanto, a denunciare il loro crescente disagio, registrando anche i fenomeni più estremi come l’aumento dei tentativi di suicidio e degli atti di autolesionismo. Ben più diffuso è risultato lo smarrimento per l’isolamento forzato e la maggiore difficoltà di frequentare i coetanei. Molti genitori e insegnanti hanno visto figli e studenti chiudersi in se stessi, ritrovarsi più 'spenti' o 'arrugginiti', più fragili emotivamente e caratterialmente, più in difficoltà di fronte agli ostacoli di ogni giorno, in famiglia, a scuola, con gli amici. Senza contare le segnalazioni di minori che non frequentano più la scuola, hanno gettato la spugna e stanno scivolando via nelle maglie larghe della didattica a distanza.

Stanchezza, incertezza, apatia hanno colpito un’intera generazione. Che fare? Come ripartire 'con' e 'da' questi ragazzi? La strada non può essere quella di insistere sul tema della 'generazione Covid', come ha fatto notare giustamente

don Mazzi: «Da noi arrivano ragazzi affetti da disturbi internalizzanti o esternalizzanti. Convinco i genitori che dobbiamo affrontare la sofferenza di un ragazzo che [solo] in minima parte è malattia. Non esistono gli autistici, i bipolari, gli schizofrenici, gli anoressici, gli psicotici, i violenti aggressivi, ma esistono degli adolescenti e dei giovani con problemi. Mi rifiuto (salvo casi gravissimi) di catalogare i ragazzi che chiedono aiuto, come ci siamo sempre rifiutati di etichettare chiunque».

Non si può creare una nuova categoria in cui incasellare un adolescente in difficoltà, preludio a una medicalizzazione (e dunque a una deresponsabilizzazione) del problema. La soluzione sta nel farsi carico di una domanda di futuro e rispondere con più vicinanza, partecipazione, responsabilità: i nostri figli ci chiedono più vita e più senso della vita.

È utile (e a chi?) attribuire ai ragazzi etichette che definiscano precocemente le diversità così come avviene nel sistema scolastico e nella nostra società? Si tratta in realtà di scorciatoie che illudono di superare i problemi anche perché certe etichette o definizioni rischiano di accompagnarli per tutto il percorso scolastico con conseguenze anche oltre la maturità. Umberto Galimberti sostiene che ci troviamo immersi in una cultura che persuade ciascun individuo di essere fragile e debole e che rende indispensabile il continuo ricorso a pratiche terapeutiche o all’assistenza di un tutor. Con il disagio adolescenziale legato al Covid-19 si rischia di andare nella medesima direzione, ma la nostra società non può fare a meno del contributo attivo di questi ragazzi e giovani che rischiano di essere 'scartati'. «I giovani maturano se attratti da chi ha il coraggio di inseguire sogni grandi, di sacrificarsi per gli altri, di fare del bene al mondo in cui viviamo», ha detto papa Francesco agli Stati Generali della Natalità. È ciò che dobbiamo offrire ai nostri figli per farli uscire dal grigiore triste di un mondo segnato dalle limitazioni e dall’autolimitazione. Una stagione nuova in cui prenderci cura, come comunità, dei più giovani con responsabilità e fiducia.

Il punto è credere che i cuori di bambini, adolescenti e giovani guariranno se le mete che si porranno davanti a loro saranno all’altezza delle sofferenze che tutto il pianeta ha attraversato. In altre parole, se non li etichetteremo come malati, ma li considereremo parte della cura di cui il mondo ha bisogno. Se non li medicalizzeremo, ma li vorremo come medici di un tempo nuovo, fatto di cura dell’ambiente, di rispetto per i più fragili, di gente che si sente sulla stessa barca.

Mario Draghi, parlando a sua volta all’incontro romano sulla natalità, ha annotato: «Perso l’ottimismo, spesso sconsiderato, dei primi dieci anni di questo secolo, è iniziato un periodo di riesame di ciò che siamo divenuti. E ci troviamo peggiori di ciò che pensavamo, ma più sinceri nel vedere le nostre fragilità, e più pronti ad ascoltare voci che prima erano marginali».

Quello che si apre è il tempo di una nuova sincerità. Con noi stessi, adulti che ritrovano una strada di verità e responsabilità. E con i giovani, non più marginali, ma centrali nella costruzione di un futuro diverso e migliore. Non certo marchiati come i nuovi malati, bensì protagonisti a pieno titolo di una società fondata sulla partecipazione e appassionata del domani.

 

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IL TRANSUMANO E L'IDENTITA' DI GENERE


 L’architrave del ddl Zan è solo l’esito ultimo di un’ideologia che punta a cambiare la nostra condizione

La cancellazione della differenza sessuale consegna al mercato un individuo perfettamente neutro, soggetto fluido, precario assoluto. Perfino nel suo corpo

-         - di MARINA TERRAGNI

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L’allattamento maschile è una pratica già piuttosto diffusa nel mondo occidentale, in particolare negli Stati Uniti: atto politico-performativo e/o feticismo autoginefilo, senza troppe differenze. Indurre la produzione di latte in un maschio non è così difficile, basta l’assunzione off label e in dosi adeguate di un gastroprotettore piuttosto comune. Esiste anche la chirurgia di 'nullificazione del sesso' per persone non-binary: interventi demolitivi che rimuovono del tutto i genitali senza nemmeno abbozzare quelli del sesso opposto, conferendo al pube l’aspetto di quello di una bambola. Venduta – a tariffe ragguardevoli – come libertà, ricorda l’orrore delle mutilazioni genitali. Ecco il transumanesimo. Meglio distrarsi dai dettagli, per quanto stupefacenti, e osservare il quadro d’insieme. L’ orizzonte transumano sembra orientare sempre di più la proposta progressista: il vuoto del fine-guerra fredda si è progressivamente colmato di un dirittismo individualistico ossessivo. Modello di ogni libertà diventa potersi resettarsi in radice, nel corpo, manipolando e riconfigurando i propri caratteri sessuali primari e secondari o avventurandosi in percorsi di ibridazione almeno simbolica con le altre specie, e perfino con il non-vivente.

Le geografie politiche otto-novecentesche – destra e sinistra – non danno adeguatamente conto del quadro. Prendiamo la Spagna. Il Psoe, maggiore partito della sinistra, si oppone alla libera identità di genere, o self-id, ma non al commercio di ovociti (quel Paese è il più grande fornitore d’Europa). Non è raro vedere nelle università grandi cartelli pubblicitari per cooptare ragazze che non riescono a pagarsi gli studi. D’altro canto l’utero in affitto è sempre stato un cavallo di battaglia di Ciudadanos, formazione di destra.

Sui temi transumani la faglia destra-sinistra si muove a zig zag. E non basta nemmeno, come per altri temi sensibili, parlare di trasversalità. La bandiera, certo, è tenuta più alta da una sinistra che a quanto pare non trova altri contenuti per significare la propria vocazione al progresso, e cavalca il transumano come un destino ineluttabile: si veda l’ultima, iconica cover dell’Espresso con il transman incinta. Il popolo di sinistra spesso non capisce ma si adegua, autocensurandosi ed evitando la rogna del libero pensiero ' uncorrect'. Dal canto suo, la destra tende ad arroccarsi su posizioni esasperatamente conservatrici che si spingono fino al rifiuto della 'semplice' omosessualità. L’alternativa al progetto transumano non può venire di qui. E da dove, allora?

Il fatto è che questo progetto è in larga parte business, il che complica ulteriormente il quadro. Qualcuno ha calcolato che ogni bambina/o transitato verso l’altro sesso può fruttare a Big Pharma una media di 1 milione e 300mila dollari in terapie ormonali a vita e per inevitabili patologie iatrogene (esclusi interventi chirurgici ed eventuali complicazioni). Non è strano che la propaganda dei transattivisti punti alle scuole per introdurre prima possibile la libera scelta del genere e la cosiddetta 'carriera alias', ovvero la possibilità di essere riconosciuti e chiamati con nomi e pronomi corrispondenti al genere di elezione, diversi da quelli anagrafici. In Canada, paradiso del transumanesimo, nelle scuole è stato ingaggiato Gegi, magico unicorno che non solo aiuta i bambini a scegliere ma insegna anche, da amico del cuore, come difendersi da genitori impiccioni che provino a mettere i bastoni fra le ruote.

I profitti di Big Pharma però sono il meno. La questione del business transumano è molto più complessa e nessuno l’ha spiegata meglio del filosofo Ivan Illich, padre dell’ecologismo contemporaneo, che nel 1984 in Gender aveva profetizzato il «sogno futurista di una società moderna in cui le persone sono plastiche, e le loro scelte di di- ventare dentisti, maschi, protestanti o manipolatori di geni meritano tutte il medesimo rispetto». Illich lo chiama «imbroglio unisex » e vede l’annullamento della differenza sessuale come «un cambiamento della condizione umana che non ha precedenti » e che si rende necessario perché la differenza sessuale, «segno caratteristico della civiltà tribale e contadina», è ritenuta un «ostacolo allo sviluppo». «La scomparsa del genere – aggiunge – è la condizione decisiva dell’ascesa del capitalismo e di un modo di vivere che dipende da merci prodotte industrialmente»: se all’economia di sussistenza corrispondono differenza sessuale e relazioni, il mercato chiede l’individuo neutro. Illich gli dà il nome di neutrum oeconomicum, «soggetto su cui si basa la teoria economica ». Un soggetto fluido, flessibile, fungibile. Un precario assoluto, perfino nel corpo, soggetto-oggetto perfetto per il neocapitalismo liberale, in una logica del profitto senza regole, limiti o contrappesi.

Tradizionalmente la difesa dei capitalisti e del business sarebbe un lavoro della destra, non della sinistra. Qui in apparenza sta capitando il contrario. Ma le cose sono ancora più complicate. In effetti i più grandi capitalisti che la storia umana abbia mai conosciuto, capi delle aziende hi-tech della Silicon Valley (Google, Amazon, Facebook...) – i cosiddetti capitalisti della sorveglianza, come li chiama Shoshana Zuboff –, ostentano un look decisamente progressista. Posizionandosi dalla parte giusta della Storia, Mark Zuckenberg alla fine ha bannato Donald Trump. Eppure non aveva disdegnato di farci affari, vedi lo scandalo Cambridge Analytica. Business is business.

       Il diritto di fare profitti multimiliardari sfruttando i nostri dati sensibili ( big data) fa leva su un perfetto indifferentismo politico rivestito di progressismo. In realtà destra, sinistra, perfino la democrazia non contano più nulla se provano a ostacolare il profittevole lavoro degli algoritmi. I nostri avatar social somigliano ai nuovi avatar di carne post-umani, corpi 'liberamente' smontati e riassemblati in identità alias.

Nel suo Il capitalismo della sorveglianzaZuboff chiarisce che il vero obiettivo delle aziende della Valley non è tanto scrutare i nostri comportamenti quanto piuttosto influenzarli e modificarli per massimizzare i profitti. A quanto pare lavorare sui comportamenti non basta più: anche i nostri corpi, come profetizzato da Illich, vanno modificati per le ragioni del profitto. I social ci fanno sentire liberi, e anche la guerra contro il corpo nella nuova dimensione onlife – definizione del filosofo della comunicazione Luciano Floridi –, ambiente delle nuove generazioni, viene venduta come libertà. I l transumanesimo si presenta come una cosa nuova: non lo è affatto. Appare come futuro ma è solo l’ultima – forse l’estrema – figura fenomenologica e glitterata di un passato brutale e arcaico. L’uomo che allatta è la perfetta rappresentazione di quel moto invidioso delle origini che ha dato vita all’oppressione patriarcale. La negazione della realtà del corpo – questa volta in direzione di un impalpabile percepito, l’«identità di genere» – è una mossa antica e reiterata nei millenni. È rinascere dalla testa maschile purificati dalla materia femminile. La stessa storia di sempre. Ma il transumanesimo non è affatto un destino ineluttabile. L’alternativa è lì dove è sempre stata, se la si fosse voluta vedere. È ricominciare dal punto in cui si è generato l’errore capitale: l’aver fatto della donna l’Altro, l’eccentrico e l’abietto, per fare largo a un unico Soggetto sessuato al maschile. L’alternativa è ripartire da quella relazione materna, aggredita ovunque, che oggi costituisce l’estremo punto di resistenza. Se il soggetto del transumanesimo è l’individuo assoluto irto di diritti, quello del neoumanesimo è più donna che uomo. Meglio: è l’inscindibile due rappresentato dalla relazione materna, l’atomo non divisibile di una nuova possibile civiltà umana a radice femminile. Ci si deve porre in ascolto autentico delle donne, non limitarsi alla graziosa concessione di diritti. Si deve guardare quello che stanno facendo in difesa delle bambine e dei bambini, figli reali e simbolici, di loro stesse, della continuità della vita. Si deve saper riconoscere che la posizione della donna non è ai margini, dove è stata sospinta. Che le donne non sono una minoranza – come la definisce strabicamente il ddl Zan –, bisognosa di tutela e di politiche inclusive. La natura ha collocato la donna al centro insieme al figlio. Ne ha fatto la madre del mondo. Sono capaci gli uomini di accettare questa centralità e questa autorità femminile, che è al contempo cura, e di mettersi in ascolto autentico delle donne? Perché altra strada non c’è.

Su questi nodi la faglia culturale destra-sinistra si muove in modo imprevedibile. Né l’ossessivo «dirittismo» individualistico né il rifiuto dei temi più controversi offrono risposte a un progetto di manipolazione senza precedenti L’estremo punto di resistenza è l’insuperabile relazione materna, fondamento di un neoumanesimo a radice femminile.

 

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martedì 25 maggio 2021

«CHIESA IN ASCOLTO, VOCE ALLE COMUNITÀ»


UN PERCORSO 

PER IL SINODO

Il segretario generale della Cei alla vigilia dell'Assemblea dei vescovi italiani: diamo il via al percorso sinodale. La pandemia, la questione educativa, le relazioni interpersonali

 

-       di Vincenzo Morgante, Marco Tarquinio, Amerigo Vecchiarelli 

 

Prendersi cura delle persone. A partire dai giovani – la questione educativa va posta «senza ambiguità» – e dai bisognosi. Specie in un tempo come questo, segnato dalla pandemia e dalle tante periferie esistenziali. Incrementare uno stile di Chiesa sinodale e riscoprire il protagonismo dei laici per un annuncio del Vangelo che raggiunga ogni ambito della vita. Così, alla vigilia dell’Assemblea generale dei vescovi italiani, di nuovo in presenza, pur nel rigoroso rispetto delle misure sanitarie e dopo lo stop di un anno imposto dal Covid), il segretario generale della Cei, monsignor Stefano Russo, indica le prospettive di un impegno sempre più missionario delle comunità ecclesiali nel nostro Paese. Toccando i temi di maggiore attualità – Pnrr e migrazioni, ad esempio – e confermando che la Chiesa in Italia continuerà a sostenere i più poveri con i fondi dell’8xmille.

Eccellenza, i vescovi italiani tornano a incontrarsi di persona in assemblea generale dopo la pausa forzata dovuta al Covid. Con quale spirito e con quali attese?

È con gioia che ci ritroviamo dopo così tanto tempo. Portiamo con noi le sofferenze e le istanze delle comunità dopo un anno terribile segnato da una pandemia che, in questo momento, sembra allentare la sua morsa. Portiamo in Assemblea le attese di chi non ha smesso di sperare, di chi ha guardato alla Chiesa come a un sostegno e a una luce, di chi ci interpella sulle nuove sfide dell’evangelizzazione. Allo stesso tempo noi vescovi arriviamo con un mandato preciso, conferitoci dal Papa: avviare un cammino sinodale. Un impegno che è responsabilità e che ci motiva ancora di più in questa occasione di confronto senza mediazioni digitali.

L’assemblea ha come tema “Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita. Per avviare un cammino sinodale”. Partiamo dalla prima parte: quali sono le coordinate indispensabili dell’annuncio in un periodo come il nostro segnato dalla pandemia?

Si tratta di tornare a tessere la trama delle relazioni personali. Il Vangelo che annunciamo non è semplicemente un contenuto, ma è una relazione che salva. È necessario rendere ancora più chiaro che la Chiesa annuncia prendendosi cura delle persone, proiettandosi al di fuori di sé soprattutto verso quelle che il Papa chiama le “periferie esistenziali”. La questione degli strumenti dell’annuncio viene dopo: in questo senso è importante anche saper utilizzare con sapienza i nuovi mezzi di comunicazione, di cui la pandemia ha messo in evidenza la particolare utilità. Vedo in questo un riferimento a quel processo di riforma cui il Papa, in diverse occasioni, ha invitato tutta la Chiesa: è un ritorno all’essenziale, ossia all’annuncio di Cristo e all’incontro con la sua Persona. La riforma, allora, non è solo richiesta per reagire alle difficoltà del tempo presente ma per essere sempre più fedeli al mandato del Signore.

Queste coordinate andranno declinate nel cammino sinodale. Il Papa, nel recente discorso all’Azione Cattolica ha già offerto alcune indicazioni concrete. Come va tradotto, ad esempio, l’accento posto su un cammino che deve cominciare dal basso?
Il Papa sottolinea una dinamica che fa parte dell’esperienza della Chiesa primitiva e che il Vaticano II ci ha riconsegnato quando ha parlato della Chiesa come popolo di Dio. Il “cammino dal basso” di cui parla Francesco si pone in questo solco e fa emergere la natura più vera della comunità cristiana. È necessario, cioè, partire dall’ascolto della comunità in tutte le sue componenti. Questa dinamica dà modo di recuperare il senso più vero della Chiesa come grande famiglia. Ne è conferma la Nota del Sinodo dei Vescovi per la XVI Assemblea Generale Ordinaria, sul tema “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”. La prima fase di questa Assemblea ha come scopo la consultazione del popolo di Dio nelle Chiese particolari. Si avvia un processo “dal basso”. Il cammino, dunque, percorre un sentiero condiviso.

Francesco ha anche detto che il cammino sinodale non deve diventare “un bel parlamento cattolico”. Come si può evitare questo rischio?

Vale la pena ricordare le parole del Papa ai padri sinodali durante la I Congregazione generale della III Assemblea Generale Straordinaria del Sinodo dei Vescovi. Era il 6 ottobre 2014 e si celebrava il Sinodo Straordinario sulla Famiglia. Queste le parole di Francesco: «Bisogna dire tutto ciò che si sente con parresia. Dopo l’ultimo Concistoro (febbraio 2014), nel quale si è parlato della famiglia, un cardinale mi ha scritto dicendo: peccato che alcuni cardinali non hanno avuto il coraggio di dire alcune cose per rispetto del Papa, ritenendo forse che il Papa pensasse qualcosa di diverso. Questo non va bene, questo non è sinodalità, perché bisogna dire tutto quello che nel Signore si sente di dover dire: senza rispetto umano, senza pavidità. E, al tempo stesso, si deve ascoltare con umiltà e accogliere con cuore aperto quello che dicono i fratelli. Con questi due atteggiamenti si esercita la sinodalità». Parlare con parresia e ascoltare con umiltà sono due coordinate per evitare il rischio del «parlamento cattolico».

La Chiesa in Italia ha alle spalle un lungo cammino che, se vogliamo limitarci agli ultimi 60 anni, prende spunto dal Concilio Vaticano II e si è via via sviluppato anche attraverso i Convegni nazionali decennali. In che rapporto stanno tra loro Sinodo e Convegni? Il primo sostituirà i secondi?

La storia del cattolicesimo post-conciliare in Italia è segnata dai documenti del magistero del Papa e anche della Cei. I Convegni ecclesiali nazionali, che si sono tenuti con cadenza decennale, hanno costituito delle tappe altrettanto importanti per verificare il cammino sino ad allora condotto e per rilanciare un nuovo percorso. Adesso il cammino sinodale che si sta per inaugurare si concentrerà sull’ascolto delle Chiese locali. Non c’è fretta di elaborare un documento comune: verrà dato il giusto tempo per ascoltare, vedere e capire prima di sviluppare una sintesi che dia ragione del cammino condiviso.

E come armonizzare il cammino sinodale della Chiesa in Italia con i Sinodi già in corso in diverse diocesi italiane?

I Sinodi che alcune Chiese locali hanno avviato non si sovrappongono né contrastano con il cammino sinodale nazionale. Anzitutto perché il cammino sinodale parte sì dalla realtà diocesana, ma è proiettato verso una sintesi regionale e nazionale: ogni diocesi avrà bisogno di raccontare se stessa, nella consapevolezza di fornire un contributo essenziale a una comunità più grande. Inoltre, chi ha già sperimentato il processo sinodale potrà aiutare le Chiese sorelle, a partire dalla propria esperienza, fornendo suggerimenti sui processi che si sono rivelati più efficaci.

Il Papa insiste sempre su una Chiesa non clericale e non autoreferenziale. E invoca un maggior protagonismo dei laici. Il cammino sinodale sarà anche l’inizio di una nuova stagione del laicato cattolico in Italia?

La Chiesa non è fatta solo dai sacerdoti, dalle religiose o dai religiosi. Papa Francesco più volte ci ha messo in guardia dal clericalismo e in una bella immagine ha ribadito che: «Nessuno di noi è stato battezzato prete né vescovo: siamo stati tutti battezzati come laici e laiche. I laici sono protagonisti della Chiesa». La Chiesa quindi è composta da tutto il popolo di Dio e, insieme - ciascuno secondo le sue specificità, i suoi talenti -, si partecipa alla vita della comunità e alla forza della Chiesa. I laici hanno attraversato stagioni diverse, connesse a tempi in evoluzione e alle difficoltà di quegli stessi tempi. Siamo chiamati a ravvivare la sinodalità che non può che nascere dall’ascolto di ogni componente della famiglia di Dio, per mettere vino nuovo in otri nuovi.

Dopo la fine della Democrazia Cristiana, si ha la sensazione che il peso specifico della presenza cattolica in politica si sia progressivamente affievolito. Lei condivide questa impressione? E qual è il modo più idoneo oggi per contribuire al bene comune da parte della Chiesa nel suo complesso e dei laici in particolare?

A volte ho l’impressione che questo continuo riferirsi a un passato che non c’è più rischi di farci perdere di vista la necessità di un impegno dei cristiani corrispondente alla stagione che stiamo vivendo. Ci sono valori che il cristianesimo porta con sé e che dobbiamo sempre più saper mettere in campo a servizio del bene comune. Anche se spesso si fa fatica a evidenziarli, ci sono davanti a noi tanti frutti buoni che sono espressione della dottrina sociale della Chiesa. Da questo punto di vista sono convinto che il laicato cattolico può portare un contributo straordinario anche in questa stagione particolare. È necessario riscoprire e saper testimoniare sempre più la bellezza di appartenere a un progetto di vita comune.

In questo senso c’è anche un’incarnazione del percorso vissuto nei dieci anni appena trascorsi sul tema dell’educazione. “Educare alla vita buona del Vangelo” era il titolo degli Orientamenti pastorali dello scorso decennio. La pandemia ha fatto emergere, ancora di più, la valenza sociale dell’educazione.

Ormai è chiaro - e la cronaca continua a ricordarlo - che la questione educativa non è passeggera. L’educazione coinvolge le famiglie e tutta la società. E su questo punto non ci possono essere ambiguità. Siamo tutti chiamati in causa. E lo siamo in misura maggiore ora: la crisi pandemica ha generato una serie di gravi conseguenze negli adolescenti e nei giovani. La loro età è fortemente bisognosa di relazioni: esse non sono solo desiderio d’incontro, ma sono anche luogo di messa alla prova per imparare ad abitare la vita e il mondo, per capire qualcosa di se stessi e degli altri, per scoprire, attraverso i legami, le questioni di senso più importanti. In particolare gli adolescenti, che vivono il delicato passaggio dall’infanzia alla giovinezza, hanno sofferto molto la didattica a distanza: si sono scavate solitudini fino a riconoscere, tardi, un malessere che li sta costringendo a una situazione nuova tanto per loro, quanto per i loro genitori e tutte le figure educative. L’esperienza dell’ultimo anno ci ri-consegna, in qualche modo, l’impegno educativo.

Il Covid ha anche creato danni e situazioni di bisogno anche sotto il profilo economico. Che cosa chiedono i vescovi italiani al governo a nome della gente?

Il Covid ha messo in discussione tutta la nostra società e ha minato fortemente la tenuta delle comunità. L’economia è determinante, certo, e ogni tipo di sostegno finanziario deve essere messo in campo, ma molto è necessario fare soprattutto per rinsaldare le fratture sociali che hanno visto contrapporsi le persone per fasce di età, gruppi sociali, aree di impiego e disimpiego. L’inverno demografico che ci assedia, ben ricordato dagli Stati generali della natalità, è la conseguenza della mancanza di speranza, della conflittualità, dell’incertezza.

Il Pnrr, così come è stato presentato, è in grado di raggiungere gli obiettivi di un rilancio della crescita e dell’attenzione alle fasce più deboli della popolazione?

Auspichiamo che il Piano possa dare spazio e opportunità di crescita ai giovani, ricostruire il tessuto sfilacciato di una società che ha perso la fiducia nel futuro, intervenire in aiuto di tutti coloro che sono rimasti ai margini, ridare fiato alle imprese e alle famiglie. È essenziale che non vi siano sprechi di risorse o distorsioni a vantaggio di pochi: questo è il momento di mettere alla prova l’unità di un Paese in una prospettiva di comunione e di crescita collettiva.

In queste settimane la ripresa degli approdi ha riportato in primo piano il dibattito sull’immigrazione. Stante anche la situazione creata dal Covid, qual è la posizione dei vescovi italiani?

Ogni volta in cui vediamo uomini, donne, bambini arrivare su imbarcazioni di fortuna chiediamoci cosa faremmo se ci trovassimo nella loro situazione. Non possiamo pensare di vivere in un mondo in cui ci sono persone che devono sottostare alla legge della sopraffazione e a cui vengono negati i diritti essenziali. Siamo tutti chiamati alla fraternità. La Commissaria europea Ylva Johansson ha correttamente ribadito la necessità di rafforzare il dialogo con i Paesi di origine e di transito dei migranti. Il mio auspicio è che da questi colloqui nasca una collaborazione che, prima di ogni cosa, abbia a cuore il destino dei migranti e la loro difficile condizione. Mi attendo anche una maggiore solidarietà dagli altri Paesi europei nell’implementazione del meccanismo di redistribuzione volontaria, necessario per aiutare i Paesi di primo approdo come l’Italia.

Durante l’Assemblea si procederà, come di consueto, alla destinazione dell’8xmille tra le finalità previste dalla legge. Lo scorso anno ci sono stati stanziamenti cospicui per far fronte all’emergenza Covid. Ci sarà qualcosa di simile anche quest’anno?

Ne parleremo in Assemblea, che delibererà nel merito. Nel 2020 - va ricordato - sono stati stanziati, dai fondi otto per mille che i cittadini destinano alla Chiesa cattolica, 200 milioni di euro (recuperati dalla finalità di edilizia di culto a cui erano destinati) a beneficio delle Chiese locali e di diverse associazioni e organizzazioni, espressione del volontariato e della solidarietà in Italia. Inoltre sono stati stanziati 25 milioni di euro quali sostegno economico alle famiglie in difficoltà attraverso sussidi di studio per studenti iscritti all’anno scolastico 2020/2021 presso una scuola paritaria di I o II grado (cattolica e non cattolica); 9 milioni per i Paesi africani e altri Paesi poveri; 8,800 milioni a favore di strutture sanitarie. In un tempo di prova e difficoltà causate dalla pandemia, la Chiesa che è in Italia, dunque, anche attraverso un supporto economico, è stata vicina alle persone e continua a esserlo con numerose iniziative volte a dare speranza e aiuto concreto.

 

 

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