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sabato 4 luglio 2020

OMOFOBIA. LE AMBIGUITÀ DEL DISEGNO DI LEGGE


CONTRASTO  E PREVENZIONE ALLE  DISCRIMINAZIONI

-         di Giuseppe Savagnone

Il testo unificato del disegno di legge «in materia di contrasto e prevenzione alle discriminazioni e violenze per orientamento sessuale, genere e identità di genere», che è stato depositato dall’on. Zan e che verrà discusso alla Camera nei prossimi giorni, è già al centro di un duro scontro polemico.
La stampa ha dato ampio risalto al comunicato della Conferenza Episcopale Italiana, in cui, pur ribadendo che «le discriminazioni – comprese quelle basate sull’orientamento sessuale – costituiscono una violazione della dignità umana (…) e vanno perciò contrastate senza mezzi termini»‚ i vescovi osservano però che «esistono già adeguati presidi con cui prevenire e reprimere ogni comportamento violento o persecutorio» e che «un’eventuale introduzione di ulteriori norme incriminatrici rischierebbe di aprire a derive liberticide, per cui – più che sanzionare la discriminazione – si finirebbe col colpire l’espressione di una legittima opinione, come insegna l’esperienza degli ordinamenti di altre Nazioni al cui interno norme simili sono già state introdotte». Meno citate sono state le parole finali del comunicato, che ne costituiscono la parte propositiva, in cui si invita piuttosto a «promuovere l’impegno educativo nella direzione di una seria prevenzione, che contribuisca a scongiurare e contrastare ogni offesa alla persona».
Uno stile di moderazione
Forse non è inutile ricordare che, in questi ultimi anni, l’atteggiamento della Cei, per quanto riguarda i temi della sessualità e della famiglia, è stato molto moderato, come dimostra il suo grande riserbo nei confronti dei due Family Day del 2015 e del 2016 a Roma e la sua presa di distanze dal Congresso per la famiglia di Verona nel 2019. Lo testimonia la linea di «Avvenire», il quotidiano dei vescovi, esplicitamente apprezzata, per il suo equilibrio e la sua apertura dialogica, dal direttore generale dell’Unar, un ufficio da sempre in prima linea nella battaglie pro-gender, nonché da esponenti di «Arcilesbica» e di altre associazioni femministe (v. Lettere al direttore di «Avvenire» del 24 giugno 2020).
In realtà, anche il testo del comunicato comincia sottolineando la sintonia dei vertici della Chiesa italiana con le finalità a cui il disegno di legge si ispira e si limita a far presenti, abbastanza rispettosamente, i pericoli che derivano al mezzo legislativo scelto per perseguirle, pericoli che non riguardano un qualche interesse particolare della Chiesa, ma quello, comune a tutti i cittadini, della democrazia.
Del resto, per apprezzare la moderazione dei toni della Cei – pur nella chiarezza del dissenso – basta confrontarli con quelli della presidenza dell’associazione «Pro Vita e Famiglia onlus», che parla di un testo «osceno» e prospetta «l’entrata dell’Italia in una nuova dittatura». E sui siti della frangia tradizionalista cattolica non si lesinano le critiche più aspre alla linea di «Avvenire», accusato di essere in sostanza complice del movimento Lgbt.
La risposta dell’on. Zan alle critiche dei vescovi
Resta naturalmente da vedere se il pericolo evidenziato, con pacatezza ma con fermezza, dalla Conferenza Episcopale sia reale. L’on. Zan ha subito replicato: «Sorprendono le critiche della Presidenza Cei alla legge contro l’omotransfobia (…). Lo ripeto per l’ennesima volta a scanso di fraintendimenti: non verrà esteso all’orientamento sessuale e all’identità di genere il reato di “propaganda di idee” come oggi è previsto dall’art. 604 bis del codice penale per l’odio etnico e razziale. Dunque nessuna limitazione della libertà di espressione o censura o bavaglio come ho sentito dire in questi giorni a sproposito».
In effetti il testo del disegno di legge, all’art. 1, non introduce le aggravanti per «chi propaganda idee», ma solo per chi «istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi (…) fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere».
“Propaganda” e “istigazione”
Ma è davvero così chiara e netta la distinzione tra le due fattispecie? Certo, se un vescovo o un parroco si limiteranno a ricordare ai loro fedeli la dottrina della Chiesa in materia di sessualità e di famiglia, la loro potrà essere liquidata come “propaganda”. Ma i pastori della comunità cristiana non sono dei professori addetti a illustrare idee: il loro compito è di contribuire a far sì che esse passino nei comportamenti di ogni giorno. In questo senso, si potrebbe senza forzature catalogare una infuocata lettera pastorale o un’accorata omelia come una «istigazione» a fare o a non fare qualcosa.
Che significa “discriminare”?
Qui, però – dirà qualcuno – la sola «istigazione» che può far finire in tribunale sarebbe quella «a commettere atti di discriminazione per motivi (…) fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere».
Solo che, nella nostra lingua, il verbo “discriminare”, come quello “istigare”, può avere diverse sfumature. Quella prevalente, nell’uso comune, è negativa. Ma, sul «Dizionario Treccani», il primo significato ad essere indicato è: «Distinguere, separare, fare una differenza». Se il vescovo o il parroco di cui parlavamo prima esortassero calorosamente i loro fedeli ad applicare nella pratica quotidiana la visione della Chiesa in materia di sessualità e di famiglia, questa applicazione non potrebbe attuarsi se non “distinguendo” e comportandosi differentemente – cioè “discriminando” – rispetto alle diverse situazioni che invece nel disegno di legge si mira ad equiparare. Spetterà al giudice interpretare…
Discriminazione indegna e discriminazione legittima
Certo, c’è una discriminazione indegna – quella di cui parla all’inizio il comunicato della Cei, condannandola senza mezzi termini –, che calpesta la dignità delle persone. È una macchia indelebile della civiltà cristiana avere alimentato per secoli un clima di irrisione e di linciaggio morale nei confronti di omosessuali e transessuali, dimenticando che in ogni essere umano risplende l’immagine di Dio e che nei più umiliati e offesi è Cristo stesso ad essere perseguitato. Che in altre culture si sia fatto anche di peggio non è  un’attenuante.
Ma il disegno di legge non distingue questa discriminazione  da quella – pienamente legittima in un regime democratico – nei confronti di pratiche, come le nozze gay o l’utero in affitto, e di teorie che le supportano.
I diritti delle persone sono sacri. Penso che qualunque individuo ragionevole debba festeggiare la recente sentenza della Corte suprema americana secondo cui un lavoratore non può essere licenziato perché gay o transessuale (per quanto mi riguarda, sono stupefatto che ancora esistesse negli Stati Uniti questo problema…).  
Ma il tentativo fatto qualche anno fa dall’Unar di far passare sistematicamente nelle scuole di ogni ordine e grado (a cominciare dall’infanzia) una educazione basata sul principio che non si può presumere  la corrispondenza del genere di un  bambino alla sua sessualità biologica e che bisogna prescindere drasticamente da quest’ultima nell’educarlo, favorendo una in-differenza di base tra maschi e femmine, è pura ideologia (per chi voglia la documentazione di quanto dico, rimando ai testi ampiamente citati nel mio libretto Il gender spiegato un marziano, pubblicato dalle Dehoniane), nei cui confronti personalmente da anni mi batto. La mia è una istigazione alla discriminazione – a valorizzare la differenza – «per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere»?
Il caso dell’organizzazione
Una simile incertezza del diritto è ancora più inquietante se si ipotizza che, come nel caso della Chiesa cattolica, sia una intera comunità a battersi per promuovere queste “differenze” sul piano teorico come su quello pratico. Sempre all’art. 1 si prevede, infatti, che nell’art. 604 bis del Codice penale, secondo cui «è vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere».
«Chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell’assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni».
Non si rischia, insomma, soltanto la reclusione fino ad un anno e sei mesi o la multa fino a 6.000 euro, come quando si agisce da soli, ma fino a quattro anni di reclusione. Se poi si è un dirigente – nel caso della Chiesa un vescovo, o un vicario episcopale – secondo questo ddl si può andare in prigione anche per sei anni.
Dietro il rispetto per le persone, l’ombra dell’ideologia
Inteso nel suo aspetto ideologico, il divieto della discriminazione diventa, nel ddl, non più semplicemente la tutela (sacrosanta) dei diritti delle persone che si trovano ad essere gay lesbiche o transessuali, ma una implicita celebrazione della loro condizione, trasformata in un valore da proporre alla comunità civile. Il ddl prevede addirittura l’istituzione di una «Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia», per cui sono previste «cerimonie» e «incontri», in cui – proprio perché non si distingue tra le due forme di discriminazione – si spiegherà alle scolaresche non solo, come è giusto, che le persone sono di uguale dignità, ma anche che la differenza tra eterosessualità e omosessualità è un’invenzione.
In questo modo, il rispetto delle persone rischia di diventare il cavallo di Troia per avallare l’ingresso trionfale di una impostazione ideologica che molti, al di là di motivi religiosi, ritengono una minaccia alla identità costitutiva dell’essere umano e delle sue relazioni fondamentali. Già per questa sua portata simbolica, al di là delle serie incognite sul piano giudiziario, il ddl – almeno nei termini in cui è formulato – non mi sembra lo strumento più adatto, come l’ha definito l’on. Zan, per «rendere questo Paese un luogo più giusto, più sicuro e più libero per tutte e per tutti». La giustizia, la sicurezza e la libertà, in una democrazia, non richiedono il consenso di tutti, ma la chiarezza sì.






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