- di Walter Veltroni
Franco Lorenzoni si è guadagnato negli anni, sul campo, la
stima e l’attenzione del mondo della scuola italiano. La sua esperienza di
laboratorio con i bambini di Amelia e quella trentennale dell’insegnamento a
Giove, in Umbria, hanno a che fare con la migliore tradizione pedagogica del
nostro Paese. Ha recentemente scritto un libro, pubblicato da Sellerio, dal
titolo «I bambini ci guardano. Una esperienza educativa controvento».
Immagina di non essere in pensione ma in classe e di vedere
arrivare lunedì, con le mascherine, i tuoi bambini. Cosa dici loro?
«Cercherei di curare con grande attenzione l’accoglienza, come
stanno progettando di fare migliaia di insegnanti. E non parlerei di ciò che è
accaduto in modo esplicito e diretto perché non funziona. Cercherei piano piano
di far emergere impressioni e ricordi di quello che si è vissuto. C’è stato un
grande sconvolgimento nella vita quotidiana di bambini e adolescenti, che ha
generato emozioni inedite e nuove idee. È molto importante raccoglierle,
trascriverle, e poi confrontarle e farne territorio di conoscenza. Il rischio è
che rimangano sepolte nella memoria di ciascuno e non si abbia la possibilità
collettiva di elaborarle e dunque non se ne traggano le conseguenze culturali,
che possono essere molto importanti. Il tempo della “non scuola” è stata per
tutti un’esperienza profonda. Bisogna parlarne, per razionalizzare e
condividere».
Hai paura che il silenzio nasconda?
«Si può partire da un disegno, da un sogno, da un testo.
Dialogando molto emergono spesso spunti portati dai bambini ed è sempre
interessante quando le cose arrivano in modo indiretto. C’è una bella immagine
evocata da Calvino nella “lezione americana” sulla leggerezza, quando parla
dello sguardo di Perseo. L’eroe scruta il mondo attraverso il suo scudo e
questo modo indiretto gli permette di guardare negli occhi Medusa, senza
esserne pietrificato. A questo serve la cultura e dunque la scuola, a guardare
la realtà —anche quando ci ferisce come il virus — senza restare pietrificati».
Cosa è stato il lockdown per i bambini?
«Ci sono bambini che hanno goduto inizialmente di una specie
di curioso carnevale, in cui molte cose erano rovesciate, e altri che hanno
sofferto moltissimo. Sono aumentate in modo esponenziale le discriminazioni e
oltre un milione di bambini e ragazzi sono rimasti isolati, completamente
disconnessi. Quando si abita in tanti in spazi ridotti o in famiglia regna la
tensione o la sopraffazione, restare chiusi in casa diventa un incubo. Le
infanzie sono vissute in modi completamente diversi. A tutti è mancata molto la
presenza dei compagni, l’incontro quotidiano, il vivere in una piccola
comunità. Non dimentichiamo mai che la metà dei bambini sono figli unici e
stare intere giornate circondati da adulti spesso non è una esperienza tanto
allegra».
In questa crisi è cambiata la percezione della morte nei
ragazzi?
«I bambini parlano spesso della morte. È molto presente in
loro il tema della scomparsa, dell’assenza, di cosa accade quando si muore.
Credo che in questa occasione abbiano piuttosto vissuto con trepidazione la
paura del mondo adulto che hanno visto, taluni per la prima volta, più inquieto
e con meno certezze. Seguire ogni sera i numeri quotidiani della pandemia e
incontrare la grande incertezza dei genitori sul da farsi è certo entrato
nell’immaginario infantile. Ci vorrà tempo per scoprire cosa ha provocato.
Anche a questo serve la scuola e credo che incontrare adulti incerti, che si
pongano domande, sia un bene. Se saremo in grado di non riempire subito con
facili certezze il grande smarrimento provocato dalla pandemia, sarà per tutti
una buona scuola di umiltà e di umanità. E una straordinaria occasione per
scoprire quanto sia importante porsi domande e amare scienza e conoscenza.
Capire è importante, molto importante. La scienza è entrata nella nostra vita e
tutti ci siamo resi conto di quanto sia decisivo fare esperimenti, studiare,
cercare di capire. Quanto ci rassicuri poter far affidamento su buoni medici e
infermieri ce ne accorgiamo quando abbiamo un nostro caro ammalato. In questo
caso ce ne siamo accorti tutti insieme. Non dobbiamo farci sfuggire questo
piccolo varco che si è aperto e dobbiamo esplorarlo anche con i bambini».
Temi che i bambini possano considerare l’altro da sé come un
pericolo?
«Facciamo un passo indietro. Una delle esperienze più
significative e positive che la scuola dell’infanzia ed elementare ha
realizzato negli ultimi trent’anni è stata la capacità di integrare con i figli
di famiglie straniere immigrate. È stata un’impresa enorme, realizzata spesso
con sensibilità ed efficacia dalle maestre (parlo al femminile perché sono il
96%). La scuola primaria è stata il luogo pubblico più aperto all’incontro
interculturale, uno straordinario laboratorio di convivenza tra diversi, tanto
che molti insegnanti si sono spesi con convinzione per lo Ius soli e lo Ius
culturae. Oggi il rischio concreto che un bambino avverta l’altro come
portatore di malattia è da considerare con estrema attenzione».
È il momento più difficile della scuola italiana?
«Conosco insegnanti che non ci dormono la notte. Mantenere un
metro di distanza dal tuo compagno e indossare la mascherina ogni volta che ti
alzi non è facile. Pensiamo ai tanti bambini iperattivi o con disturbi del
comportamento. Cosa facciamo, li puniamo? Penalizziamo la loro incapacità di
stare fermi e seduti per ore? Allontanarli affidandoli a un insegnante di
sostegno o a un operatore sarebbe una sconfitta per tutti perché darebbe luogo
a nuove forme di apartheid educativo. E allora bisogna lavorare con duttilità
sui contesti e immaginare soluzioni con grande creatività. Ci sono maestre che
stanno progettando ricreazioni in luoghi aperti della città. Credo che, ovunque
sia possibile, intorno alle scuole dovrebbero essere create isole pedonali
abitabili da bambine e bambini. Siamo di fronte alla sfida educativa più
difficile di sempre e si tratta di costruire insieme delle regole sensate per
andare incontro al bisogno di sicurezza, che sicuramente è fondamentale perché
riguarda tutti, ma anche condividere con i bambini le difficoltà e cercare
insieme soluzioni. Senza una lunga e complessa costruzione di un sentire comune
è difficile dare regole che siano rispettate. Dobbiamo tutti metterci in
ricerca e non limitarci ad applicare protocolli, pur necessari. La parola
chiave in questo momento è includere tutti. Sapendo riconoscere che ogni
ragazzo è diverso, ognuno ha qualità originali, ognuno ha un background
familiare che influenza il suo apprendere. Ogni bambino è un mondo, non un
numero».
La scuola, abbandonata nel territorio, finisce con l’essere
isolata?
«La scorsa primavera, quando le discriminazioni crescevano a
dismisura e troppi bambini e ragazzi sono rimasti completamente isolati, sono
sorte alleanze inedite tra insegnanti e operatori sociali attivi nel territorio
per fornire device a chi non li aveva. Per affrontare le tante fragilità
e disabilità, per contrastare il crescere della povertà educativa, è necessario
costruire patti territoriali capaci di coordinare le scuole con i comuni, i
municipi, le Asl e il variegato mondo del terzo settore. Promuovere e
realizzare “comunità educanti” attorno alle scuole, come in tante realtà
difficili si sta cominciando a fare, è necessario più che mai perché quello che
si cerca a fatica di costruire nella scuola non venga disfatto dal territorio
che le circonda. Nel deserto la scuola da sola non ce la fa. Ci sono quartieri
urbani del sud in cui il 40% dei ragazzi smette di frequentare la scuola
dell’obbligo. Possibile che questo inaudito spreco di intelligenze non venga
messo all’ordine del giorno della vita pubblica? Moltiplicare i linguaggi è il
modo migliore per cercare di includere tutti. Per questo le scuole devono
essere aperte tutto il giorno e offrire la più vasta e ricca varietà di
proposte educative e di incontro per ragazze e ragazzi. Sono anni che se ne
parla, è il momento di farlo. A 50 anni dall’istituzione del tempo pieno non è
tollerabile che riguardi solo un terzo degli studenti della scuola di base.
Questo vuol dire che si fa meno scuola dove ce n’è più bisogno. La scuola
pubblica deve restare al centro ed essere rafforzata, ma dobbiamo immaginare le
più larghe collaborazioni e mille forme di intervento per contrastare la
desertificazione culturale dei territori più a rischio, investendo molto di più
e meglio».
Consigli da dare all’attuale ministro?
«Credo che la gestione di questa fase sia stata largamente
inadeguata. Pochissimo si è fatto per mettere in comunicazione le esperienze
più significative e renderle generative, tenendo vivo il confronto educativo.
Dobbiamo facilitare al massimo lo scambio di pratiche sensate ed efficaci
perché siamo in una fase di ricerca. Noi stiamo chiedendo ai nostri figli e
nipoti un sacco di soldi. È a loro che stiamo chiedendo un prestito, non
all’Europa. È sulle loro spalle che ricadrà un debito pubblico di proporzioni
gigantesche. E allora abbiamo l’obbligo etico, prima ancora che politico, di
risarcirli. E l’unico modo per risarcire le nuove generazioni sta
nell’investire in istruzione, educazione, ricerca e formazione almeno il 20%
del recovery fund. L’Italia è l’unico Paese in Europa che affrontò la crisi del
2008 tagliando fondi all’istruzione. Mentre tutti investivano di più, Tremonti
tagliò 8 miliardi alla scuola di base».
In nessun luogo sociale come la scuola è giusto sperimentare
una dimensione circolare invece che verticale?
«Calamandrei diceva: “Se lo Stato fosse un corpo, la scuola
sarebbe l’organo ematopoietico”, cioè dove si forma il sangue. Questo luogo non
può che essere partecipato e attivo. Un luogo in cui bambini e ragazzi siano
protagonisti. E allora affrontare le difficoltà della sicurezza nella scuola
può diventare una grande palestra di democrazia. Una reale educazione civica
deve cogliere oggi questa sfida: scriviamo insieme le regole per proteggere la
salute di tutti. Ma per poterla cogliere dobbiamo impegnarci assai ed essere
consapevoli che la scuola è un luogo di creazione culturale e non di pura
trasmissione di conoscenze. In questo momento la cultura di cui abbiamo maggior
bisogno riguarda l’attenzione e la cura. Se ci pensi lo scorso anno scolastico
iniziò il 27 settembre, con le grandi manifestazioni del movimento dei venerdì
del futuro promosso da Greta Thunberg. Quelle manifestazioni dicevano una cosa
chiara: capire e cambiare. Se tu non cambi vuol dire che non hai capito. Oggi
quel capire e cambiare parte dalla costruzione di una cultura della cura. Cura
delle relazioni reciproche, degli spazi che abitiamo, degli equilibri del
pianeta. Se non ora, quando?».
La scuola resta ai margini delle scelte pubbliche...
«Mi fa un po’ rabbia che parlino di centralità di ricerca e
istruzione solo Draghi o Visco. Mi piacerebbe fosse all’ordine del giorno di
chi governa. Dovrebbe essere la priorità di un Paese che ha bisogno di profonde
trasformazioni per crescere e aprirsi a una profonda conversione ecologica. È
una vergogna che l’Italia sia penultima in Europa per numero di laureati: il
27,6% contro il 40,3% della media Ue. Questa mancanza di desiderio di
istruzione deve interrogarci come insegnanti, perché se così tanti giovani non
credono nella conoscenza come possibilità di sviluppo della loro personalità,
qualche responsabilità credo che l’abbiamo anche noi. È importante rivendicare
la centralità della nostra funzione, ma anche darci da fare».
L’Italia non è un Paese per giovani...
«Negli ultimi anni a scuola con i bambini ho lavorato molto
sulla statistica. La cosa che più li colpiva era che al sud del Mediterraneo il
50% della popolazione fosse sotto i 24 anni e da noi invece meno del 20%. Una
bambina un giorno ha detto: “Se al nord sono vecchi e ricchi e al sud giovani e
poveri, cosa succederà?”. Un’altra una volta ha fatto una scoperta
sorprendente. Stavamo lavorando sull’emigrazione e lei si è ricordata di un
quadro di Giotto su cui avevamo lavorato a lungo in prima elementare: la
cacciata dei demoni da Arezzo. Davanti a san Francesco c’è la città di Arezzo
con due porte, dalle quali si affacciano un povero e un ricco. In mezzo c’è un
abisso, la terra è spaccata. Da quel crepaccio si levano demoni che volteggiano
in cielo. Questa bambina, in terza elementare, ha esclamato: “Allora il mar Mediterraneo
è la spaccatura di Giotto”. Ecco, questa capacità di fare associazioni e
domandarci cosa accade con la ricchezza di suggestioni che provengono da un
affresco del 1300 mi ha confermato che questa è la cultura di cui abbiamo
bisogno. Osservare un quadro, leggere un racconto o ragionare su una tabella di
dati può aiutare a capire cosa succede oggi, quando lo colleghiamo alla nostra
vita. Quando accade, bambine e bambini si emozionano, scoprono la gioia della
conoscenza, che può essere ricerca attiva, scoperte da condividere, scambio. Mi
fa disperare la scuola che rende tutto uguale: fai geografia, musica o scienze
e tutto è sempre uguale, leggere o ascoltare, mandare a mente, ripetere in una
interrogazione o verifica. Se non si dà voce alle diverse opinioni di chi
impara perdiamo la radice più feconda della motivazione allo studio che è
sforzo, fatica, ma anche gioia della scoperta di connessioni inattese».
Bisogna inventare un nuovo modello, sperimentare...
«Questo sarà l’anno degli occhi, perché ci dovremo guardare
tantissimo. Sono convinto che sarà utile mettersi spesso le mascherine per
avere la libertà di disporsi in cerchio, discutere, cercare insieme. Mettiamo
le mascherine e facciamo in modo di lavorare scambiando pensieri tra i bambini
e non solo guardando verso la cattedra. Immaginare di tenere quattro o sei ore
i bambini seduti e distanziati è assurdo. E poi usciamo e cerchiamo e proviamo
a utilizzare tutti gli spazi possibili e immaginabili nella città. Sempre
Calamandrei definiva la scuola come “incubatrice di vocazioni”. È una
espressione che mi piace molto: l’incubatrice è una macchina costruita per far
fronte alle difficoltà della natura e superarle. La scuola deve essere proprio
questo: sono tanti i bambini che soffrono, un milione di bambini vivono in
condizioni di povertà assoluta. E allora le scuole dovrebbero farsi
incubatrici, per limare le differenze e fornire opportunità. Sono lo spirito e
la lettera della nostra Costituzione».
Se dovessi dire il momento più bello vissuto da educatore
e quello da alunno, quali sceglieresti?
«Come studente certamente l’incontro con Emma Castelnuovo alle medie. Ci faceva
creare la matematica, ci faceva gioire nel capire. Quando la scuola è questo, è
un luogo di sogno. I momenti più felici da insegnante sono quelli in cui ho
imparato di più ascoltando i miei alunni. Un giorno una bambina, dopo un lungo
lavoro su Gandhi e la nonviolenza, ha detto: “Ho capito... Gandhi non dava
ragione a uno, ma a due”. Una sintesi geniale del pensiero nonviolento. Ne abbiamo
parlato a lungo. Che voleva dire? Si era resa conto che la ragione di uno non è
mai assoluta».
Hai scelto di portare il tuo desiderio di cambiare il mondo e
combattere le discriminazioni nel piccolo, con i piccoli. Per il Talmud salvare
una persona significa salvare il mondo intero...
«Nel Talmud mi hanno raccontato che non viene mai pronunciata
la parola maestro, sostituita dalla bellissima espressione di “scolaro saggio”.
Solo chi riesce a rimanere scolaro tutta la vita può provare a far bene il
mestiere di maestro».
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