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sabato 6 giugno 2020

PERCHÉ MATTARELLA NON RESTI SOLO

Fiducia, ma anche richiesta di impegno
di Giuseppe Savagnone

«Qui a Codogno è presente l’Italia della solidarietà, della civiltà, del coraggio. In una continuità ideale in cui celebriamo ciò che tiene unito il nostro Paese: la sua forza morale. Da qui vogliamo ripartire». Il discorso del capo dello Stato per la festa della Repubblica, è stato pieno di fiducia non tanto nelle risorse produttive, quanto in quelle etiche, di un’Italia che esce duramente provata da quattro mesi di pandemia. Alla fiducia, però, si è accompagnato un preciso appello: «Questo è tempo di un impegno che non lascia spazio a polemiche e distinzioni. Tutti siamo chiamati a lavorare per il Paese, facendo appieno il nostro dovere, ognuno per la sua parte», ha scritto Mattarella nel tradizionale saluto ai prefetti.
Una permanente campagna elettorale
Parole che a molti sono sembrate di routine, ma che adombrano le fin troppo reali preoccupazioni del presidente della Repubblica, figura simbolica dell’unità della Nazione, in un contesto in cui da tutte le parti arrivano segnali che sembrano contraddirne lo spirito.
È sotto gli occhi di tutti lo scenario di un Paese dove sembra che tutti siano contro tutti. Altro che solidarietà! Già all’interno del governo – secondo uno stile che questa Terza Repubblica ha purtroppo consacrato a partire dal Conte 1 –, ogni partito parla ai suoi elettori, sottolineando la distanza che lo separa dagli alleati e in polemica con essi, in uno stile di permanente campagna elettorale, come se si trovasse all’opposizione.
Il vecchio sistema certamente non escludeva le differenze di punti di vista all’interno dell’esecutivo, ma prevedeva, da parte delle forze politiche che vi concorrevano, l’impegno di non enfatizzarle pubblicamente, per discuterne all’interno del consiglio dei ministri e offrire alla fine un’immagine unitaria del governo. Oggi è diventato normale, invece, dissociarsi a gran voce dai colleghi, arrivando al punto – lo abbiamo visto accadere pochi giorni fa – di lasciare in sospeso fino all’ultimo la scelta se appoggiare o meno la mozione di sfiducia presentata dall’opposizione nei confronti di un ministro. Al di là del merito della questione, quello che manca in questo momento storico è innanzi tutto una cultura di governo.
I meriti del presidente del Consiglio
Né, francamente, sembra avere la statura politica per ripristinarla l’attuale presidente del Consiglio. Dopo la disastrosa prova di inconsistenza offerta nel governo precedente, egli ha mostrato assai maggiore senso di responsabilità in questa seconda esperienza e gli italiani hanno apprezzato il suo coraggio nel prendere in mano la situazione, all’esplodere della pandemia, perdonandogli gli equivoci iniziali (quando aveva assicurato il Paese di avere la situazione sotto controllo) e le non poche incertezze e contraddizioni successive. Gli è stato rimproverato, dalle opposizioni, di aver fatto tutto da solo e di non averle ascoltate.
In realtà, chi ha un minimo di memoria sa che questa è stata per l’Italia una fortuna, che le ha evitato di fare la fine dell’Inghilterra e degli Stati Uniti.
Anche la linea di condotta verso l’Europa è stata abbastanza equilibrata, senza cedevolezze, ma evitando le clamorose rotture che i sovranisti esigevano. E i risultati, per quanto ancora parziali, si sono visti, dall’accordo tra Francia e Germania per avallare la soluzione proposta dal governo italiano, alla decisione della Banca Centrale Europea di raddoppiare gli acquisti di titoli per aiutare i Paesi colpiti dalla pandemia.
E i suoi limiti
Resta il fatto che Conte non è Napoleone, ma neanche la Merkel, e le sue capacità di mediatore fra le diverse anime del suo governo non riescono, ora che la paura del coronavirus ha riaperto il reciproco gioco al massacro, a evitare uno stato di permanente precarietà dell’esecutivo e una cronica lentezza nel prendere le decisioni (come è stato per il decreto contenente le misure per il rilancio dell’economia, slittato a metà maggio).
Pur senza avallare le aspre parole del presidente di Confindustria, Bonomi, secondo cui la politica di questo governo «rischia di fare più danni del Covid» – anch’esse certamente espressione di un clima tutt’altro che cooperativo –, bisogna riconoscere che la sensazione è di una seria difficoltà di Conte e dei suoi ministri nel far ripartire il Paese.
Manifestazione di forza o di debolezza?
Ma non sembra stare meglio in salute l’opposizione. Anche la manifestazione del 2 giugno, che nelle intenzioni degli organizzatori avrebbe dovuto dimostrare la capacità della destra di prendere in mano le sorti del Paese, ha evidenziato il contrario. E non tanto per la mancanza di distanziamento e di mascherine, quanto per l’assenza di reali proposte alternative.
«Siamo qua per risolvere i problemi, non per protestare, ma per proporre soluzioni», ha detto Salvini. Ma, di fatto le sue richieste concrete – «burocrazia zero e taglio delle tasse» – non possono non apparire dei semplici slogan a chiunque abbia un minimo di conoscenza dei problemi cronici del nostro Paese nel semplificare la burocrazia e combattere l’evasione per ridurre le aliquote fiscali (problemi, peraltro, che neppure il governo gialloverde, di cui Salvini era vicepremier, ha risolto).
Va aggiunto che molti manifestanti hanno insistito sulle dimissioni del governo e sulla richiesta di nuove elezioni. Anche la Meloni ha alluso alla necessità di un nuovo governo «scelto dai cittadini». Una polemica fondata sul misconoscimento delle regole costituzionali, che prevedono lo scioglimento delle Camere solo quando non è possibile una maggioranza scelta, appunto dai cittadini (che invece, pur sgangherata com’è, indubbiamente c’è), ma soprattutto completamente estranea al contesto attuale, dove l’inevitabile vuoto di potere che si determinerebbe sarebbe un puro e semplice suicidio. In ogni caso, non si tratta certo di un atteggiamento che miri alla collaborazione con l’attuale esecutivo, come continuano a ripetere i leader dell’opposizione.
A mancare è soprattutto la fiducia
Ma a preoccupare Mattarella dovrebbero essere soprattutto le notizie che arrivano dal “Paese reale”. Della classe politica, purtroppo, si conoscono da tempo i limiti. Ma il coronavirus sembra aver colpito al cuore italiani. Lo dicono già i dati relativi all’economia, che stenta a ripartire a livello produttivo soprattutto per il crollo della domanda. Un crollo che, secondo gli analisti, è determinato da un diffuso venir meno della fiducia. Gli italiani non spendono perché hanno paura del futuro. E questo è più drammatico della pura e semplice dicesa del Pil.
Sondaggi ufficiosi, ma purtroppo verosimili, parlano di una crescente disillusione nei confronti sia del governo che dell’opposizione, che può tradursi in una disastrosa disaffezione verso la democrazia. La rabbia cieca dei “gilet arancioni”, che hanno insultato anche il capo dello Stato, evoca lo spettro di un’anti-politica che può solo fare del male alla nostra Repubblica.
Disoccupati e inoccupati
Ma forse ancora più allarmanti sono i dati dell’Istat secondo cui ad aprile il tasso di disoccupazione scende al 6,3% dall’8,0% di marzo. Si tratta del minimo dal novembre del 2007. Sembrerebbe una buona notizia, e invece non lo è, perché questa diminuzione non deriva dall’aumento dei posti di lavoro – anzi, l’occupazione ha registrato una diminuzione di quasi 300 mila unità –, ma dal fatto che ci sono state 484 mila persone in meno a cercare lavoro (-23,9% rispetto a marzo), i cosiddetti “inoccupati” Un altro drammatico segnale della sfiducia di cui parlavamo.
Ricominciare dalla gente
Da dove ricominciare? Inutile negare che la politica ha un ruolo determinante nel provocare depressione e può averlo, viceversa, nel restituire speranza. Però, da quello che abbiamo visto e che è ragionevolmente prevedibile – ormai, in barba alle pretese dei 5stelle, il populismo ha dato vita a una nuova casta, non meno consolidata della precedente (solo meno qualificata) –, non c’è da aspettarsi che autonomamente cambi rotta.
Però, in democrazia, i rappresentanti sono obbligati a tenere contro di coloro che rappresentano, della gente. I sondaggi servono a questo. Forse è dal basso che qualche stimolo salutare potrebbe venire. Da una politica che non sia quella delle segreterie di partito e dei salotti televisivi (ormai divenuti il megafono dei leader), ma quella dei cittadini, delle persone comuni, nella misura in cui si rendono conto che, se non intervengono loro, la barca rischia di affondare.
È possibile sperare che dei semplici cittadini, in un clima di confronto costruttivo sulla rete, percepiscano la responsabilità del bene comune e facciano partire fra loro quel dialogo cooperativo, libero da sterili polemiche, che il capo dello Stato ha auspicato? E che, alla luce di questo sussulto di coscienza civile, facciano pesare le loro esigenze di solidarietà nazionale sui rispettivi partiti di riferimento, di destra o di sinistra che siano?
Non sono in grado di rispondere a queste domande. Forse puntare su quello che dicevo è utopia. So però che solo se gli italiani riusciranno a dar vita a un risveglio dal basso e a far sentire la loro voce, il presidente della Repubblica non resterà solo a sperare in un’Italia diversa.






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