Un fenomeno imponente
di Giuseppe Savagnone *
Sulla scia del grande movimento di indignazione e di
protesta suscitato non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo occidentale,
dall’assassinio di George Floyd, negli Stati Uniti e in Europa si moltiplicano
le rimozioni o i danneggiamenti di statue dedicate a personaggi direttamente o
indirettamente legati alla memoria del razzismo.
Qualche esempio può servire per evidenziare l’imponenza del
fenomeno, ma anche per capire le sue motivazioni. A Philadelphia, in
Pennsylvania, nel giro di una notte, è andata giù la statua di Frank Rizzo,
sindaco per due mandati – con i Democratici – fino al 1978, famoso per gli
abusi commessi contro le minoranze dalla polizia sotto il suo comando.
Nel mirino degli iconoclasti sono anche personaggi legati
alla guerra di Secessione, che vide gli Stati del Sud combattere contro quelli
del Nord per difendere il sistema schiavista su cui si basava la loro economia.
Il governatore della Virginia ha annunciato che farà rimuovere da Richmond la
statua di Robert Lee, il generale comandante dell’esercito degli Stati
Confederati.
Nell’attuale protesta contro il razzismo è confluita anche
quella nei confronti di Cristoforo Colombo, accusato di essere stato un
persecutore degli indigeni, che già nel 2017 ha indotto diverse città
americane, tra cui Los Angeles, Seattle e Denver, a cancellare la festa annuale
del Columbus day, sostituendola con la “Giornata dei Popoli Nativi e Indigeni”.
In questi giorni a Richmond una statua del navigatore italiano è stata gettata
in acqua, mentre a Boston un’altra è stata decapitata.
Anche al di fuori degli Stati Uniti
Ma il moto di reazione popolare contro ogni forma di
celebrazione del razzismo non è rimasto confinato negli Stati Uniti. A Bristol,
nel Regno Unito, è stata abbattuta e gettata nel porto la statua di Edward
Colston, un mercante di schiavi che, tra il 1672 e il 1689, sembra abbia
trasportato dall’Africa occidentale, per venderle nei Caraibi e in America,
circa 100.000 persone. La statua in bronzo era stata eretta in ricordo delle
donazioni a scuole, ospizi e chiese che Colston effettuò dopo aver abbandonato
la sua lucrosa attività.
A Londra è stata rimossa la statua di Robert Milligan,
politico e mercante di schiavi. Ma anche la statua dedicata a Winston Churchill
in Parliament Square è stata imbrattata con la scritta “era un razzista”,
presumibilmente in riferimento a opinioni razziste e antisemite espresse dallo
statista e al suo rifiuto di fornire aiuti alimentari all’India durante la
carestia del 1943, che uccise due milioni di persone.
Anche fuori dall’Inghilterra, in Belgio, nella città di
Anversa è stata presa di mira la statua dedicata al Re Leopoldo II. Re del
Belgio tra il 1865 e il 1909, Leopoldo II conquistò e sfruttò – a titolo
personale – il Congo, secondo degli standard ritenuti inumani già all’epoca,
provocando la morte di circa dieci milioni di persone. Anche qui si è passati
dalle proteste alla rimozione ufficiale.
A essere oggetto di rimozione non sono solo le statue. Negli
Stati Uniti, a piattaforma di video in streaming HBO Max ha tolto Via col vento
dai film visionabili, per i suoi contenuti legati alla rappresentazione della
schiavitù e della Guerra di Secessione.
Il diritto di giudicare moralmente la storia
Un fenomeno così ampio merita alcune considerazioni che
vanno al di là della mera cronaca e possono aiutarci a capirne la portata.
La prima è che, dopo i secoli della modernità, dominati
dallo storicismo, secondo cui la storia non può essere oggetto di valutazioni
morali, perché ogni epoca ha i propri parametri culturali e non esiste, al di
fuori del tempo e dello spazio storici, alcun criterio assoluto – sia esso la
natura umana, o Dio, o la giustizia… – che autorizzi a giudicare fatti e
persone del passato in termini di bene e di male, in questa nostra epoca post-moderna
sembra invece imporsi, a furor di popolo, una prospettiva molto diversa, che
non intende limitarsi a “capire” i personaggi, i comportamenti e le situazioni,
contestualizzandoli nel loro tempo, ma rivendica il diritto di indignarsi e di
condannarli per le ferite che hanno inferto alla vita e alla dignità di altri
esseri umani.
Il rischio del moralismo
Certo, il rischio del moralismo – che proietta acriticamente
sul passato le categorie del presente, senza tener conto della indispensabile
prospettiva storica – non può essere ignorato. Per alcuni secoli la tratta
degli schiavi e la loro utilizzazione come mano d’opera è stata considerata
normale da nazioni che si ritenevano cristiane e dove ogni domenica la gente
frequentava i servizi religiosi. Sulle navi negriere spesso c’era un
cappellano. Erano tutti ipocriti? Tutti mascalzoni? E oggi, invece, siamo tutti
buoni, perché la nostra cultura ci rende odiosa a priori l’idea stessa di
schiavitù?
Forse, tra gli estremi opposti dello storicismo e del moralismo,
una valutazione etica della storia può aver a sue legittimità se sa andare
oltre il puro relativismo (“a quei tempi era giusto così”), ma anche
considerare i condizionamenti culturali che impedivano ai singoli, spesso, di
percepire l’oggettiva assurdità dei costumi dominanti. Resta il fatto che,
anche all’interno di un certo contesto, le situazioni e le reazioni personali
al clima culturale erano molto diverse e meriterebbero valutazioni
differenziate. C’erano anche allora persone più umane e persone che lo erano
meno.
Oltre la separazione tra etica e politica
La seconda considerazione è che questa rivincita della
morale non si verifica solo nei confronti della storia, ma anche della
politica. La separazione teorizzata da Machiavelli, agli albori dell’età
moderna, tra etica e politica, con l’intento di dare a quest’ultima
un’autonomia che la sottraesse alle valutazioni etiche (valide, invece, per la
vita privata), viene rimessa radicalmente in discussione dalla condanna
popolare nei confronti di personaggi che hanno a che fare con la sfera
pubblica, come i generali degli Stati confederati, o Churchill.
Passato e presente
È stato obiettato che le statue riproducono uomini del
passato e che non ha senso proiettare su di esse la rabbia per ingiustizie e
prevaricazioni della società attuale. Ma è un rilievo che non tiene nel giusto
conto il valore simbolico che questi monumenti possono assumere anche per chi
viene dopo.
Così, negli Stati Uniti, la maggior parte di quelli
inneggianti ad eroi sudisti sono stati costruiti tra il 1876 e il 1964, al
tempo delle famigerate leggi Jim Crow, che sancirono il mantenimento negli
Stati del Sud di una rigida segregazione razziale anche dopo la fine della
guerra di Secessione. E intorno ad essi, nel 2017, si sono stretti i gruppi più
fanatici della destra razzista, erigendoli a simboli della loro battaglia
contro i diritti degli afroamericani.
Ha dunque un preciso valore etico-politico la scelta di
toglierli dallo spazio urbano, se è vero che una città non è soltanto un
agglomerato di edifici e di strade, bensì il racconto che una comunità fa di se
stessa, del proprio passato, ma anche dei valori su cui intende costruire il
proprio futuro. Celebrare con un monumento un personaggio, invece che un altro,
contribuisce a definire questi valori.
Il rischio di un’illusione ottica
La terza considerazione riguarda il pericolo di ridurre il
recupero dell’etica ad alcuni aspetti, unilateralmente assunti come gli unici
fondamentali, chiudendo gli occhi su tutti gli altri e finendo, anzi per
dimenticarli. Ne sappiamo qualcosa in Italia, dove, alla fine del secolo
scorso, la “questione morale” invocata contro “tangentopoli”, finì per oscurare
altri aspetti etici legati al tema del bene comune e ridursi a uno strumento
politico per scalzare la classe politica della Prima Repubblica, avallando
l’avvento di un’altra, che si sarebbe presto rivelata immensamente meno
rispettosa sia dell’etica privata che, soprattutto, di quella pubblica.
Senza arrivare a questo estremo, nel moto di protesta
attualmente in corso si rischia di operare una “rimozione” non solo dei
monumenti, ma della storia di cui esse sono la testimonianza e di cui
l’Occidente è l’espressione, con le sue luci, ma anche con le sue grandi ombre,
che ancora gravano su tutti noi e condizionano pesantemente la nostra società e
che non riguardano solo la questione razziale.
C’è allora la triste possibilità che la distruzione, in sé
giusta, dei monumenti degli schiavisti, così come l’intera battaglia, in sé
fondamentale, contro il razzismo, facciano però dimenticare tutte le forme di
discriminazione oggi in pieno vigore, prima fra tutte quella, alimentata e
consacrata dalla logica del neocapitalismo, tra ricchi e poveri, sia
all’interno dei singoli Paesi, sia a livello planetario. Insospettisce, a
questo proposito, l’unanime sostegno che la protesta attuale sta ricevendo da
tanti che, dietro gli slogan del politically correct, sono perfettamente
integrati nel “sistema” e ne perseguono la conservazione.
Ben venga, allora, la rimozione dei simboli delle
ingiustizie e delle violenze del passato, ancora tristemente significativi per
giustificare quelle del presente. Ma che essa non serva come alibi per avallare
un’illusione ottica e che alla fine la principale vittoria non si riduca ad
avere estromesso dal catalogo di HBO Max Via col vento.
*Responsabile del sito della Pastorale della Cultura
dell'Arcidiocesi di Palermo, www.tuttavia.eu.
Scrittore ed Editorialista.
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