L’urgenza della riapertura
delle scuole
I problemi relativi alla riapertura delle scuole occupano,
giustamente, un posto di primo piano nel dibattito sulla ripresa autunnale, pur
nella prospettiva di dover comunque convivere ancora a lungo con il
coronavirus. Siamo tutti consapevoli che non è possibile prolungare nel
prossimo anno scolastico l’istruzione a distanza, che da un lato ha fatto
emergere drammaticamente le disuguaglianze sociali, tagliando fuori gli alunni
delle famiglie meno attrezzate per sostenerla, dall’altro è risultata riduttiva
anche per le fasce privilegiate, impoverendo in modo decisivo la dimensione
relazionale che è connaturale all’impresa educativa.
Incertezze e fragilità del governo
Non si possono non constatare le incertezze che hanno caratterizzato
la linea del governo e dello stesso comitato tecnico scientifico – su
tutto, ma in particolare su questo tema –, nonché la fragilità della
ministra in carica, apparsa a molti priva della saggezza e dell’autorevolezza
necessarie in simili frangenti. Soprattutto inaccettabile è stato il tentativo
di scaricare sui dirigenti scolastici le responsabilità e i rischi della
riapertura, rimandandoli a una normativa vaga e confusa, ma soprattutto
esponendoli a una valanga di proteste e di azioni giudiziarie da parte di
genitori scontenti.
Che cosa significa essere “positivi”
Neppure sembra accettabile, però, l’atteggiamento dell’opposizione,
ossessivamente concentrata sulla denunzia delle precauzioni suggerite dal
governo, accusato di agitare lo spettro del contagio solo per limitare le libertà
degli italiani. Vengono continuamente ripetute le affermazioni del prof.
Zangrillo, direttore della terapia intensiva dell’ospedale San Raffaele di
Milano, il quale, davanti ai dati non del tutto rassicuranti della curva dei
“positivi”, ha tenuto a sottolineare che «essere positivi non significa essere
malati» e che non dirlo vuol dire alimentare un allarmismo pernicioso.
Osservazione ineccepibile, che però andrebbe completata dicendo anche
ciò che essere positivi significa (forse per limiti di spazio,
non ho mai trovato nelle interviste a Zangrillo questa seconda parte). Perché
non è per capriccio che gli esperti continuano a lanciare segnali di allarme,
di fronte alle forme plateali di imprudenza di larga parte della popolazione.
Così come non è arbitraria la decisione del governo e delle regioni di chiudere
le discoteche e di stabilire misure restrittive per la movida.
Il punto è che, se i giovani molto raramente diventano “malati”, se
vengono contagiati diventano portatori del virus e possono trasmetterlo agli
anziani. L’aumento del numero di persone “positive”, anche se asintomatiche
(dunque non “malate”), costituisce perciò una bomba a orologeria che, superando
certi livelli renderebbe di nuovo critica la situazione (come lo è in altri
Paesi, che si illudevano di avere superato la fase acuta).
Un’opposizione poco convincente
Per questo i problemi collegati alla ripresa dell’anno scolastico non
possono essere affrontati con la superficiale disinvoltura di chi irride alle
precauzioni su cui si discute. Salvini ha accusato il governo di voler
«trasformare le scuole in lager». Ma chi ha un briciolo di informazione sa che
la linea da lui caldeggiata nel corso di questa crisi ha dato sempre risultati
disastrosi in tutti i Paesi che l’hanno seguita, costringendoli, nella maggior
parte dei casi, ad adeguarsi al metodo “italiano”. Per quanto incerta e
confusa, la strategia del governo di Conte finora si è rivelata meno disastrosa
e sarebbe pericoloso abbandonarla quando si tratta delle scuole.
Ma basta il discorso sulle misure tecniche?
In questo dibattito, tuttavia, manca ogni accenno a ciò che di nuovo
il coronavirus ha sicuramente portato nella nostra esperienza umana e che non
può non trovare un riscontro nella vita della scuola. Tutto si svolge come se
il solo problema fosse quello di garantire tecnicamente il ritorno in classe,
riproponendo così esattamente ciò che vi si faceva prima della pandemia. Le
mascherine, i sanificanti, i banchi singoli, magari anche a rotelle, sembrano
essere le uniche garanzie perché il nostro sistema di formazione culturale dei
giovani possa tornare a funzionare al meglio, intendendo con questo il tornare
a funzionare come prima del coronavirus.
Forse la crisi del coronavirus ha qualcosa da dire alla scuola
Ma è così sicuro che la scuola che il lockdown ha messo in crisi
funzionasse e che si tratti solo di ripristinarla? I docenti riprenderanno le
lezioni dove le avevano interrotte, facendo finta di niente? Non c’è qualcosa
che, da tutto quanto è accaduto, dovremmo imparare, cercandone i segni nella
storia recente, non solo del nostro Paese, ma dell’intero pianeta? La scoperta
drammatica dei rischi mortali che il nostro rapporto predatorio con la natura
implica, della precarietà dei nostri sistemi economici, delle ingiustizie
insite nei nostri equilibri sociali, non dovrebbe imprimere una spinta
irresistibile al muro che fino ad oggi ancora separa la scuola italiana dalla
vita reale, facendone un mondo di carta, dove i libri spesso sostituiscono la
realtà invece di aprire ad essa?
Il concetto di cultura rimesso in discussione
È in gioco il concetto steso di cultura, che spesso nelle nostre
aule è stato interpretato come mero “sapere”, trascurandone la dimensione più
profondamente educativa, che può nascere solo da un confronto continuo della
grande tradizione culturale, che la scuola ha il compito di trasmettere, con i
problemi esistenziali dei singoli e delle comunità. Forse è stata questa
autoreferenzialità a rendere la nostra scuola sempre più insignificante nella vita
sociale e a svalutare la stessa cultura, favorendo il trionfo di una reazione
diffusa quanto irrazionale nei confronti degli intellettuali e dei competenti
«Riaprire» la scuola italiana dovrebbe significare in realtà molto di
più che rendere di nuovo agibili le scuole. Il coronavirus ha dato una spallata
al nostro sistema di vita, e questa spallata forse può travolgere anche i
vecchi schemi de nostro sistema scolastico, costringendolo a pensare in modo
diverso il rapporto con la tecnica (per integrarla nei rapporti umani, non per
sostituirli), a relativizzare i rigidi confini architettonici e burocratici
delle classi, a ristabilire le relazioni con le famiglie (da sempre rimaste ai
margini).
Gli insegnanti si riscoprano intellettuali
Questo sì, è compito in primo luogo dei dirigenti e degli insegnanti.
Solo che per assolverlo, devono anche loro ripensare il proprio ruolo di
intellettuali e decidere una buona volta se tornare ad essere – come spesso
sono –, dei semplici esecutori di direttive ministeriali, stanchi custodi di
una routine alla fine noiosa per loro e per i loro alunni, oppure cogliere il
clima di novità e di rinnovamento creato dalla pandemia per recuperare la loro
identità di intellettuali, in una scuola “diversa”. Scegliendo di essere quello
che degli intellettuali dovrebbero sempre essere, creativi mediatori tra le
idee e la vita, testimoni di una incessante ricerca di senso, critici
intelligenti dell’esistente e costruttori instancabili di prospettive di
speranza.
Di questo i nostri giovani hanno sempre avuto e hanno bisogno. Il
coronavirus, sparigliando le carte, non ha fatto che evidenziare questo
bisogno, rendendo più urgente la necessità di rielaborare la figura
dell’intellettuale in generale, e quella dell’insegnante in particolare.
Il compito del governo
Il governo ha in tutto questo un compito strumentale, ma fondamentale.
Che non è solo quello di permettere la riapertura delle scuole in condizioni di
sicurezza, ma anche di utilizzare una parte consistente dei soldi del Recovery
Fund per favorire questo rinnovamento della scuola e dell’atteggiamento di
fondo del corpo docente. L’appello di Draghi a non investire tutte le risorse a
nostra disposizione in bonus tappa-buchi e a puntare, piuttosto, sul futuro che
dobbiamo assicurare ai nostri giovani, può trovare proprio qui una risposta
significativa.
Da troppo tempo il nostro sistema scolastico è governato secondo
logiche grettamente sindacali, che lo hanno trasformato in un ammortizzatore
sociale, misconoscendone la valenza e la finalità culturale. Bisogna riaprire
la scuola ai giovani entusiasti che desiderano insegnare, mettendo alla prova
la loro preparazione e non solo gli anni di servizio. Bisogna aumentare
gli stipendi e garantire una carriera, rendendo più appetibile questo
lavoro per le persone di valore. Bisogna ridurre il peso sempre più soffocante
degli adempimenti burocratici. Bisogna favorire ad ogni livello la creatività,
premiandola anche economicamente.
E forse, dopo una lunga eclissi, la società imparerà a riconoscere nuovamente
in una scuola così rinnovata la risorsa fondamentale per la propria crescita
umana e civile.
*Responsabile del sito della Pastorale della Cultura
dell'Arcidiocesi di Palermo, www.tuttavia.eu.
Scrittore ed Editorialista.
Scrittore ed Editorialista.
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