La serie con il fantasma del Louvre ha reso il piccolo
schermo un medium di oscurità e inquietudini.
Gli stessi sentimenti su cui
molti leader mondiali di oggi fanno affidamento per creare nemici da additare,
muri da alzare, alleati da tradire e popoli interi da temere.
Come avvoltoi
della nostra libertà
Luigi Sanlorenzo
Le favole più belle sono quelle che più fanno paura. Fin
dalla preistoria i cavernicoli si riunivano davanti ad un fuoco precario per
raccontare di belve feroci a cui erano riusciti a sfuggire o che erano stati
capaci di affrontare utilizzando in entrambi i casi quell’unica risorsa che li
distingueva da essi e che più tardi qualcuno avrebbe chiamato logos cioè
calcolo, pensiero, ragione.
Quel rito ancestrale fu per millenni l’unica forma di
educazione per i più piccoli e per i giovani che presto sarebbero stati ammessi
alla comunità degli adulti, dopo complessi riti di passaggio. L’elemento
emozionale che teneva il filo della narrazione era sempre la paura che
cresceva, episodio dopo episodio, sino a raggiungere il parossismo da cui,
quasi sempre, il lieto fine avrebbe liberato con un sospiro di sollievo,
preludio di una notte serena. Poiché da sempre l’uomo ha bisogno di guardare il
buio per amare la luce mobilitando il meglio di sé. Oggi qualcosa sembra
essersi rotto e diventa urgente porvi rimedio.
Attraverso le favole, anche le più granguignolesche, le
giovani generazioni apprendevano la differenza tra ciò che era bene e ciò che
era male, tra ciò che condannava e ciò che salvava, formando così quel nucleo
morale (dal latino mos-moris) che diventava appunto il costume e
poi, stratificandosi nel tempo, la cultura di un determinato gruppo sociale.
Sorrido quando spesso vedo utilizzare con disinvoltura i termini “etica” e
“morale” scambiandoli a piacimento.
Mentre la morale è una pratica messa in atto attraverso
manifestazioni sociali molteplici e visibili, l’etica (dal greco ethos)
è la riflessione filosofica che cerca di darne una spiegazione razionale. Ma
questo nei talk show non lo sanno e spesso la morale diventa
moralismo, assoggettandosi al destino di tutti gli “ismi” e così l’etica va a
farsi benedire altrove. Qualche volta accade anche in qualche liceo classico
romano che nonostante sia intitolato a Socrate, che ammoniva contro i luoghi
comuni e il conformismo spacciati per Sapere, ama farne strame.
Dalle favole di ogni tempo e cultura, sia che attingessero al
mito che all’esperienza traslitterata nel racconto, si traeva infatti la morale
e non l’etica, sfizio che millenni dopo solo Aristotele si sarebbe potuto
togliere. Se lo poteva permettere. I grandi sommovimenti della storia, le
grandi trasgressioni, le rivoluzioni culturali hanno influito sulla morale e
mai sull’etica che, anche quando è violata, resta immutata perché connessa
all’intrinseca natura dell’uomo, come abbiamo imparato da un curioso signore
sulla cui puntualità si regolavano gli orologi della città di Köningsberg, oggi
Kaliningrad. Si chiamava Immanuel Kant e non vendeva sogni ma solide
proposizioni che amava chiamare “imperativi categorici”. Gli dobbiamo
parecchio.
Nella cultura contadina la favola fu ancora, fino a poco più
di cento anni fa, collettiva. Prendeva la forma del filò; il
racconto era rigorosamente separato dal pasto serale e narrato nei fienili o
nelle stalle dove nelle sere d’inverno si radunavano uomini e donne, bambini e
vecchi a cui di solito toccava la parte del narratore dovuta perché più ricca
ne era l’esperienza e quindi, ancora una volta, la morale. Di quei momenti ci
rimangono i ritratti nelle sequenze di grandi film italiani quali Novecento di
Bernardo Bertolucci del 1976 e L’albero degli zoccoli, di Ermanno Olmi del
1978.
Nella società borghese la favola divenne più intimistica, il
racconto deputato ai genitori, o per i più ricchi a balie e governanti, in
camerette dedicate ai bambini e generalmente letta da testi antichi e
contemporanei la cui lista degli autori farebbe venire le vertigini anche
all’uomo di Alessandria che pure ne raccontò, ad un pubblico già più vasto, di
colte ed indimenticabili. Favole si raccontavano ai più piccoli perfino
nei rifugi antiaerei confidando che la paura e l’immancabile lieto fine di
quelle, esorcizzassero il pericolo reale che incombeva su tutti. Pare che
funzionasse.
Poi venne la televisione e il racconto tornò ad essere
collettivo. All’inizio tra la folla del bar di quartiere, poi condominiale a
casa dei primi utenti, infine domestico dove alcuni programmi dell’unico
apparecchio presente in salotto a poco a poco spostarono per i più grandicelli
anche il ferreo comandamento di andare a letto “dopo Carosello”.
Si derogava alla regola per consentire la visione degli
sceneggiati televisivi ritenuti istruttivi e non pochi appresero de I Promessi
Sposi, con la regia di Sandro Bolchi nel 1967 o dell’Odissea con Irene Papas,
introdotta in ogni puntata dalla voce roca del poeta Giuseppe Ungaretti nel
1968. Avremmo dovuto attendere “La conversazione su Tiresia” interpretata da
Andrea Camilleri, per rivivere, cinquant’anni dopo, le medesime emozioni e
ancora oggi molti non sanno che dietro le quinte della migliore RAI a partire
dagli anni ‘60 c’era già, ben mimetizzato tra i titoli di coda, il suo genio di
sceneggiatore.
Visitai il museo del Louvre per la prima volta nel 1966.
Avevo dieci anni e non era ancora il tempo di viaggi low cost o
di tour virtuali. Il salario medio mensile non superava le
centomila lire e un biglietto aereo da Roma a Parigi e ritorno poteva costare
anche un milione, figuriamoci poi da Palermo. Il treno impiegava oltre tre
giorni e soltanto in estate qualche padre avventuroso intraprendeva
interminabili viaggi in automobile, una millecento FIAT costava 975.000 lire,
che i giovani passeggeri non avrebbero mai dimenticato.
Eppure visitai il Louvre, lo ricordo come fosse ieri, steso
pancia a terra sul marmo del pavimento, in quel caldo luglio, davanti ad un
apparecchio Telefunken che resse fieramente sino all’avvento della tv a colori.
La Pyramid di Ieoh Ming Pei sarebbe stata inaugurata da
François Mitterrand ventidue anni dopo ma il mistero aleggiava da sempre
nella Cour Napoléon sprigionandosi dalla sezione del museo
egizio e delle altre che custodiscono i reperti mesopotamici.
Un ambientazione straordinaria per lo scrittore massone
Arthur Bérnéde che nel 1925 scrisse il romanzo Belphégor di
cui curò anche la sceneggiatura nel film diretto due anni dopo da Henri
Desfontaines. La fama del testo sarebbe stata raggiunta soltanto nel 1965 con
la miniserie televisiva Belphégor ou le fantom du Louvre prodotta
dalla ORTF con la regia di Claude Barma. Il successo fu strepitoso. Fu seguito
da dieci milioni di telespettatori su quarantotto milioni di francesi, di cui
solo il 40% possedeva un apparecchio televisivo. La RAI poté mandarlo in onda
l’anno successivo. Lo share fu immenso al punto di spostarne la messa in onda
dal secondo canale, che non tutti ricevevano, alla prima rete nazionale.
Juliette Grecò, la cui scomparsa avvenuta giovedì scorso ha ispirato questo
articolo e di cui molti scriveranno più e meglio di me, ne fu l’indiscussa,
seppur velata, protagonista.
Con Belfagor, un nuovo genere televisivo aveva fatto
irruzione nel palinsesto televisivo “canonico” sotto l‘egida del Presidente
dell’Ente Pietro Quaroni, ex diplomatico tenuto in paesi lontani dal Ministero
degli Esteri fascista, che non osò però privarsi delle sue competenze, grande
esperto di politica internazionale, poliglotta e brillante conferenziere. Altri
tempi, altri presidenti.
L’Italia era quella del secondo governo presieduto da Aldo
Moro e già aperto a sinistra in cui, fino ad allora, gli sceneggiati televisivi
avevano sostanzialmente ricalcato la grande letteratura già consacrata. Da
Il Dottor Antonio a Piccole Donne a Cime Tempestose, Jane Aire, Orgoglio e
pregiudizio, Capitan Fracassa, Canne al vento, L’isola del Tesoro, Il Piccolo
Lord, la Pisana, Una tragedia americana, Il mulino del Po, Mastro Don Gesualdo,
La cittadella, I miserabili, Il giornalino di Gian Burrasca, Le inchieste del
commissario Maigret, La Donna di fiori, Scaramouche e quel I Grandi Camaleonti
di cui ho scritto pochi giorni fa a motivo della grande
attualità del tema.
Realizzazioni televisive di grande pregio, sovente firmate da
Anton Giulio Majano, Daniele D’Anza, Edmo Fenoglio, il già citato Sandro Bolchi
e Lina Wertmuller, tra i registi più noti. I personaggi erano interpretati dai
migliori attori italiani, per alcuni dei quali furono il promettente esordio.
In un’intervista rilasciata alla trasmissione Storie della Letteratura per RAI
Scuola Andrea Camilleri ebbe così a commentare il decennio di produzione di
sceneggiati 1955-1965: «I primi sceneggiati sembrano essere una biblioteca di
raffinata cultura. Molti di essi sono capolavori della letteratura mondiale che
vengono adattati per la televisione e questo faceva sì che, quasi
contemporaneamente, gli editori rieditassero quei libri e quindi c’era già una
rispondenza nella lettura e nell’allargamento della visione culturale degli
italiani»
Da quell’estate del 1966 un’inquietudine nuova cominciò a
farsi strada nella televisione, come nel cinema italiano, forse figlia di
quella ripresa dell’esistenzialismo del primo ‘900 che dopo anni di isolamento
culturale cominciava a filtrare anche in Italia attraverso la diffusione ad un
più ampio pubblico e nelle università degli scritti di Albert Camus, Simone de
Beauvoir, Frankz Kafka, Emil Cioran, Nicola Abbagnano, dell’indimenticato
maestro Emanuele Severino e soprattutto di Jean Paul Sarte, per il quale
Juliette Grecò divenne presto una musa e Saint-Germain- des-Pres il nuovo
Parnaso, che lo portò al climax con la pubblicazione nel 1945 di una propria
famosa lezione dal titolo “L’esistenzialismo è un umanismo”.
Mi sottraggo alla tentazione di approfondire il tema che ci
porterebbe lontano, per analizzare invece il rapporto tra la comparsa
televisiva di Belfagor e il mutamento della società italiana relativamente al
nuovo sentimento della paura con cui facciamo i conti giornalmente.
Per oltre 20 anni la società italiana si era data da fare per
la ricostruzione concentrando attenzione ed attività su temi di estrema
concretezza e pragmatismo. C’era un Paese da rifondare, industrie da riaprire,
case da costruire, milioni di persone da alfabetizzare. L’esserci riusciti con
l’aiuto dei fondi del Piano Marshall e, soprattutto con l’impegno dei
lavoratori e il risparmio delle famiglie aveva tenuto lontano altre
suggestioni, evitato le troppe domande inquietanti che pure restavano ctonie e
represse, in attesa di una nuova eruzione.
La diffidenza verso le ideologie di cui si erano sperimentate
le peggiori atrocità, il ruolo consolatorio di una religiosità in prevalenza
cattolica, resa più vicina ai credenti con le intuizioni profetiche del
Concilio Vaticano II, avevano tenuto lontani i demoni del dubbio e quei temi
che proprio l’esistenzialismo invitava ad analizzare: la condizione umana, la
paura della morte, l’oblio dell’essere e soprattutto la dimensione irrazionale,
oltre i confini della rassicurate pratica religiosa, proveniente da altri
mondi, da altre religioni e da altre culture che già si erano presentate negli
Stati Uniti con i fermenti della Beat Generation e di cui ho già scritto a proposito di Carlos Castaneda e del Giovane
Holden di J.D. Salinger.
Il 5 settembre scorso su Bergamonews, Claudio Carminati ha
scritto: «Belfagor non è propriamente un giallo ma più un misto tra poliziesco
ed horror ma quando la RAI lo trasmise la paura entrò in milioni di case e, con
un po’ di retorica, la televisione non fu più la stessa; da medium consolatorio
e pedagogico divenne anche il possibile veicolo di oscurità e inquietudini. I
Rosacroce e le sette segrete, l’esoterismo, l’alchimia, l’antico Egitto, una
donna adulta che ha una relazione con uno studentello, le droghe che rendono
gli individui automi, i maestri del terrore e misteriosi pietre radioattive, il
tutto avvolto in una pericolosa nebbia sulfurea e diabolica. Chi, in qualunque
anno sia stato nuovamente trasmesso e vedendolo da piccolo non è saltato nel
letto dei genitori dopo una puntata? Chi pur adulto non è stato colto dal
timore e dell’ansia nell’attraversare le stanze buie della propria casa dopo
aver visto una passeggiata del fantasma nei corridoi semibui del Louvre
sottolineata dalle note di violino composte da Antoine Duhamel? Belfagor
rimarrà per sempre l’inimitabile e irripetibile emblema delle nostre più
profonde inquietudini».
Quando ci si rese conto che quei nuovi sentimenti attraevano
e ammaliavano i telespettatori in cerca di nuove emozioni, anche la televisione
cercò di seguire l’onda con sceneggiati quali il Segno del Comando con Ugo
Pagliai, Carla Gravina e la regia di Daniele D’Anza nel 1971, A come Andromeda
con Luigi Vannucchi, Paola Pitagora e Massimo Girotti (sì, proprio il padre del
Don Matteo televisivo) per la regia di Vittorio Cottafavi nel 1972 ed il
misterioso Extra del 1976 del medesimo D’Anza dei cui misteriosi retroscena il
regista non volle mai parlare. Morì prematuramente nel 1984. La serie non fu
mai replicata.
Ma il tempo degli sceneggiati italiani ormai era finito. Il
pubblico vedeva ogni sera i reportage della Guerra del Vietnam e Oriana
Fallaci, inviata di guerra con l’elmetto, ne raccontava le atrocità insieme
alla rivoluzione teocratica in Iran ed alla strage dei curdi iracheni,
avvelenati dalle armi chimiche di Saddam Hussein. L’orrore era diventato
familiare in televisione, occorreva cercarlo altrove.
E fu trovato nel cinema americano con l’Esorcista di William
Friedrich del 1975 ed i suoi numerosi prequel e sequel, nelle
serie di X-Files, dirette discendenti di Ai confini della Realtà del 1959, nel
cinema italiano di Dario Argento, Lucio Fulci, Mario Bava e perfino del mite
Pupi Avati con la Casa dalle finestre che ridono del 1976, che inaugurarono un
fortunato filone della paura ancora variamente rappresentato dai disaster
moovies e, da ultimo, dai film su epidemie, pandemie ed altre sventure
batteriologiche che oggi appaiono tristemente profetiche.
Di quest’ultima paura che sta cambiando il mondo lo
psicoanalista Massimo Recalcati ha scritto su La Stampa del 7 maggio scorso: «È
necessario abitare il tempo dell’incertezza e della paura per trovare un varco
nell’incertezza e nella paura. In questo contesto di precarietà un punto mi
pare certo: alla potenza inimmaginabile del trauma che ha devastato le nostre
vite, bisogna rispondere con una potenza reattiva altrettanto inimmaginabile.
La politica per prima. Non si pieghi alla scienza come in passato con la
magistratura o con l’economia, ma sia capace d’invenzione, di pensieri grandi.
Di parole all’altezza del dramma che stiamo vivendo. Impari dall’arte a
trasformare le ferite in poesia, a rispondere al trauma con forme di esistenza
nuove».
Già, la politica. Ma sarà in grado? «Ultimo venne il corvo»
ripeterebbe oggi Italo Calvino, se solo fosse ancora tra noi. Sempre meno
nascosti dalle penne nere oggi intravediamo i volti di molti leaders del
Pianeta che hanno fatto della paura l’arma più abietta. Disseminano il panico
creando nemici da additare, muri da alzare, armi da accumulare, alleati da
tradire, popoli interi da temere. Usano la menzogna con antichi e nuovi
strumenti di comunicazione e hanno un solo sogno: rinchiudere gli individui in
un’intricata matassa di odio e di risentimento di cui solo essi pensano di
possedere il bandolo. Promettono come Hasan-i Sabbah, il Vecchio della Montagna
nella fortezza di Alamut, agli infelici e feroci Hashishiyyun che
ne eseguivano gli ordini intontiti dalla droga, il paradiso in terra, una volta
sterminati i nemici.
Gli avvoltoi della nostra libertà ci sono sempre stati, con
volti e modalità multiformi, fin dal tempo di quelle caverne con il ricordo
delle quali ho voluto iniziare questo viaggio nelle paure di ieri e di oggi. È
possibile smascherali e sconfiggerli con un buon fuoco intorno a cui raccontare
le storie che cambiano il mondo e dove, inevitabilmente, essi sono attesi da
una brutta fine mentre noi da una notte senza più incubi. Ha funzionato, me
l’hanno raccontato e non ho mai sognato Belfagor.
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