Il popolo degli uccelli è vasto, e tra di essi ce ne sono di
maestosi. Il passero non appartiene certo all’assemblea dei «grandi»: pesa un
nonnulla, il suo piumaggio è scialbo, il suo cinguettio discreto. Le aquile
abbondano sulle bandiere dei paesi conquistatori. Il passero, invece, non incute
soggezione, è buffo e grazioso, forse un tantino insolente. Il suo corpo
minuscolo esulta di leggerezza e di semplicità, è una strofa viva uscita dal
poema del Creato e che modula gioiosamente l’aria della libertà. (Sylvie German)
Anche sul mio terrazzo cittadino i passeri si affacciano, impauriti solo dai più prepotenti merli.
È una gioia vedere questo uccello,
rivestito come un frate francescano (non per nulla in francese è chiamato
moineau, da moine, «monaco»), becchettare libero, bagnarsi nelle piccole pozze
d’acqua, esprimere la sua felicità di essere in vita, libero, senza preoccuparsi
del domani.
Penso così alle dolci e intense parole che gli ha dedicato la
scrittrice francese Sylvie Germain nel suo libretto "Portare il peso del
tempo".
Questo uccello aveva attirato anche l’attenzione di Gesù (si legga
Matteo 10,29-31) che ricordava come i passeri e gli altri volatili semplici e
modesti «non seminano, non mietono né ammassano nei granai, eppure il Padre
celeste li nutre» (6,26).
A noi, sempre incupiti, preoccupati del guadagno, tesi
al successo, desiderosi di predominio, essi insegnano la serenità, il distacco,
la gioia di vivere, l’armonia col mondo.
Realtà queste, di cui non conosciamo
più il sapore, immersi come siamo in cose sofisticate, in possessi pesanti, in
piaceri spossanti. «Il passero» conclude la Germain «ci offre un’immensa
lezione: come trasfigurare la povertà in festa, la vulnerabilità in
grazia».
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