Ci riteniamo tutti psicologi, sociologi e capaci di leggere il mondo.
Un libro di due studiosi della personalità mette in relazione quel che crediamo di essere con ciò che siamo realmente e ne emerge una potente critica al cosiddetto senso comune e "buon senso".
di GIUSEPPE O. LONGO
Quello che siamo e quello che crediamo di essere. È il tema
arduo affrontato in Si fa presto a dire psicologia (Il Mulino,
pagine 184, euro 14). Un agile volumetto in cui gli autori Paolo Legrenzi,
Alessandra Jacomuzzi mettono a confronto la psicologia spicciola, quotidiana,
del senso comune e del buon senso con la psicologia scientifica, basata sugli
esperimenti. La psicologia è una disciplina piuttosto singolare: mentre per
leggere con profitto un testo di chimica o di matematica si richiede una
qualche nozione di base, quando si tratta di psicologia ci sentiamo tutti un
po’ psicologi. Presunzione giustificata dal fatto incontestabile che nella
quotidianità il buon senso (che diviene senso comune quando sia condiviso) è
più che sufficiente per farci condurre una vita generalmente dignitosa. Di
fatto, a differenza di altre discipline, la psicologia popolare non ha bisogno
della scienza: pertanto è sorprendente che, partendo dai comportamenti delle
persone, si possano escogitare esperimenti in grado di mettere in luce
meccanismi mentali inattesi. Si è quindi indotti a chiedersi se esista una
realtà mentale più profonda di quella che ci guida abitualmente. E ancora: la
nostra mente, in migliaia di anni di evoluzione, si è strutturata per cercare
la verità, oppure per interagire in modo soddisfacente con gli altri, magari
ingannandoli e ingannando persino noi stessi? E se è vera la seconda
alternativa, quali svantaggi comporta nel mondo contemporaneo una mente che non
si è selezionata per ricercare la verità?
Nel libro gli esperimenti che mettono a nudo i meccanismi
profondi della mente sono suddivisi in sei capitoli, dedicati rispettivamente
alle illusioni della percezione, della realtà, della razionalità,
dell’emotività, della conoscenza e dell’autonomia. Il capitolo dedicato alle
illusioni percettive, per esempio, raccoglie una varietà di esperimenti
escogitati da vari studiosi, tra cui, a Trieste, Gaetano Kanizsa e Paolo Bozzi.
Alla domanda soggiacente: come facciamo a formare di un oggetto un’immagine
piuttosto che un’altra, diede una risposta Max Wertheimer, il padre della
psicologia della Gestalt, secondo la quale il tutto è diverso dalla somma delle
parti. Circa un secolo fa Wertheimer identificò alcune leggi grazie alle quali,
quando siamo davanti a una molteplicità di stimoli visivi diversi, riusciamo a
creare delle figure organizzate e autonome.
Merita soffermarsi sulle conclusioni del volume, ricche
di osservazioni, di notizie e di aneddoti che aiutano a collocare in
prospettiva l’impostazione del trattatello. Psicoterapia, ipnotismo,
affabulazione, impostazione evoluzionista sono presentate con stringata
efficacia e corroborano quello che agli autori appare come il punto cruciale
del libro: il passaggio dal buon senso al senso critico. La psicologia
quotidiana, o «ingenua», che corrisponde al senso comune, funziona molto bene
in un mondo dove non occorre diffidare delle apparenze e domandarsi se il mondo
è davvero quello che si presenta ai nostri occhi. Oggi tuttavia il mondo è
molto più complesso del mondo che ha foggiato il nostro cervello, e uno dei
caratteri degli oggetti complessi è che nessuna singola descrizione, nessun
punto di vista particolare ne esauriscono la ricchezza. Gli esperimenti sono il
miglior modo per verificare o confutare (Popper direbbe «falsificare») le
ipotesi sul funzionamento del mondo. Se è vero che l’esperimento è lo strumento
migliore per indagare la realtà, è anche vero tuttavia che gli strumenti non ci
conducono mai a risposte complete e definitive e il buon senso riempie, per
così dire, i buchi della nostra ignoranza.
Inoltre, osservano gli autori, la scienza ha un grande
vantaggio sul buon senso: riesce a sorprenderci, e la sorpresa accompagna la
scoperta della 'magia' della realtà, ma è anche legata ai dubbi, nel senso
che avremmo meno sorprese se ci fossimo dotati di più cautele e di più dubbi.
«Il buon senso tende a dare per scontato che il futuro sia una replica del
passato e che le cose, quando cambiano, mutino molto lentamente. Oggi il mondo
cambia molto più rapida- mente che in passato e una mentalità
sperimentale, centrata sul dubbio, riesce a ridurre la quantità di sorprese, di
situazioni cioè in cui ci accorgiamo che il senso comune non è sufficiente, che
le idee dei più sono sbagliate». D’altra parte la conoscenza ricavata dagli
esperimenti non deve farci abbandonare il buon senso, piuttosto deve
contribuire ad arricchirlo. Il buon senso arricchito è spesso una buona difesa
contro il senso comune, che tende ad alimentare i pregiudizi e gli stereotipi.
Da ultimo, Legrenzi e Jacomuzzi fanno alcune considerazioni
penetranti sul dibattito relativo ai cambiamenti climatici. Mentre il nostro
cervello è erede e specchio di un passato lontano e gli è difficile adeguarsi a
un mondo che cambia tanto rapidamente, la scienza ci aiuta a capire e a
misurare i cambiamenti, ma non ci dice che cosa dobbiamo fare in queste
condizioni di rischio. Tuttavia combinando la scienza col buon senso,
ricorrendo cioè al buon senso arricchito, possiamo comprendere perché si
debbono adottare certi provvedimenti e anche perché la nostra mente, se
abbandonata al buon senso spontaneo e ingenuo, non ci spinge ad adottarli.
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