Uno sguardo sul nostro tempo e le sue emergenze partendo dalla lettura
dei classici e dei testi biblici. Un estratto dall’ultimo libro di Ivano
Dionigi che trae linfa dalla rubrica “Tu quis es” redatta per Avvenire.
Il libro / Interpretare i problemi dell’oggi con gli
occhi esperti dell’antichità
Con la prefazione del cardinale Gianfranco Ravasi e un’ampia
premessa dello stesso autore (dalla quale abbiamo tratto il significativo
stralcio che introduce i testi qui anticipati), Raffaello Cortina manda in
libreria Parole che allungano la vita. Pensieri per il nostro tempo, il libro
di Ivano Dionigi (pagine 112, euro 12,00) che raccoglie, con l’aggiunta di
inediti, i brani pubblicati fra gennaio e marzo 2020 su “Avvenire” nella
rubrica di prima pagina “Tu quis es”. Uno sguardo sulla quotidianità, nei
giorni che in Italia e in Europa hanno aperto la crisi della pandemia,
attraverso l’esperienza della classici greci e latini.
di IVANO DIONIGI
La parola, lógos per i Greci, verbum per i Latini, è il miracolo per
cui l’uomo da creatura diventa creatore: essa può affascinare ( delectare),
insegnare ( docere), mobilitare le coscienze ( movere). La parola può unire e
dividere, consolare e affannare, salvare e uccidere. Non solo custodisce e
veicola il pensiero, ma lo genera. La Parola divina, quel Logos con cui si
aprono l’Antico e il Nuovo Testamento: la Genesi («In principio Dio disse») e
il Vangelo di Giovanni («In principio era la Parola»). Il lógos di Eraclito:
«così profondo che della sua anima, per quanto tu possa camminare e neppure
percorrendo intera la via, mai potresti trovare i confini». La parola che con
Gorgia tutto può: «spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la
gioia, accrescere la compassione ». La parola della “democratica” Atene, che
uccise Socrate prima e più della cicuta. La parola che, usata male, secondo
Platone oltre a essere una cosa brutta in sé fa male anche all’anima. La parola
che con Aristotele ci caratterizza come uomini distinguendoci dagli animali. La
parola che con Cicerone salva la res publica, se prerogativa degli eloquentes e
sapientes; la manda in rovina, se prerogativa dei disertissimi homines, i
demagoghi. La parola della ragione di Lucrezio, l’arma più efficace per
debellare i nemici interiori della cupido e del timor.
La parola terapeutica di Seneca che interiorizza e consola. La parola
che con l’apostolo Giacomo ora benedice ora maledice. La parola che con Elias
Canetti si fa antidoto alla guerra. La parola che con don Milani diviene «la
chiave fatata che apre ogni porta». La parola che con Mario Luzi «vola alta» e
profonda, e «tocca nadir e zenith».
Questa parola oggi non gode di buona salute: ridotta a chiacchiera e
barattata come merce qualunque, ci chiede di abbassare il volume, di
ricongiungerla alle cose, di imboccare la strada del rigore. Soprattutto in
questo tempo di calamità, in cui ci apprestiamo a un lungo esodo e alla
traversata del deserto, le parole note suonano inadeguate se non improprie.
Abbiamo bisogno di parole nuove per nominare questo presente imprevisto,
inaudito, alieno. Uguale, eppure così frantumato; estraneo, eppure così
invadente attorno a noi e dentro di noi.
Orfeo e Euridice
A Orfeo è concesso di riportare la dolce sposa dall’Ade sulla terra a
patto di non girarsi a guardarla. Ma, racconta Virgilio ( Georgiche, 4, 485
sgg.), lo sprovveduto amante uscendo dagli Inferi viene preso dalla follia
d’amore e viola i patti ( rupta foedera): «Quale furia d’amore ha portato me
misera, ha portato te Orfeo, alla perdizione? » (4, 494 sg.: Quis et me [...]
miseram et te perdidit, Orpheu, / quis tantus furor?), grida Euridice quando
Orfeo si volta a guardarla. «Muto e impaziente» Orfeo, «mite nella sua
pazienza» Euridice, dirà Rilke. Non è forse vero che non bisogna amarla troppo
questa vita per non perderla? Come non è forse vero che non bisogna attaccarsi
troppo a una persona per non soffocarla? Se non sopportiamo il peso della
privazione, il prezzo dell’attesa, il páthos della distanza, perdiamo coloro
che amiamo e perdiamo noi stessi. Restiamo agli Inferi: nell’Inferno della
nostra identità. Questa favola vale per la scuola come per la vita. Penso al
nostro modo di leggere i classici, oscillante fra due estremi malsani: o non cogliamo
le interrogazioni dei testi e li consideriamo come fossili, muti, inanimati,
cadaverici, oppure vi sovrapponiamo le nostre domande e li riduciamo a pretesti
per le nostre ragioni. Non abbiamo forse pietrificato i classici tutte le volte
che, affetti da miopia e incapaci di resistere all’impazienza e all’illusione
del possesso, abbiamo anteposto le ragioni della vicinanza e della presenza,
incuranti di ogni distanza passata e futura?
Parole per noi
Negata anche la pietas: non si può abbracciare né chi nasce né chi
muore. Catastrofe, inferno, tragedia sono le parole giuste per questi giorni.
Va pensata la genesi dopo l’apocalisse: la scienza medica deve curare e
guarire, la politica provvedere e prevedere, con l’auspicio che i tanti
eurobond siano affiancati da altrettanti neurobond. Avremo bisogno di Mosè, di
tanti Mosè che ci guidino nella traversata del deserto. Non è l’ora delle
nostre parole che suonano inutili o inopportune. Altro timbro possiedono le
parole di coloro che hanno scritto per noi e di noi, che resistono al tempo e
alle mode. Ci ricordano con il Prometeo di Eschilo e l’Antigone di Sofocle che
l’uomo ha posto rimedio a tutti i mali ma non al suo destino mortale; con il
Platone della Repubblica, che non si possono privatizzare i beni materiali ma
neppure i sentimenti quali la gioia e il dolore, e che nella città al vertice
dell’istruzione deve sedere il migliore; con l’Aristotele della Politica, che
l’uomo dotato di norme civili e di senso del giusto è la migliore delle
creature; con Lucrezio, che solo la scienza può rimuovere la paura, frutto
dell’ignoranza e causa di tutti i mali; con Virgilio, che i vecchi valgono non
meno dei giovani; con Seneca, che è cosa diversa vivere ( vivere) dallo stare
al mondo ( esse); con Marco Aurelio, che ognuno di noi vale quanto la causa per
cui lotta; con Agostino, che la qualità dei tempi dipende da quella degli
uomini ( Sermoni, 80, 8: Nos sumus tempora: quales sumus, talia sunt tempora).
Lucrezio lo aveva detto
La storia ama non solo sorprendere ma anche ripetersi. Si vada alla
peste di Atene (430 a.C.) descritta da Lucrezio nel finale del suo poema: vi si
troveranno consonanze raggelanti con i nostri giorni. Sotto scacco, la medicina
allora mostrava tutta la sua incertezza e impotenza: silenziosa e timorosa
esitava e balbettava (6, 1179: Mussabat tacito medicina timore).
Parimenti disarmata e svilita la religione (vv. 1276–1277: Nec iam
religio divum nec numina magni / pendebantur): i templi stipati di cadaveri
accatastati (vv. 1272–1273: omnia sancta deum delubra replerat / corporibus
mors) e impediti in città perfino i riti della sepoltura (v. 1278: nec mos ille
sepulturae remanebat in urbe).
Anche la pietà parentale era messa a dura prova: quanti erano accorsi
al capezzale dei loro cari, incorrevano nel contagio (v. 1243: Qui fuerant
autem praesto, contagibus ibant) e quanti si rifiutavano di portare soccorso
morivano soli e abbandonati (vv. 1239 sgg.: Nam quicumque suos fugitabant
visere ad aegros / [...] / poenibat [...] / desertos, opis expertis, incuria
mactans). Con i nostri occhi li abbiamo visti i medici supplire con la
compassione alla carenza di terapie; le abbiamo viste le chiese diventate
cimiteri, piazza San Pietro deserta e il Papa, solo, a testimoniare non la
potenza del rito ma la passione della croce; li abbiamo visti negli ospedali i
mariti separati dalle mogli, i fratelli dai fratelli, gli amici dagli amici. E
morire senza potere prendersi la mano e neppure salutarsi.
Un uomo, tutti gli uomini
I rimedi per la ricostruzione del Paese dovranno essere proporzionati
ai danni: incalcolabili. Ci vorranno braccia e menti, e una duplice chiamata:
da un lato, quella dei migliori cervelli, in seduta permanente in una sorta di
“cern” politico, economico, sociale, culturale per progettare il futuro;
dall’altro, quella dei ventenni, perché siano i protagonisti della rinascita.
Arrivati in un mondo fatto su misura dei loro padri, dovranno ora costruirne
uno per i loro figli. A nulla valgono le retoriche consolatorie di questi
giorni: il ricorso al patriottismo d’occasione, l’enfasi sull’eroismo dei
medici oggi sull’altare e domani di nuovo nella polvere, l’illusione che ne
usciremo migliori. I retti saranno ancora retti, gli acuti torneranno acuti, e
gli ottusi resteranno ottusi. Più facile prevedere un indurimento degli animi,
un ulteriore divario fra chi ha e chi non ha, un ripopolamento di umiliati e
gregari che al riconoscimento delle istituzioni e alla rivendicazione dei diritti
preferiranno panem et circenses. Avremo imparato che il mondo non è in
equilibrio economico, ambientale, sanitario? Che sapere e potere, competenza e
politica, cultura e amministrazione sono inseparabili? Che sarà il pronome noi
a salvarci? Ce lo ricorda Borges: «Ciò che fa un uomo è come se lo facessero
tutti gli uomini. Per questo non è ingiusto che una disobbedienza in un
giardino contamini il genere umano; per questo non è ingiusto che la
crocifissione di un solo giudeo basti a salvarlo» ( La forma della spada).
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