Suggerimenti per una leadership di più alto profilo
L’esercizio della facoltà di decidere per sé e per gli altri
può avere un solo metro di valutazione realmente efficace: deve contribuire a
rendere migliore il presente e il futuro della collettività e dei singoli
individui
La cronica mancanza di veri leader sulla scena mondiale non
può non indurre una riflessione su quanto sia centrale nella storia e nella
società il tema del potere e di come il relativo esercizio sia in grado di
cambiare la realtà, incidendo profondamente sulla vita di chi verrà dopo, anche
a distanza di secoli.
Infiniti sono i modi in cui il potere può essere
interpretato, vissuto e trasmesso ma solo uno è il metro con cui i
contemporanei ed i posteri ne danno una valutazione: se esso contribuisca o
meno a rendere migliore il presente e il futuro della collettività e dei
singoli individui.
Se, cioè, l’esercizio della facoltà di decidere per sé e per
gli altri sia percepito come una grande opportunità di cambiamento che renderà
impossibile ogni ritorno al passato. Se, ancora, il passaggio di questo o di
quell’uomo abbia segnato una svolta piccola o grande nella storia di una
comunità, sia essa un impero, una nazione o una pur piccola frazione di mondo.
Coloro che esercitano il potere hanno, se lo vogliono, una
molteplicità di modelli cui ispirare la propria concezione di esso, rendendola
adeguata ai tempi in cui la trasformano in azione concreta e coerente con il
continuo farsi del mondo.
La saggezza di Augusto, il travaglio interiore di Abraham
Lincoln, il superamento dei limiti fisici di Franklin Delano Roosevelt, la
determinazione di Winston Churchill, la lungimiranza e il rigore morale di
Alcide De Gasperi, il coraggio di perdonare di Nelson Mandela, l’energia di
Giovanni Paolo II di denunciare la paura quale male assoluto, indicando nella
promozione del cambiamento interiore il bene possibile, hanno creato mondi
nuovi e modi inediti di viverli. Essi hanno lasciato tracce profonde che il
tempo non è riuscito a cancellare, tanto che rimangono ancora oggi un monito e
un esempio per quanti governano l’epoca in cui vivono.
Spesso tali figure emergono in momenti di crisi profonda di
valori, di confuse visioni del mondo, di fedi vacillanti, di gravi tensioni
sociali e politiche, spesso alla fine di sanguinose tirannie o di dilanianti
conflitti bellici e sociali. Esse hanno la capacità di pacificare, di riconciliare
e di ricostruire, laddove non sono rimaste che distruzione e macerie di ogni
genere, immaginando un futuro possibile di prosperità e di pace fondato sulla
giustizia e sulla tolleranza.
Aprono strade nuove piuttosto che sbarrare quelle esistenti,
costruiscono ponti, dove le distanze appaiono incolmabili, prosciugano le
paludi dell’odio e del rancore e, su un terreno così bonificato, posano le
fondamenta di nuove e durature epoche storiche. Ma soprattutto, sanno farsi da
parte quando percepiscono l’opera come avviata e la necessità che altri,
migliori di sé, la possano portare a compimento. In quel momento diventano
eterni poiché il ricordo che lasciano ritirandosi li ingigantisce nella memoria
e nella gratitudine di chi ne ha compreso il valore, il progetto, la
generosità.
Diverso è il destino di quanti considerano se stessi “il
progetto” e ne fondano la realizzazione sull’imposizione della propria
egemonia, sulla propria presunta indispensabilità, sul proprio smisurato
egocentrismo. Generalmente la Storia se ne libera in modo violento o, più
recentemente, consegnandoli a un oblio opaco, quando non ad una damnatio
memoriae, che ne cancella il ricordo nel volgere di pochi anni.
Da qualche tempo la riflessione sulla leadership s’interroga
sul nuovo significato da dare al termine potere: da sostantivo che rinvia al
significato di dominio, a verbo (da cui peraltro il sostantivo proviene) inteso
come dono della facoltà di agire, abilitando anche gli altri “a poter potere”.
Si tratta di quella capacità che il potere ha, se vuole, di
rendere liberi e non dipendenti, di far volare e non di trattenere, di
promuovere e non di reprimere, in una parola, di essere generativo. Il leader
evoca e non invoca, provoca e non revoca, convoca e non avoca, è univoco e non
equivoco.
Costituisce se stesso come un ponte tra il presente che
brucia e il futuro, che indica come un mondo di cui desiderare di far parte.
Egli si carica del dolore, dello smarrimento,delle speranze e delle aspirazioni
della comunità che quel ponte sceglie di percorrere. Il suo motto è «I care»:
mi sta a cuore, mi interessa, mi faccio carico.
Viviamo anni difficili in cui la peggiore dimensione del
potere ha avuto infinite occasioni di venir fuori, quasi oscurando il ricordo
di esempi che non sono mancati in un passato ormai troppo lontano e
dimenticato.
Attraversiamo un’epoca oscura in cui, smarrito il ricordo di
grandi statisti, ci accontentiamo di fruste repliche affidate a clown tristi,
ad acrobati sbilenchi e a giocolieri sbadati che, nonostante le mille prove
allo specchio che onanisticamente li gratificano, non riescono più nemmeno a
divertire un pubblico che, ben oltre la derisione, prova piuttosto per essi
solo compassione.
Ed è a questo punto che, di solito, nel circo del mondo
irrompono gli illusionisti. Non sono più bravi degli altri artisti, né più
talentuosi. Sono solo più furbi ed hanno la capacità di distrarre gli
spettatori affinché essi non si accorgano del trucco attuato per simulare il
prodigio che lascerà tutti a bocca aperta.
Gli illusionisti sono sempre dei solisti e si circondano di
mezze figure e di abili compari, che non esisterebbero se non alla loro ombra,
ma su cui riversano la propria ira allorché si rivelano maldestri o ne
sospettano un barlume di capacità che potrebbe in futuro farne dei pericolosi
concorrenti. E allora, giù botte e insulti che ne puniscono la goffaggine,
mentre un pubblico divertito e inconsapevole di essere la prima vera ed unica
vittima della narcosi volutamente indotta da trucchi ottici e da celati
doppifondi, esplode nell’applauso liberatorio e torna a casa, finalmente
appagato.
Il nostro è il tempo degli illusionisti. Derivano tutti dallo
stesso ceppo che nei secoli ha generato i peggiori detentori del potere, coloro
che sono durati più a lungo e che hanno creato i maggiori danni ai propri
contemporanei ed a numerose generazioni di posteri.
Essi nascono nelle catastrofi che spesso hanno contribuito a
creare e di esse si servono per legittimare il proprio comportamento, usando
quel bisogno di illusioni che il mondo manifesta continuamente per continuare a
sopravvivere e da cui si libera solo attraverso un bagno di realtà che ha
talvolta il colore della rivolta e il sapore del sangue.
Ma spesso, è troppo tardi e quegli illusionisti, finalmente
scoperti, non ci sono già più. Tra un agitarsi di veli neri da cui compaiono
come dal nulla bianche colombe e s’innalzano fitte coltri di nebbie colorate,
altri ne appaiono con volti che sembrano diversi ma dietro i quali si cela il
ghigno di chi è certo che occorrerà molto tempo prima di essere riconosciuto
sotto le nuove mentite spoglie. E sarà un altro spettacolo nell’eterno circo
del potere.
Allievo di Gregory Bateson, indimenticabile autore di “Verso
un’ecologia della mente”, Adelphi 1977, Robert W. Dilts ha associato l’idea di
leadership al concetto di “andare”, dirigersi con altri verso qualcosa, verso
una qualche visione, una possibilità che aiuti a migliorare la nostra vita e
quella degli altri.
Ne riporto alcuni brani tratti dal libro “Leadership e
visione creativa”, Guerini e Associati, 1998:
«Ogni forma di leadership è accomunata da quattro
caratteristiche: Per prima, la capacità di essere in grado di esprimere una
visione, perché senza una visione non si va da nessuna parte. Non
necessariamente un’immagine: può essere una direzione, una sensazione, o una
visione espressa in modo verbale. La seconda è che i leader devono essere
capaci di motivare il popolo che li circonda, saper prendere una posizione,
essere chiari, responsabilizzare e ispirare gli altri, tirar fuori da loro la
passione. La terza caratteristica di un leader efficace è l’abilità di
incoraggiare il lavoro di squadra, di essere capaci a far lavorare assieme le
persone. La quarta caratteristica, la più importante, è quella di essere un
esempio, leader di se stessi. Guidare con esempio significa esprimere
sicurezza, comunicare non solo attraverso le parole, ma con le azioni, il
linguaggio del corpo. In una parola, con il carisma. Qualità che i leader
portano dentro e che – insieme alla comunicazione efficace e alla capacità di
comprendere le persone e la loro motivazione – consente di incoraggiare il
lavoro di squadra, motivando gli altri».
E ancora:
«Una certa dose di carisma è invece indispensabile quando il
leader vuole ispirare le persone e guidarle attraverso i valori: allora bisogna
arrivare al cuore della gente. Il sapere non è più sufficiente, occorre quella
marcia in più che chiamiamo carisma. Il carisma non si può ridurre a un set di
comportamenti, non è uno stile che rende riconoscibili e omologabili le persone
che lo possiedono. È qualcosa di più profondo, ha a che fare semmai con i
valori e l’identità e si manifesta in modi diversi. Gandhi, per esempio, aveva
un carisma diverso da quello di Martin Luther King. Il leader dei neri
possedeva una forte componente ispirativa, era un visionario, un sognatore, una
personalità forte. Gandhi aveva un profilo basso, una semplicità e una grazia
che sprigionavano una grande umanità. Eppure entrambi possedevano carisma. Non
dobbiamo confondere il carisma con lo stile: un leader può essere pacato,
persino taciturno, e tuttavia esercitare carisma. Pensiamo per esempio agli
asceti o ai santi. I leader spirituali non puntano ai risultati di breve
termine o ai vantaggi contingenti. Sono spinti da una visione che guarda
lontano, che risponde a domande superiori quali “Che contributo voglio dare al
mio gruppo, alla comunità, al mondo intero?”, “Quale eredità voglio lasciare?”.
È questo progetto più ampio, questa visione trascendente, a fornire loro la
carica necessaria a superare i mille ostacoli che incontrano lungo il cammino e
a trasformare infine il sogno in realtà. Il carisma è una “risorsa interiore”
che dipende innanzitutto dalla capacità di essere connessi con se stessi e con
la propria vision. Serve un profondo allineamento fra i principi
professati e i comportamenti agiti. Quando sprigioniamo carisma influenziamo
gli altri anche senza ricorrere alle parole, poiché il carisma passa
soprattutto attraverso il linguaggio non verbale, la parte meno razionale e
controllabile di noi stessi. È da questa connessione che viene quella carica di
energia positiva che chiamiamo carisma. La leadership, dunque, non è uno stato
di grazia, né una dote innata, ma un processo che richiede la presenza di
quattro fattori che agiscono simultaneamente: il sé (leader), gli altri
(followers), gli obiettivi (vision/mission), il contesto (enviroment/milieu).
La leadership non dipende solo dalla doti personali, sebbene queste abbiano un
certo peso, ma dall’interazione fra questi quattro fattori. In generale la
leadership – spiega Dilts – è la capacità di coinvolgere le persone nel
perseguire un obiettivo comune. Etimologicamente, infatti, to
lead significa guidare, ma anche ‘aprire la strada’ andando avanti per
primi».
E, aggiunge chi scrive, «Lead the way» è la cortese
espressione idiomatica che i britannici usano nelle situazioni di imbarazzo,
circa la precedenza da offrire a qualcuno di riguardo nel varcare una soglia.
Così, prosegue Dilts, «per riuscire occorrono:
autoconsapevolezza, equilibrio interiore, coerenza fra valori e i
comportamenti. “Siate il cambiamento che volete vedere nel mondo”, diceva
Gandhi. Una leadership autentica viene dal di dentro (dal proprio sé) e si
espande verso l’esterno, generando circoli virtuosi di energia positiva che
dall’interno vanno verso l’esterno. È qui che subentra quello che Dilts chiama
il ‘gioco interiore’ (i miei valori, le mie convinzioni, la mia identità). Il
‘gioco esterno’ ha invece a che fare con i comportamenti richiesti
dall’ambiente (leggi, regole, procedure ecc.). Quando gioco interiore e gioco
esterno sono allineati, otteniamo performance eccellenti senza nemmeno doverci
sforzare troppo».
Con una frase a effetto, Dilts avverte: «Chiunque può udire
un grido, ma solo chi è in grado di cogliere i sussurri che sottendono le
tempeste può avere successo. L’attenzione ai segnali deboli, attraverso
l’esercizio di un monitoraggio costante, deve diventare una delle principali
occupazioni del leader. Quando le minacce sono ormai evidenti, è tardi per
evitarne le conseguenze».
Sintonia non da poco con un leader spirituale indiscusso
quale Giovanni XXIII, la cui influenza universale fermò il conflitto atomico
che stava per realizzarsi durante la crisi dei missili di Cuba, nel 1961. Il
“Papa Buono” indicò nell’ enciclica Pacem in terris emanata
nel medesimo anno, la necessità di «leggere i segni dei tempi» quale strategia
sagace e anticipatoria per non essere travolti dalle catastrofi che nel mondo
possono scatenarsi per la volontà o per l’incuria dell’Uomo.
Una lezione ancora più antica sugli strumenti per esercitare
la leadership giunge dal magistero senza tempo di Aristotele, padre della
filosofia laica, pratica e razionale.
La Retorica, Τέχνη ῥητορική, è una delle opere
acroamatiche, cioè composte dal filosofo per essere studiate dai suoi
allievi nel Liceo. Nel primo libro, lo Stagirita individua i tre caratteri
Discorso deliberativo, γένος συμβουλευτικόν. Di questo tipo di retorica fanno
parte i discorsi di esortazione pubblici, come nel caso
di leggi e di costituzioni. «Un discorso deliberativo tratterà
dunque temi politici o morali, e i suoi fini saranno la felicità e il
bene; inoltre, avendo per oggetto decisioni in vista dell’avvenire, il suo
tempo di riferimento è il futuro».
Ma, è nel secondo libro del Maestro di Alessandro Magno che
sono indicate le tre categorie su cui si regge la comunicazione politica di un
buon leader: Pathos (πάθος), Ethos (ἦθος) e Logos( λόγος).
Pathos significa “sofferenza ed esperienza”. Il concetto si
traduce nell’abilità dell’oratore di evocare emozioni e sentimenti nel
pubblico. Il pathos è associato all’emozione, mira a simpatizzare con il
pubblico, fa appello all’immaginazione di quest’ultimo e genera l’empatia.
Ethos è la seconda categoria, può tradursi con “carattere,
comportamento” e proviene dalla parola greca ethikos, che significa morale e
capacità di mostrare che la propria personalità si basa sulla morale. L’ethos è
formato dall’attendibilità e dall’accreditamento nei confronti dei destinatari
del messaggio politico.
Logos, infine, è la parola, il discorso o la ragione. Il
logos è il ragionamento logico che si cela dietro le argomentazioni del
comunicatore. Fa riferimento a qualunque tentativo di fare appello
all’intelletto e ad argomentazioni logiche.
Quanto poi alla credibilità del locutore, il Padre della
democrazia così conclude, nel libro “Gamma della Metafisica”, evocando il
principio di non contraddizione:
«Il principio più sicuro di tutti è quello intorno al quale è
impossibile essere nel falso. Questo principio è necessariamente il più
conoscibile,[…] e non ipotetico, perché non è una ipotesi il principio che deve
necessariamente possedere chi voglia comprendere una qualsiasi delle cose che
sono, e quando si vuole arrivare a conoscere qualcosa, è necessario possedere
già ciò che si deve necessariamente conoscere per conoscere una cosa qualsiasi.
[…] È impossibile che la stessa cosa insieme inerisca e non inerisca alla
medesima cosa e secondo il medesimo rispetto; e si aggiungano tutte le altre
determinazioni che si potranno aggiungere per evitare difficoltà di carattere
dialettico.[…]Nessuno può ritenere che la medesima cosa sia e non sia, come
alcuni credono che dicesse Eraclito».
Et de hoc satis.
In
tempi di comunicazione basata su fake news e di leader improvvisati che poca
familiarità hanno con la cultura della Magna Grecia, pur essendovi, alcuni di
essi, nati e, qualche volta, studiato, credo non sia generoso andare oltre,
rischiando di generare, da eventuali auto percezioni di inadeguatezza, un’ulteriore, e più preoccupante, colpevole arroganza.
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