Uno spietato pamphlet di Squillaci contro quelle realtà che si prefiggono di insegnare la creatività e l'editing secondo le mode e non per fare letteratura.
Ma, prima delle scuole, gli autori come facevano?
di MASSIMO ONOFRI
Il titolo del libro di Alfio Squillaci è un invito alla lotta: Chiudiamo
le scuole di scrittura creativa! (Gog edizioni, pagine 128, euro 12). Il
sottotitolo, invece, ne esplicita le ragioni polemiche: perché la letteratura
non è una catena di montaggio. Il nostro scrittore ha notevoli dosi di sintesi
e una mira che gli consente di raggiungere il bersaglio: al di là del fatto che
si concordi o meno con lui. Senza dire della sua duttilità filosofica: quella
di chi sa passare, all’uopo, da Aristotele a Guido Calogero.
Il quadro è dettagliato e preciso, senza elusioni, basato sui fatti
(magari sulla storia del concetto di bestseller o su quella delle scuole di
scrittura), franco nel linguaggio e spietato nelle sue verità (andate a vedere
ciò che scrive di Roberto Saviano e delle sue eventuali contraddizioni). Ci
concentreremo solo sulle questioni che ci interessano di più, ma si potrebbero
fare altre scelte, tutte legittime. Ecco: «Fino a qualche decennio fa
l’aspirante romanziere non faceva che seguire scuole tutte proprie di lettura
creativa: si metteva a bottega ossia di uno o più maestri, leggeva molto e dopo
un certo periodo di apprendistato, si lanciava». Mimesi e improvvisazione,
insomma. E poi: «Oggi sempre più c’è chi si rivolge ai manuali o a scuole di
scrittura creativa che fioriscono in ogni dove. Perché l’obiettivo è non solo
scrivere, ma farsi leggere o addirittura scrivere bestseller, perforare la
cortina dell’anonimato e raggiungere il più vasto pubblico».
Parole da cui si ricavano due cose fondamentali. Primo: che
all’aspirante scrittore non interessa più la letteratura in se stessa, ma il
successo. Secondo: l’idea (sostenuta con fede positivista) che non serva
leggere per affinare il proprio eventuale talento sulle pagine dei grandi del
passato, ma basti solo l’acquisizione (il più possibile veloce) delle tecniche
(pratiche o teoriche) per raggiungere la fama e magari anche la soddisfazione
economica. Detto in altri termini: non si vuole più essere simili, come in anni
d’altre mitologie, a D’Arrigo o Pizzuto, ma a Carolina Invernizio (senza magari
sapere chi sia stata costei). C’è poi un altro punto su cui si concorda con
Squillaci da molto tempo, tant’è che chi scrive ne ha fondata una a Nuoro
proprio lo scorso anno: «Più che scuole di scrittura creativa, si potranno
concepire scuole di lettura creativa come suggeriva Steiner», in cui si insegni
appunto «non solo a “imparare a capire la struttura delle frasi e ad analizzare
la grammatica del testo” ma anche (…) a pescare nell’immenso laboratorio delle
narrazioni mondiali le modalità in cui si è espressa la narrazione». Per
comprendere meglio: anche in vista d’un esercizio d’ammirazione. Ma mai per
ricavarne regole da applicare astrattamente e in modo non funzionale a quanto
si va scrivendo. E delle pagine Contro l’editing ne vogliamo parlare? E di
quelle sul mito dell’intreccio e della «bella storia»? Un dato del libro da non
tacere è la presenza di brillanti analisi critiche, fatte sempre in vista degli
scopi dell’argomentazione, senza ridondanze: si tratti di Balzac e Flaubert
(soprattutto); Taine, Barthes e Céline; Moravia, Gadda e Arbasino; o Sebald. E
che cosa c’è di più gratificante del constatare certe impreviste connessioni
tra una riflessione sull’insegnamento della scrittura creativa e una citazione
del Kant della Critica del giudizio sul concetto di «genio». Questo per dire
che tante sono le frecce a disposizione di Squillaci per il suo arco:
mantenendo sempre un piacevole tono da civile conversazione. Lasciamo al
lettore il resto del libro, su cui aleggia una domanda cruciale: «Ma prima
delle scuole di scrittura creativa come si faceva?». Che, in considerazione di
tanti storici capolavori universali, ha come l’aria di delegittimare il tema
stesso di queste pagine: facendoci intuire, delle scuole di scrittura,
l’assoluta inutilità.
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