NOI,
CONSEGNATI
AL PRESSAPPOCO
di
Alessandro Zaccuri
Si
entra in libreria con più circospezione del solito, si accenna un saluto al
titolare seduto in cassa, quasi non ci si arrischia a chiedere come sta
andando. Protagonista di effimeri e tempestosi dibattiti nelle settimane più
dure dell’emergenza coronavirus (riaprire no, riaprire sì, riaprire chi?), il
mondo del libro italiano sta oggi attraversando una crisi che si annuncia
devastante. Tale, per intenderci, da far rimpiangere la clamorosa flessione del
2008, quando il mercato si ridusse di un terzo. A confermare l’allarme – già
percepito, in modo più o meno empirico, dagli addetti ai lavori e dai semplici
appassionati – sono i dati dell’indagine realizzata da Cepell e Aie (si tratta
rispettivamente del Centro per il libro e la lettura e dell’Associazione
italiana editori) per valutare le conseguenze della Covid-19 sui 'consumi
culturali' del Paese. In discussione non c’è soltanto la sorte delle librerie,
che in questi mesi hanno drasticamente ridotto la loro attività a parziale
beneficio del commercio online, ma il ruolo che la lettura dovrebbe svolgere in
una fase tanto delicata. E che invece, con ogni evidenza, non riesce più a
svolgere da tempo.
Ancora
una volta, la pandemia ingrandisce e accelera un fenomeno già in atto. Ciò non
toglie che la situazione, una volta trascritta in termini percentuali, resti
sconfortante. Nello scorso mese di maggio, per esempio, solo il 58% degli
italiani afferma di aver letto almeno un libro nell’anno precedente, con una
riduzione del 15% rispetto allo stesso mese del 2019. La quota scende al 50% se
si prende in esame il periodo aprile-maggio 2020, quello del pieno lockdown.
Perché non si legge, perché non si è letto neppure allora? Gli intervistati
danno risposte diverse, che vanno dalla comprensibile preoccupazione (anche
molti lettori forti, andrà ammesso, non trovavano più la concentrazione
necessaria) alla meno plausibile mancanza di tempo. E poi c’è la concorrenza
della rete e delle piattaforme, certo, degli smartphone e delle serie tv. Ma la
risposta forse potrebbe essere più brutale e diretta: gli italiani non leggono
perché in Italia la lettura non è ritenuta importante. A parole sì, ci
mancherebbe altro. La retorica del buon libro, lo struggimento per il profumo
della carta (chi ha abbastanza libri in casa sa che il problema è semmai la
polvere), la parete che arreda grazie alle copertine sistemate per nuances. Questo
però è corredo, ornamento, non risorsa strategica.
Lo
si è visto durante il lockdown, appunto, con le incertezze sul sistema
scolastico e con la sostanziale scomparsa dell’università dal dibattito
pubblico.
Perché
la lettura – su questo occorre essere chiari – non è unicamente questione di
romanzi e di poesie, che pure danno un apporto decisivo alla formazione della
coscienza personale.
Si
possono leggere saggi filosofici e trattati di economia, per esempio, ed è
indispensabile che si legga di scienza e di teologia, di matematica come di
spiritualità. La realtà è complessa, lo è sempre stata. Da qualche tempo, però,
questa stessa complessità è maggiormente percepita e le sue conseguenze sono
più evidenti, come l’andamento del contagio ha drammaticamente confermato. Per
questo bisognerebbe leggere di più, non di meno.
Preoccuparsi
per il destino del libro non significa soltanto prendersi a cuore il futuro di
un settore merceologico, per quanto lavoro e dignità vadano garantiti a tutti:
redattori editoriali e librai, promotori e addirittura autori. Il punto è che
un Paese senza lettori è un Paese che non legge, ossia che non ha gli strumenti
per interpretare il presente. Si affida all’emozione, al sentito dire,
all’equivoco del pressappoco.
S i
è visto nei mesi scorsi, ripetiamolo, e c’è da temere che si continuerà a
vedere per un bel pezzo, se è vero – come sostiene la stessa indagine Cepell-Aie
– che gli italiani d’ora in poi non prevedono affatto di tornare a concentrarsi
sulla lettura. Di rallentare un po’, semmai. Di concedersi qualche altra
distrazione. In questo, purtroppo, non vige più distinzione di classe, né
di ruolo. Anche gli osservatori più coriacei e meno disposti alla
nostalgia si sorprendono ogni tanto a vagheggiare il passato, quando in
Parlamento sedevano persone che i libri, anziché scriverli, li leggevano. Per
scacciare il malumore, allora, si prova a fare un salto in libreria. Si entra,
si saluta, non si chiede più come sta andando.
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